lunedì 6 maggio 2013

Le memorie di Sbelluccio Bellini (Capitolo IV) [Trame]


IV.
NEL QUALE CERCO DI TENERMI LONTANO
IL PIU'POSSIBILE DALLA GLORIA MILITARE

Sono costretto ad ammettere che dopo la morte del capitano Mangini, cominciai a comportarmi nel peggiore dei modi e mi procurai una pessima compagnia. Invece di conquistarmi la simpatia dei miei superiori, pensavo soltanto al mezzo di rendermi la vita più facile e mi attaccavo a tutti i diversivi e alle distrazioni che potevo. Scesi a poco a poco a mescolarmi con gli altri sottufficiali e a condividere i loro divertimenti. Bere e giocare erano i nostri passatempi preferiti, e sarei sicuramente caduto nelle mani del demone del saccheggio e delle droghe se fossi rimasto più a lungo nell’esercito, ma accadde una cosa che mi fece allontanare dal servizio militare in una maniera piuttosto originale.
L’anno in cui il Cavaliere manifestò l’intenzione di ritirare le truppe italiane dall’Iraq, il nostro reggimento ebbe l’onore di partecipare ad alcune gloriose battaglie, in una delle quali io fui colpito da un pesante mattone sulla testa e mi vidi ricoverato nell’infermeria di campo, assieme ad una decina di soldati e un paio di ufficiali. Uno di questi, il tenente Ferragni, milanese in tutto e per tutto, era messo veramente male e aspettava solo che un chirurgo più esperto arrivasse con un elicottero per poter amputare un arto di cui rimaneva ben poco. Io fingevo di essere impazzito in seguito al colpo ricevuto in testa, e, con i pochi mezzi a disposizione nell’infermeria, nessuno dei presenti poteva comprovare la mia condizione. Così, scesa la notte, sgattaiolai fino alla branda del povero Ferragni, estrassi il coltello dalla fondina della mia uniforme e glielo puntai alla gola.
<<Gvande figlio di puttana!>>, furono i suoi primi sussurri quando, stancamente, aprì gli occhi, <<Aspetta che ti vibecchi e anche con una gamba sola tvovevò il modo di ammazzavti!>>, e seguirono alcune bestemmie.
Gli spiegai che avevo deciso di promuovermi e pretesi che egli mi avrebbe lasciato prendere la sua borsa, la sua uniforme e i suoi documenti di riconoscimento, altrimenti a nulla sarebbe servito l’imminente intervento del dottore. Per risultare ancora più credibile, afferrai velocemente un mitragliatore e alcune munizioni, dopodiché lo imbavagliai e lo ammanettai alla branda.
Provai un gran senso di sollievo quando, uscito dall’infermeria, notai la presenza di due sole guardie; il mio reggimento aveva lasciato il campo alcune ore prima, diretto verso la capitale di quel maledetto paese, e i soldati rimasti in quella retrovia si contavano sulle punte delle dita. Feci un cenno ad un alpino che non avevo mai visto da quelle parti.
<<Sono il tenente, Fevvagni>>, dissi tirando fuori un buffo accento milanese,<<Ho appena vicevuto il comando di lasciave il campo e povtave documenti dei Sevvizi Segveti a Nassivya. Dovveste munivmi di una macchina>>.
In cinque minuti, il mio Land Rover blindato sfrecciava attraverso il deserto a tutta velocità; guardai nello specchietto retrovisore scomparire le ultime luci dell’accampamento. Dopo un’ora buona mi fermai e, datomi un’occhiata attorno, cosparsi la mia divisa con un po’ di alcool etilico e le detti fuoco. Rimasi a gustarmi lo spettacolo per alcuni minuti, prima di ripartire. Avendo ammesso di essere diretto a Nassirya, presi tutt’altra direzione; spensi il satellitare, col quale sarebbe stato assai comodo per i miei commilitoni rintracciarmi, e decisi di aiutarmi solo con le mappe cartacee. Nel portaoggetti trovai dei sigari toscani spezzati, me ne accesi uno e osservai sorgere il sole sul deserto. Sentivo di essere ad un livello che mi si addiceva ed ero fermamente convinto a non decadere mai più dal rango di gentiluomo.
Nella tarda mattinata arrivai ad uno sperduto villaggio di pastori, non lontano da al-Najaf, città dalla quale sarei voluto andare diritto al confine con l’Arabia Saudita, e poi verso il caro vecchio continente. Fu lì che venni gentilmente fermato da un contingente di militari inglesi, presso i quali mi spacciai senza intoppi per il tenente Ferragni dell’Esercito Italiano. Conoscevo molto bene la loro lingua e ciò rafforzò non poco la mia credibilità. Le mie credenziali, sebbene non munite di una foto di riconoscimento, non lasciarono dubbio alcuno, ma i soldati che mi avevano interrogato decisero comunque di contattare il capitano Walport, loro ufficiale. Questo gran pezzo di gentiluomo era un marmittone sui sessant’anni, e i racconti bellici che lo riguardavano erano giunti, seppur romanzati e arricchiti, anche alle orecchie della mia guarnigione.
Andò a finire che fui costretto a parcheggiare il mio fuoristrada e fermarmi a pranzo con Walport ed altri dieci ufficiali, anziani quanto se non più del mio ospite. Gli inglesi, da bravi colonizzatori esperti, si erano stabiliti in uno dei più sontuosi palazzi della città, e lì consumai un pasto che mi riportò alla mente le prelibatezze del Natale al mio paese lontano. Furono stappate ottime bottiglie di vino rosso e bianco, quasi tutte francesi, e mi furono dedicati svariati brindisi. Nonostante la raffinatezza della compagnia e la cultura di tutti i presenti, era soprattutto Walport a mostrarmi ogni genere di gentilezza e a subissarmi di domande su Milano, che, per i documenti che avevo in tasca, risultava essere la mia città; e io rispondevo meglio che potevo. Ma questo meglio, devo ammetterlo, era piuttosto mediocre. Non sapevo niente di Milano, dei signori del castello sforzesco e delle famiglie nobili di lassù, ma spinto dalla vanagloria e dalle tendenze che avevo in quei tempi di vantarmi e di parlare in modo non sempre aderente alla verità, inventai mille storie. Gli descrissi il sindaco e i ministri nativi di lassù, dissi che l’ambasciatore italiano a Londra era mio zio, e arrivai, addirittura, a promettere al mio amico una lettera di raccomandazione per lui. Quando l’ufficiale mi chiese il nome di mio zio, non ero in grado di dargli il nome vero, e, maledicendo il mio errore, gli dissi che si chiamava Ferragni, esattamente come me. Quanto alle storie sul mio reggimento, naturalmente, non mancavano.
La mattina seguente avrei lasciato al-Najaf e, scusandomi, dissi al mio amico Walport e a tutti i presenti che mi sarei ritirato. Ma l’austero ufficiale, mi invitò a sedermi nuovamente e riempì di nuovo il mio bicchiere con dell’ottimo brandy. Non volevo apparire scortese e accettai con un largo sorriso il suo invito; mi osservò bere un sorso il liquore e toccandosi i baffi mi domandò: <<A quale membro dei servizi segreti deve portare quei dispacci, tenente?>>.
<<All’agente Garrone>>, risposi prontamente, riportando alla memoria un tizio in giacca e cravatta che aveva fatto capolino al nostro accampamento l’anno prima. A queste parole Walport scoppiò in una fragorosa risata e, schioccando rumorosamente le dita, fece avvicinare una guardia che non aveva mai lasciato la sala e ordinò di arrestarmi seduta stante.
<<Signore>>, replicai, <<Sono un’ufficiale italiano>>.
<<Lei è un impostore, un bugiardo e un disertore. L’ho capito in queste ultime tre ore e l’ho sospettato da quando mi è giunta la notizia del suo arrivo stamani. Abbiamo saputo che un uomo è fuggito da un campo italiano e io ho subito pensato che quell’uomo fosse lei. Le sue menzogne e le sue stronzate me lo hanno confermato. Ha la pretesa di portare dispacci ad un agente che è morto da dieci mesi. Deve raggiungere una città che è nella direzione opposta a quella in cui si trova. E come se non bastasse, ha uno zio ambasciatore a Londra che risponde all’assurdo nome di Ferragni. Ti vuoi unire a noi come mercenario, o vuoi essere riconsegnato ai tuoi?>>
<<Consideratemi arruolato, sir>>, risposi.
Potrei raccontare molte storie sull’esercito, ma essendo stato io stesso soldato, tutte le mie simpatie sono per la truppa e senza dubbio si direbbe che i miei discorsi hanno tendenze immorali e farò quindi meglio ad essere breve. Non voglio fare alcun romantico racconto della Guerra in Iraq, alla fine della quale, l’esercito di sua maestà britannica, tanto rinomato per il suo disciplinato valore, aveva come ufficiali e sottufficiali dei nativi del Regno Unito, è vero, ma era composto anche da uomini arruolati o rapiti, come me, da quasi tutte le nazioni di Europa. La vita che conduceva il soldato semplice era spaventosa, per qualsiasi persona che non avesse coraggio e resistenza di ferro. I castighi erano incessanti e ogni ufficiale aveva la facoltà di infliggerli. Non ho inoltre intenzione di fare la storia delle battaglie combattute dagli inglesi più di quanto ne abbia avuta di fare quelle sostenute al servizio dell’Italia. Feci il mio dovere in queste come in quelle, ed ebbi la furbizia di distinguermi durante l’assedio finale a Baghdad, dove salvai la vita al capitano Walport e uccisi uno dei più fidi collaboratori di Saddam.
Fu allora che il generale Murphy, comandante del mio reggimento e figura straordinariamente vicina a Sua Maestà, mi diede due medaglie d'oro al valore davanti alla truppa schierata, e mi disse: <<Ora ti do questa ricompensa; ma temo che un giorno o l'altro finirai male>>.
Giocai quelle medaglie e quel denaro che avevo raccolto fra i cadaveri durante l'assedio, spendendo fino all'ultimo centesimo, e fino a quando la guerra finì non fui mai senza almeno un dollaro nel portafogli.



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