lunedì 13 luglio 2020

Bob Dylan, "Rough and rowdy ways" [Suggestioni uditive]

Bob Dylan,
Rough and rowdy ways
(Columbia Records, 2 cd, 2020)















Da quasi un mese, Rough and rowdy ways continua a far parlare di sé. Un disco che ha riscritto il panorama della musica presente arrivando a esercitare una sua specifica funzione maieutica: porre domande che esigono una risposta. Anche chi diffida del Bob Dylan post-Oh Mercy non può disconoscere i meriti e non tenere conto dell'efficacia di questo 39esimo album in studio. Al contrario, il dylaniano sa di trovarsi da tempo di fronte a un limite che, apparentemente invalicabile, continua a spostarsi sempre più lontano (mi riferisco al limite "testamentario" con cui è stato trattato ogni lavoro di Dylan uscito dal 1997 in avanti). La critica, dalla più intransigente alla più facilona, è stata costretta ad adeguare e correggere le proprie interpretazioni già a marzo, quando in pieno lockdown è stato pubblicato Murder most foul, brano accompagnato da una breve nota scritta che non lasciava presagire, però, alcun nuovo album. Numerose letture di questo torrenziale singolo (il più lungo mai pubblicato da Dylan) sono andate accumulandosi senza supporre l'esistenza di ulteriore nuova musica. Successive concrezioni e rumors hanno fatto seguito all'apparizione di I contain moltitudes, che ha confuso tutti e nascosto forse più di quanto non rivelasse. Non poche interpretazioni, infatti, sono fioccate sulla riappropriazione di una frase di Whitman (già sfruttata, per altro, in Rolling Thunder Revue di Scorsese), sulle sovrastrutture di mitologia rock&roll (Red Cadillac and Black Moustache, tanto per dirne una, è un singolo Sun Records firmato Warren Smith e già inciso, illo tempore, da Dylan) e su tutta quella gabbia di riferimenti che hanno sviato pubblico e critica dal poter anche solo supporre che un nuovo album di inediti- il primo in otto anni -fosse, letteralmente, dietro l'angolo. 
Le allusioni a un artista che si muove fuori e dentro dal tempo immemorabile si susseguono da un quarto di secolo. La metafora dell'ebreo errante, del trovatore,  del cavaliere templare alla ricerca del Graal ha finito col mutare, dopo la pubblicazione di Tempest, in un qualcosa di oltre: Dylan è ormai il poeta disceso agli inferi e ritornato. Gli inferi possono aver assunto, di volta in volta, le sembianze della Scuola Holden in cui Alessandro Baricco lamentava un "Nobel immeritato" o quelle della redazione romana de la Repubblica (dove la buona anima di Gianni Mura asseriva, in tempi non sospetti, che dopo il 1985 "Dylan non ha più fatto nulla di interessante"). Gli stessi inferi a cui una cospicua  di appassionati ha relegato la trilogia incentrata sull'American Songbook, salvo poi ritrattare le proprie tesi, nella totale consapevolezza che senza Shadow in the night, Fallen angels e il monumentale Triplicate non avremmo mai avuto Rough and rowdy ways.
Al di là di simili ingenuità critiche, c'è chi già dopo i primi due singoli si è lamentato di questo eccesso di echi classici, citazioni e allusioni. La pubblicazione di False prophet (brano strutturalmente identico al 45 giri del 1954 If lovin' is believin' di Billy "The Kid" Emerson) e il conseguente annuncio di un nuovo album hanno innescato una lunga serie di congetture e ipotesi che hanno finito con l'essere valutate come elementi di sistemi del tutto estranei a ciò che è, nel 2020, l'industria discografica e musicale. Una pregevole intervista al New York Times (tradotta in Italia dal Corriere della Sera) ha fatto il resto, lasciando presagire un disco straordinario. Ciò non significa che siano mancate critiche più caute e meno entusiastiche, alcune sospettose, molte meno direttamente tranchant. Ma il limite forse più grave delle attuali letture in circolazione è di dare per scontato- talvolta esplicitamente -che Rough and rowdy ways sia un capolavoro, un prodotto artistico perfetto in tutto e per tutto o, mai vero, che sia il miglior album di Dylan dai tempi di Time out of mind
Rough and rowdy ways è per prima cosa un disco di rottura, antitetico (almeno musicalmente) a Tempest e, sicuramente, abbellito da una produzione più mainstream e ammiccante. Nei pezzi elettrici il suono è quello del NET biennio 2017-2019, la voce di Dylan gigiona come negli ultimi cinque anni. Al contrario di numerosi suoi coetanei sfornadischi, sciatteria e riempitivi qua non esistono: Dylan ha smesso da tempo di colmare l'assenza con artificiosità e opere inutili, anche perché egli è sempre stato, paradossalmente, presente e aggiornato sullo stato attuale delle cose (le interviste dell'ultimo decennio e il suo Nobel speech lo dimostrano). E poi non ne ha bisogno, lui cui la terza età non ha portato quel culmine ispirativo che aveva permesso a Leonard Cohen (convitato di pietra sul finale della splendida Mother of  Muses) di pubblicare ben tre album (sui suoi quattordici definitivi) fra i 78 e gli 82 anni. Il Dylan cantante convive placidamente col Dylan pittore, scultore, scrittore, produttore di whisky, e mentre i colleghi si sono prodigati con video in diretta durante la quarantena, raccolte fondi, iniziative di beneficenza e grande accuratezza esplicativa riguardo la propria metodologia di lavoro, Dylan se ne è uscito con un disco senza note di copertina e senza libretto, registrato nei consueti sette giorni (domenica inclusa) a Brooklyn nello scorso gennaio e supportato - oltre che da His Band -dalla partecipazione di Blake Mills e Fiona Apple e delle vecchie conoscenze Alan Pasqua e Benmont Tench. Nomi e cognomi che non godono di specifiche particolari: possiamo intuirne la presenza nei cori di I've made up my mind to give myself to you, nel piano di Murder most foul, nell'organo di Goodbye Jimmy Reed o nell'accordion di Key West.
Banale dirlo: ma Rough and rowdy ways ribadisce che Dylan, dopo sessant'anni di attività, non sia ancora riuscito, fisiologicamente, a pubblicare un disco di proprio materiale identico o anche minimamente simile al precedente. Paradossalmente, Rough and rowdy ways è un lavoro verboso (I Contain Moltitudes, Murder most foul) e intellettuale (il singolo appena citato e Key West sono, in tal senso, apicali) ma pure divertente (My own version of you e Black rider), lungo ma non pesante. Come la trilogia che lo precede, sarebbe il perfetto prodotto pop con cui fare breccia nel cuore di una fantomatica nuova fanbase (e si parla di un baldanzoso 79enne!), se solo i ragazzini fossero interessati a certa musica e non conoscessero Frank Sinatra solo attraverso Michael Bublé. La paura della morte lascia spazio a un dialogo con la stessa. Il marciume nascosto nelle fibre dei personaggi di Tempest scompare in favore della grande Storia (Giulio Cesare, Marx, Freud, il generale Patton, ecc.), mentre Dylan ribadisce sin dall'inizio che un uomo può contenere e contemporaneamente distruggere tutto dentro di sé, amore e odio, fede e dubbi, verità e menzogna. L'unico aspetto ineliminabile è la ricerca della bellezza: almeno un oceano e intere vite separano le Highlands del 1997 dalla Key West del 2020, ma lo scopo del viaggio, il fine di tutto, è rimasto immutato. In un commento online ho letto un pensiero  molto semplice eppure perfettamente in grado di fare il punto sia su Key West che su tutta la produzione dylaniana degli ultimi tre decenni: "ci vuole una vita per scrivere canzoni come queste, ma forse ce ne vuole una anche per dedicar loro la nostra attenzione". Ecco, Highlands, Sugar Baby, Ain't Talkin', Roll on John, Key West hanno il comune, ingrato destino, di essere state tutte scambiate per piccoli testamenti, tutti ultimi brani dell'ennesimo, ipotetico, ultimo disco. Un approccio apotropaico ormai vecchio, usurato, perfino (fortunatamente) fallimentare. Ben più onesto ammettere che Rough and rowdy ways sia un disco ottimo (a chi importa e cosa cambia sapere se sia o meno l'ultimo?), in alcuni momenti eccezionale, ma non miracoloso. Poeticamente, pur nella sua empietà e crudezza linguistico-musicale, Tempest continua ad apparire più stimolante e fra qualche mese la prospettiva sarà cambiata, si sarà fatta più contenuta e oggettiva (un po' come già accaduto ai tempi del sopravvalutato Modern Times). L'entusiasmo- specie considerata la pochezza che la musica di oggi è in grado di restituire al grande pubblico -è relativo quando non oggettivamente comprensibile, ma affrontare Dylan presuppone sempre l'essere dotati di un bagaglio di conoscenze musicali superiori alla media: non per spirito elitario, ma perché oggi più di sempre vale l'assunto per cui "Dylan è per molti, ma non per tutti". Tanto per chiudere, sinteticamente, un confronto che, come consuetudine, lascia il tempo che trova: Tempest è un'opera costituzionalmente deflagrante e del tutto in grado di imporsi come capolavoro il giorno stesso della propria uscita; Rough and rowdy ways è un disco meno omogeneo ma comunque straordinario, un'opera di consumo che è in circolo da quasi un mese e cresce ascolto dopo ascolto, senza mai smettere di far parlare di sé. Un racconto dei racconti dove la poesia è uno stato di necessità imprescindibile ed è cantata in stato di grazia, sottolineando che queste dieci canzoni non rappresentano solo un'ulteriore e fortunata tappa della carriera di un vecchio cantautore, ma sono una sorta di approfondimento di un modo di fare e pensare la musica americana. Il tutto calato in un presente dove il tempo (compreso il tempo di chi ascolta) erode il circostante e sullo sfondo si susseguono l'omicidio Kennedy, Frankenstein, La barcarola di Offenbach e il fantasma dell'amico Garth Hudson. Un mondo interiore che tramonta nella Thule ribaltata e idealizzata delle Keys Island e che fornisce la possibilità di una visita a chiunque abbia voglia di fermarsi e ascoltare.