mercoledì 2 dicembre 2020

Top 2020 albums

Basterebbe la foto qua sopra (lo scatto risale alla notte dei Grammy del 1998) a condensare questo 2020 musicale, ma il fascino della classifica resiste al tempo, alle mode, alle tendenze e all'usura. Proprio come i grandi artisti.
Buona lettura e buon ascolto.

1. Bob Dylan, Rough and Rowdy Ways (Columbia Records, 2 Cd)
2. Fiona Apple, Fetch the Bolt Cutters (Epic Records)
3. Lamb of God, Lamb of God (Nuclear Blast)
4. Phoebe Bridgers, Punisher (Dead Oceans)
5. Kevin Morby, Sundowner (Dead Oceans)
6. The Dream Syndicate, The universe inside (Anti Records)
7. Nicolas Jaar, Cenizas (Other People)
8. Pretty Things, Bare as bone, bright as blood (Madfish)
9. The Strokes, The new abnormal (Sony Music)
10. Bill Fay, Countless Branches (Dead Oceans)

Best Live album.
The War on Drugs, Live Drugs (High Quality Rec)

Best Jazz album.
Mulatu Astatke & Black Jesus Experience, To know without knowing (Agogo Records)

Best Single album.
Lana Del Rey, Let me love you like a woman (Interscope)

Best Italian album.
Tonno, Quando ero satanista (Woodworm Label)

Best Soundtrack.
Gramatik, Cyberpunk 2020 OST (gramatik.net)

Best Retrospective album.
Neil Young, Homegrown (Reprise)

Best Box-set.
New Riders of the Purple Sage, Bear's Sonic Journals: Dawn of the NROTPS (Vidol, 5 Cd)

Best Reissue album.
Grateful Dead, American Beauty 50th Anniversary Edition (Rhino Records, 3 Cd)





lunedì 13 luglio 2020

Bob Dylan, "Rough and rowdy ways" [Suggestioni uditive]

Bob Dylan,
Rough and rowdy ways
(Columbia Records, 2 cd, 2020)















Da quasi un mese, Rough and rowdy ways continua a far parlare di sé. Un disco che ha riscritto il panorama della musica presente arrivando a esercitare una sua specifica funzione maieutica: porre domande che esigono una risposta. Anche chi diffida del Bob Dylan post-Oh Mercy non può disconoscere i meriti e non tenere conto dell'efficacia di questo 39esimo album in studio. Al contrario, il dylaniano sa di trovarsi da tempo di fronte a un limite che, apparentemente invalicabile, continua a spostarsi sempre più lontano (mi riferisco al limite "testamentario" con cui è stato trattato ogni lavoro di Dylan uscito dal 1997 in avanti). La critica, dalla più intransigente alla più facilona, è stata costretta ad adeguare e correggere le proprie interpretazioni già a marzo, quando in pieno lockdown è stato pubblicato Murder most foul, brano accompagnato da una breve nota scritta che non lasciava presagire, però, alcun nuovo album. Numerose letture di questo torrenziale singolo (il più lungo mai pubblicato da Dylan) sono andate accumulandosi senza supporre l'esistenza di ulteriore nuova musica. Successive concrezioni e rumors hanno fatto seguito all'apparizione di I contain moltitudes, che ha confuso tutti e nascosto forse più di quanto non rivelasse. Non poche interpretazioni, infatti, sono fioccate sulla riappropriazione di una frase di Whitman (già sfruttata, per altro, in Rolling Thunder Revue di Scorsese), sulle sovrastrutture di mitologia rock&roll (Red Cadillac and Black Moustache, tanto per dirne una, è un singolo Sun Records firmato Warren Smith e già inciso, illo tempore, da Dylan) e su tutta quella gabbia di riferimenti che hanno sviato pubblico e critica dal poter anche solo supporre che un nuovo album di inediti- il primo in otto anni -fosse, letteralmente, dietro l'angolo. 
Le allusioni a un artista che si muove fuori e dentro dal tempo immemorabile si susseguono da un quarto di secolo. La metafora dell'ebreo errante, del trovatore,  del cavaliere templare alla ricerca del Graal ha finito col mutare, dopo la pubblicazione di Tempest, in un qualcosa di oltre: Dylan è ormai il poeta disceso agli inferi e ritornato. Gli inferi possono aver assunto, di volta in volta, le sembianze della Scuola Holden in cui Alessandro Baricco lamentava un "Nobel immeritato" o quelle della redazione romana de la Repubblica (dove la buona anima di Gianni Mura asseriva, in tempi non sospetti, che dopo il 1985 "Dylan non ha più fatto nulla di interessante"). Gli stessi inferi a cui una cospicua  di appassionati ha relegato la trilogia incentrata sull'American Songbook, salvo poi ritrattare le proprie tesi, nella totale consapevolezza che senza Shadow in the night, Fallen angels e il monumentale Triplicate non avremmo mai avuto Rough and rowdy ways.
Al di là di simili ingenuità critiche, c'è chi già dopo i primi due singoli si è lamentato di questo eccesso di echi classici, citazioni e allusioni. La pubblicazione di False prophet (brano strutturalmente identico al 45 giri del 1954 If lovin' is believin' di Billy "The Kid" Emerson) e il conseguente annuncio di un nuovo album hanno innescato una lunga serie di congetture e ipotesi che hanno finito con l'essere valutate come elementi di sistemi del tutto estranei a ciò che è, nel 2020, l'industria discografica e musicale. Una pregevole intervista al New York Times (tradotta in Italia dal Corriere della Sera) ha fatto il resto, lasciando presagire un disco straordinario. Ciò non significa che siano mancate critiche più caute e meno entusiastiche, alcune sospettose, molte meno direttamente tranchant. Ma il limite forse più grave delle attuali letture in circolazione è di dare per scontato- talvolta esplicitamente -che Rough and rowdy ways sia un capolavoro, un prodotto artistico perfetto in tutto e per tutto o, mai vero, che sia il miglior album di Dylan dai tempi di Time out of mind
Rough and rowdy ways è per prima cosa un disco di rottura, antitetico (almeno musicalmente) a Tempest e, sicuramente, abbellito da una produzione più mainstream e ammiccante. Nei pezzi elettrici il suono è quello del NET biennio 2017-2019, la voce di Dylan gigiona come negli ultimi cinque anni. Al contrario di numerosi suoi coetanei sfornadischi, sciatteria e riempitivi qua non esistono: Dylan ha smesso da tempo di colmare l'assenza con artificiosità e opere inutili, anche perché egli è sempre stato, paradossalmente, presente e aggiornato sullo stato attuale delle cose (le interviste dell'ultimo decennio e il suo Nobel speech lo dimostrano). E poi non ne ha bisogno, lui cui la terza età non ha portato quel culmine ispirativo che aveva permesso a Leonard Cohen (convitato di pietra sul finale della splendida Mother of  Muses) di pubblicare ben tre album (sui suoi quattordici definitivi) fra i 78 e gli 82 anni. Il Dylan cantante convive placidamente col Dylan pittore, scultore, scrittore, produttore di whisky, e mentre i colleghi si sono prodigati con video in diretta durante la quarantena, raccolte fondi, iniziative di beneficenza e grande accuratezza esplicativa riguardo la propria metodologia di lavoro, Dylan se ne è uscito con un disco senza note di copertina e senza libretto, registrato nei consueti sette giorni (domenica inclusa) a Brooklyn nello scorso gennaio e supportato - oltre che da His Band -dalla partecipazione di Blake Mills e Fiona Apple e delle vecchie conoscenze Alan Pasqua e Benmont Tench. Nomi e cognomi che non godono di specifiche particolari: possiamo intuirne la presenza nei cori di I've made up my mind to give myself to you, nel piano di Murder most foul, nell'organo di Goodbye Jimmy Reed o nell'accordion di Key West.
Banale dirlo: ma Rough and rowdy ways ribadisce che Dylan, dopo sessant'anni di attività, non sia ancora riuscito, fisiologicamente, a pubblicare un disco di proprio materiale identico o anche minimamente simile al precedente. Paradossalmente, Rough and rowdy ways è un lavoro verboso (I Contain Moltitudes, Murder most foul) e intellettuale (il singolo appena citato e Key West sono, in tal senso, apicali) ma pure divertente (My own version of you e Black rider), lungo ma non pesante. Come la trilogia che lo precede, sarebbe il perfetto prodotto pop con cui fare breccia nel cuore di una fantomatica nuova fanbase (e si parla di un baldanzoso 79enne!), se solo i ragazzini fossero interessati a certa musica e non conoscessero Frank Sinatra solo attraverso Michael Bublé. La paura della morte lascia spazio a un dialogo con la stessa. Il marciume nascosto nelle fibre dei personaggi di Tempest scompare in favore della grande Storia (Giulio Cesare, Marx, Freud, il generale Patton, ecc.), mentre Dylan ribadisce sin dall'inizio che un uomo può contenere e contemporaneamente distruggere tutto dentro di sé, amore e odio, fede e dubbi, verità e menzogna. L'unico aspetto ineliminabile è la ricerca della bellezza: almeno un oceano e intere vite separano le Highlands del 1997 dalla Key West del 2020, ma lo scopo del viaggio, il fine di tutto, è rimasto immutato. In un commento online ho letto un pensiero  molto semplice eppure perfettamente in grado di fare il punto sia su Key West che su tutta la produzione dylaniana degli ultimi tre decenni: "ci vuole una vita per scrivere canzoni come queste, ma forse ce ne vuole una anche per dedicar loro la nostra attenzione". Ecco, Highlands, Sugar Baby, Ain't Talkin', Roll on John, Key West hanno il comune, ingrato destino, di essere state tutte scambiate per piccoli testamenti, tutti ultimi brani dell'ennesimo, ipotetico, ultimo disco. Un approccio apotropaico ormai vecchio, usurato, perfino (fortunatamente) fallimentare. Ben più onesto ammettere che Rough and rowdy ways sia un disco ottimo (a chi importa e cosa cambia sapere se sia o meno l'ultimo?), in alcuni momenti eccezionale, ma non miracoloso. Poeticamente, pur nella sua empietà e crudezza linguistico-musicale, Tempest continua ad apparire più stimolante e fra qualche mese la prospettiva sarà cambiata, si sarà fatta più contenuta e oggettiva (un po' come già accaduto ai tempi del sopravvalutato Modern Times). L'entusiasmo- specie considerata la pochezza che la musica di oggi è in grado di restituire al grande pubblico -è relativo quando non oggettivamente comprensibile, ma affrontare Dylan presuppone sempre l'essere dotati di un bagaglio di conoscenze musicali superiori alla media: non per spirito elitario, ma perché oggi più di sempre vale l'assunto per cui "Dylan è per molti, ma non per tutti". Tanto per chiudere, sinteticamente, un confronto che, come consuetudine, lascia il tempo che trova: Tempest è un'opera costituzionalmente deflagrante e del tutto in grado di imporsi come capolavoro il giorno stesso della propria uscita; Rough and rowdy ways è un disco meno omogeneo ma comunque straordinario, un'opera di consumo che è in circolo da quasi un mese e cresce ascolto dopo ascolto, senza mai smettere di far parlare di sé. Un racconto dei racconti dove la poesia è uno stato di necessità imprescindibile ed è cantata in stato di grazia, sottolineando che queste dieci canzoni non rappresentano solo un'ulteriore e fortunata tappa della carriera di un vecchio cantautore, ma sono una sorta di approfondimento di un modo di fare e pensare la musica americana. Il tutto calato in un presente dove il tempo (compreso il tempo di chi ascolta) erode il circostante e sullo sfondo si susseguono l'omicidio Kennedy, Frankenstein, La barcarola di Offenbach e il fantasma dell'amico Garth Hudson. Un mondo interiore che tramonta nella Thule ribaltata e idealizzata delle Keys Island e che fornisce la possibilità di una visita a chiunque abbia voglia di fermarsi e ascoltare.

mercoledì 17 giugno 2020

Neil Young, "Homegrown" [Suggestioni uditive]

Neil Young,
Homegrown
(Reprise Records)




















Fra il 1974 e il 1975, Neil Young continua, imperterrito, a realizzare le sue avventure musicali sospese fra acustica ed elettricità. Al Broken Arrow, materializza grazie alla magia dell'home-recording i suoi sogni più immediati e capricciosi, gioca con turnisti e compagni di viaggio e si inventa una sfilza di progetti che rendono implausibile qualsiasi collocazione immediata nel circuito discografico ufficiale. Questo accade, in particolare, con due album divenuti leggendari per la scelta del loro creatore di rimandarne puntualmente la pubblicazione: Homegrown e Chrome Dreams. Due viaggi sonori impossibili da percorrere per vie ufficiali, almeno fino ad oggi, quando Homegrown, intanto, ha visto la luce.
Homegrown sembra godere, sin dal primo ascolto, di un concept di fondo: ha come protagonista un artista tormentato che però rifiuta di realizzare un'opera squisitamente sentimentale e così finisce col rifugiarsi nella dimensione agricola del proprio privato. Ne consegue, nel bene e nel male, una galleria di quadretti provinciali e idilliaci dove il country rivisitato di Separate Ways e Try si intreccia con stornelli da coltivatore amatoriale di canapa (Homegrown, qui presente in una alternate version piacevole ma inferiore rispetto a quella apparsa in American Stars N'Bars) e porta Young a varcare la soglia del blues da sala biliardi (We Don't Smoke It No More, che dei blues del Loner non passerà di certo alla storia come il migliore), a intrecciare i sentieri del reading (Florida), ad alzare il volume delle chitarre in quella che è Vacancy (secondo singolo anticipatore e probabilmente miglior brano del disco).
Il messaggio di fondo è ancora affidato al pensiero già esposto nei solchi- quelli sì, geniali -di Time Fades Away: solo la musica può vincere il dolore. E quindi la splendida Mexico, l'arcinota Love is a rose (svelata al mondo, in questa stessa versione, già ai tempi di Decade), Kansas e l'originaria White Line si attestano, da subito, come vertici della produzione più intimista del canadese. Da sottolineare che Little Wing e Star of Bethlehem sono identiche a quelle che compaiono rispettivamente in Hawks & Doves e American Strars N'Bars e vanno ad abbellire questa parabola bucolica. Una novella narrata alla luce della luna del raccolto, una favola in cui il protagonista- seppur con una sua tenerezza -non perdona quelle rockstar che sviliscono la propria dignità artistica e la propria intelligenza (un tema che riaffiorerà, predominante, a fine anni '70 in Rust never sleeps). Un disco che rischia di deludere chi già ne conosceva, per vie traverse, i segreti e l'aspetto, ma pure che si impone su molti altri fronti come un recupero prezioso, un ulteriore tassello imperdibile assemblato nel garage del canadese.

venerdì 12 giugno 2020

Bob Dylan al NY Times [Interviste]


*Quanto segue è la mia libera traduzione dell'intervista comparsa il 12 giugno 2020 sul New York Times.*

Alcuni anni fa, seduto all'ombra degli alberi di Saratoga Springs, New York, ho avuto una discussione di due ore con Bob Dylan che ha toccato Malcolm X, la Rivoluzione francese, Franklin Roosevelt e la Seconda Guerra Mondiale. A un certo punto, mi chiese cosa sapevo del massacro di Sand Creek del 1864. Quando risposi “Non abbastanza”, si alzò dalla sedia pieghevole, salì sul suo tourbus e tornò cinque minuti dopo con le fotocopie che descrivevano come le truppe statunitensi avevano massacrato centinaia di pacifici Cheyenne e Arapahoe nel sud-est del Colorado. Data la natura della nostra relazione, mi sono sentito a mio agio nel contattarlo ad aprile, quando, nel mezzo della crisi del coronavirus, ha inaspettatamente pubblicato l'epica canzone di 17 minuti Murder Most Foul sull'assassinio di Kennedy. Da otto anni non rilasciava un'intervista (al di fuori della dichiarazione apparsa sul suo sito web in occasione della vittoria del Premio Nobel per la letteratura nel 2016), eppure ha accettato una chat telefonica dalla sua casa di Malibu, che si è rivelata essere anche la sua unica intervista prima del rilascio di Rough and Rowdy Ways, primo album di brani originali dai tempi di Tempest (2012).
Come la maggior parte delle conversazioni con Dylan, quella su Rough and Rowdy Ways ha finito col coprire territori complessi: trance e inni, blues provocatori, desideri d'amore, giustapposizioni comiche, giochi di parole, ardore patriottico, fermezza anticonformista, cubismo lirico, riflessioni dell'età del crepuscolo e contentezza spirituale. Nell'eccezionale performance di Goodbye Jimmy Reed, Dylan onora il bluesman del Mississippi con riff armonici feroci come un drago e testi osceni. Nel lento blues Crossing the Rubicon, dice di sentire “le ossa sotto la mia pelle” e considera le sue opzioni prima della morte: “Tre miglia a nord del purgatorio/ a un passo dal grande oltre / Ho pregato la croce e ho baciato le ragazze e ho attraversato il Rubicone”. Mother of Muses è un inno al mondo naturale, con cori gospel e figure militari come William Tecumseh Sherman e George Patton (“che han aperto la strada a Presley per cantare / che ha aperto la strada a Martin Luther King”). E Key West (Philosopher's Pirate) è una meditazione eterea sull'immortalità ambientata in un viaggio lungo la Route 1 verso le Florida Keys, con la fisarmonica di Donnie Herron che ricorda il Garth Hudson della Band e, di fondo, un sentito omaggio a Ginsberg, Corso e Kerouac.
Forse un giorno scriverà una canzone o dipingerà un quadro per onorare George Floyd. Negli anni '60 e '70, in seguito al lavoro dei leader neri del movimento per i diritti civili, Dylan lavorò anche per esporre l'arroganza del privilegio bianco e la cattiveria dell'odio razziale in America attraverso canzoni come George Jackson, Only a pown in their game e The Lonesome Death of Hattie Carroll. Una delle prese di posizione più accanite sulla polizia e il razzismo arriva dalla sua ballata del 1976 Hurricane: “A Paterson è così che vanno le cose / Se sei nero potresti anche non farti vedere per strada / A meno che tu non voglia disegnare il calore”. Ho avuto un ulteriore, breve incontro con Dylan (79 anni compiuti lo scorso 24 maggio), un giorno dopo la morte di Floyd a Minneapolis. Chiaramente scosso dall'orrore che si era verificato nel suo stato d'origine, sembrava depresso. “Non mi ha fatto molto male vedere George torturato a morte in quel modo”, ha detto. “Era qualcosa che va oltre il malvagio. Speriamo che la giustizia arrivi rapidamente per la famiglia Floyd e per la nazione”. Quelli che seguono sono estratti modificati da due nostre conversazioni.
TIMES- Murder Most Foul è stata scritta come un elogio nostalgico per un tempo perduto?
BD- Per me non è nostalgico. Non penso a Murder Most Foul come una a una glorificazione del passato o a una sorta di espulsione verso un'età perduta. Mi parla al momento. Lo ha sempre fatto, specialmente quando ne stavo scrivendo i testi.
TIMES- Qualcuno ha messo all'asta un fascio di trascrizioni inedite negli anni '90 che avresti scritto sull'omicidio di J.F.K. Erano note in prosa per un saggio o speravi di scrivere una canzone come Murder Most Foul da molto tempo?
BD- Non ero a conoscenza del fatto che avrei voluto scrivere una canzone su J.F.K da molto tempo. Molti di questi documenti messi all'asta sono falsi e i falsi sono facili da individuare, perché qualcuno firma sempre il mio nome in fondo.
TIMES- Sei stato sorpreso dal fatto che questa canzone di 17 minuti sia stata la tua prima hit a finire in testa alla classifica Billboard?
BD- Sì, sì.
TIMES- I Contain Multitudes ha un passaggio potente: “Dormo con la vita e con la morte nello stesso letto”. Suppongo che ci sentiamo tutti così quando raggiungiamo una certa età. Cioè, tu pensi spesso alla mortalità?
BD- Penso all'estinzione della razza umana. Il lungo e strano viaggio di una scimmia nuda. Non per essere leggero, ma la vita di tutti è davvero mostruosamente transitoria. Ogni essere umano, non importa quanto forte o potente, è fragile quando si tratta di morire. Ci penso in termini generali, comunque, non in modo personale.
TIMES- Permane comunque una sorta di sentimento apocalittico in Murder Most Foul. Sei preoccupato che nel 2020 abbiamo superato un punto di non ritorno? Che tecnologia e iperindustrializzazione lavoreranno contro la vita umana sulla Terra?
BD- Certo, ci sono molte ragioni per essere preoccupati per questo. C'è sicuramente molta più ansia e nervosismo in giro di quanto non ci fosse prima. Ma questo vale solo per le persone di una certa età come me e te. Abbiamo la tendenza a vivere nel passato, ma siamo solo noi. I giovani non hanno questa tendenza. Non hanno un passato, quindi tutto ciò che sanno è ciò che vedono e sentono, e crederanno a tutto. Tra 20 o 30 anni saranno in prima linea. Quando vedrai qualcuno di 10 anni, avrà il controllo tra 20 o 30 anni e non avrà la minima idea del mondo che c'era prima. I giovani che sono adolescenti non hanno praticamente ricordi nella loro memoria. Quindi è probabilmente meglio entrare in questa mentalità il più presto possibile, perché è la realtà. Per quanto riguarda la tecnologia, rende tutti vulnerabili. Ma i giovani non la pensano così. A loro potrebbe importare di meno. Le telecomunicazioni e la tecnologia avanzata sono il mondo in cui sono nati. Il nostro mondo è già obsoleto.
TIMES- Cito una frase in False prohet: “Sono l'ultimo dei migliori/ puoi seppellire il resto”. Questa mi ha ricordato le recenti morti di John Prine e Little Richard. Hai ascoltato, in segno di tributo, la loro musica dopo che sono morti?
BD- Entrambi quei ragazzi erano trionfali nel loro lavoro. Non hanno bisogno di nessun tributo. Tutti sanno cosa hanno fatto e chi erano. E meritano tutto il rispetto e l'acclamazione che hanno ricevuto. Nessun dubbio a riguardo. Ma io con Little Richard ci sono cresciuto. E lui era lì prima di me. La sua musica ha contribuito a far scattare la scintilla. Mi ha fatto sintonizzare su cose che non avrei mai imparato da solo. Quindi penso a lui in maniera differente. John è arrivato dopo di me. Quindi non è la stessa cosa. Li riconosco, ma in modo diverso.
TIMES- Perché molte persone non hanno prestato la dovuta attenzione alla produzione gospel di Little Richard?
BD- Probabilmente perché la musica gospel è la musica che porta buone notizie e in questi giorni di buone notizie non ce ne sono. Le buone notizie nel mondo di oggi sono come un fuggitivo, trattato come un bandito e messo in fuga. Castigato. Tutte quelle che riceviamo sono notizie pressoché inutili. E dobbiamo ringraziare l'industria dei media per questo. Agitano le persone coi pettegolezzi e la biancheria sporca. Notizie oscure che ti deprimono e ti spaventano. Dall'altra parte abbiamo le notizie gospel, il Vangelo, così denso di esempi di coraggio. Puoi dare ritmo alla tua vita o comunque provarci. E puoi farlo con onore e principi. Ci sono teorie riguardanti l'effettiva verità nel Vangelo, ma per la maggior parte delle persone non è importante. Le loro vite sono consumate troppo in fretta. Troppe influenze negative. Sesso, politica e omicidio sono la strada da percorrere se vuoi attirare l'attenzione della gente. Ci eccitano, questo è il nostro problema. Little Richard era un grande cantante gospel. Ma penso che sia stato visto come un estraneo o un intruso nel mondo della musica sacra. Non l'hanno accettato lì. E ovviamente il mondo del rock'n'roll voleva fargli cantare Good Golly, Miss Molly. Quindi la sua musica gospel non è stata accettata in nessuno dei due mondi. Penso che sia successa la stessa cosa a Sister Rosetta Tharpe. Non penso che nessuno dei due se ne sia preoccupato troppo. Entrambi erano di quelli chiamati “persone di buon carattere”. Little Richard: autentico, molto talentuoso e conosceva se stesso, non era influenzato da nulla che provenisse dall'esterno. So che era così. Ma anche Robert Johnson, anzi perfino di più. Robert è stato uno dei più grandi geni creativi di tutti i tempi, ma probabilmente non aveva un pubblico a cui rivolgersi. Era così in anticipo sui tempi che non l'abbiamo ancora raggiunto. Il suo status oggi non potrebbe essere più elevato di così, eppure, ai suoi tempi, quelle canzoni incontravano un uditorio di persone confuse. E questo ti dimostra che solo le persone fantastiche seguono il loro percorso.
TIMES- Nell'album Tempest suonavi Roll on John come omaggio a John Lennon. C'è un'altra persona per la quale vorresti scrivere una ballata?
BD- Quelle canzoni, per me, sono come un qualcosa di appena uscito dal nulla che vaga nell'aria. Non ho mai avuto intenzione di scriverne nessuna. Ma premesso tutto questo, ci sono alcuni personaggi pubblici che sono solo nel tuo subconscio per una ragione o per l'altra. Nessuna di quelle canzoni coi nomi designati è scritta intenzionalmente. Cadono dallo spazio. Sono sbalordito come chiunque altro per il modo in cui riesco a scriverle. La tradizione popolare ha una lunga storia di canzoni sulle persone, però si parla di John Henry, del Signor Garfield, di Roosevelt. Immagino di essere semplicemente bloccato in quella tradizione.
TIMES- Onori molti grandi artisti della storia della musica nelle tue canzoni. La tua menzione di Don Henley e Glenn Frey in Murder Most Foul è stata una sorpresa per me. Quali canzoni degli Eagles ti piacciono di più?
BD- New Kid in Town, Life in the fastlsane, e poi Pretty Maids All in a Row, che potrebbe essere una delle migliori canzoni di sempre.
TIMES- Nella stessa canzone fai riferimento anche ad Art Pepper, Charlie Parker, Bud Powell, Thelonious Monk, Oscar Peterson e Stan Getz. Ecco, in che modo il jazz ti ha ispirato come cantautore e poeta nella tua lunga carriera? Ci sono artisti jazz che hai ascoltato ultimamente?
BD- Forse le prime cose di Miles Davis su Capitol Records. Ma cos'è il jazz poi? Dixieland, bebop, fusion sparata ad alto volume? Cosa si può chiamare jazz? Sonny Rollins? Mi piacciono le cose calypso di Sonny, ma è jazz? Jo Stafford, Joni James, Kay Starr, penso che fossero tutti cantanti jazz. King Pleasure, questa è la mia idea di cantante jazz. Non lo so, puoi inserire qualsiasi cosa in quella categoria. Il jazz risale ai ruggenti anni Venti. Paul Whiteman fu chiamato il re del jazz. Sono sicuro che se avessi fatto la stessa domanda a Lester Young, non avrebbe saputo di cosa stai parlando. Però, qualcuno mi ha mai ispirato? Bene sì. Probabilmente molto. Ella Fitzgerald come cantante mi ispira. Oscar Peterson come pianista, assolutamente. Qualcuno mi ha ispirato come cantautore? Sì, Ruby, My Dear di Monk. Quella canzone mi ha spinto in una direzione per fare qualcosa del genere. Ricordo di averla ascoltata ancora e ancora.
TIMES- Qual è il ruolo dell'improvvisazione nella tua musica?
BD- Nessuno. Non è possibile cambiare la natura di una canzone dopo averla inventata. Puoi impostare diversi schemi di chitarra o piano sulle linee strutturali e andare da lì, ma non è improvvisazione. L'improvvisazione ti lascia aperto a prestazioni buone o cattive e l'idea è di rimanere coerente. Fondamentalmente suoni sempre la stessa cosa nel modo più perfetto possibile.
TIMES- I Contain Multitudes è sorprendentemente autobiografica in alcune parti. Gli ultimi due versi emanano uno stoicismo che non fa prigionieri, mentre il resto della canzone sembra un confessionale umoristico. Ti sei divertito alle prese con impulsi contraddittori di te stesso e della natura umana in generale?
BD- Non ho dovuto davvero scervellarmi molto. È il tipo di cosa in cui accumuli versi in stile “flusso di coscienza” e poi li lasci in pace e torni a tirarne fuori le cose. In quella particolare canzone, gli ultimi versi sono arrivati per primi. Ecco in che direzione andava sempre la canzone. Ovviamente, il catalizzatore per la canzone è il titolo. È uno di quelli in cui scrivi per istinto. Un po' in uno stato di trance. La maggior parte delle mie canzoni recenti sono così. I testi sono veri, tangibili, non sono metafore. Le canzoni sembrano conoscersi e sanno che posso cantarle, vocalmente e ritmicamente. In un certo senso si scrivono e contano su di me per essere cantate.
TIMES- Ancora una volta in I contain moltitudes fai il nome di molte persone famose. Cosa ti ha fatto decidere di menzionare Anne Frank accanto a Indiana Jones?
BD- La sua storia significa molto. È profonda. E difficile da articolare o parafrasare, specialmente nella cultura moderna. Tutti hanno un intervallo di attenzione così breve. Ma stai portando il nome di Anne fuori contesto, fa parte di una trilogia. Potresti anche chiedermi “Cosa ti ha fatto decidere di includere Indiana Jones o i Rolling Stones?”. I nomi stessi non sono mai solitari. È la loro combinazione che aggiunge qualcosa in più alle loro parti singolari. Andare troppo nei dettagli è irrilevante. La canzone è come un dipinto, non puoi vederlo tutto in una volta se sei troppo vicino. I singoli pezzi sono solo una parte del tutto. I Contain Multitudes è più simile alla scrittura in trance. O meglio, non è simile alla scrittura in trance, ma è scrittura in trance. È il modo in cui mi sento davvero riguardo alle cose. È la mia identità e non ho intenzione di metterla in discussione, non sono in grado di farlo. Ogni linea ha uno scopo particolare. Da qualche parte nell'universo quei tre nomi devono aver pagato un prezzo per quello che hanno rappresentato e sono bloccati insieme. E non riesco quasi a spiegarlo perchè o dove o come, ma questi sono i fatti.
TIMES- Ma Indiana Jones era un personaggio immaginario?
BD- Sì, ma la colonna sonora di John Williams lo ha condotto verso la realtà. Senza quella musica non sarebbe stato granché come film. È la musica che fa vivere Indy. Quindi questo è forse uno dei motivi per cui è nella canzone. Non lo so poi. Tutti e tre i nomi mi sono arrivati contemporaneamente.
TIMES- Un riferimento ai Rolling Stones è presente nella stessa canzone. Parlando per assurdo, quali canzoni degli Stones avresti voluto scrivere?
BD- Oh, non lo so, forse Angie e Ventilator Blues. E cos'altro, fammi pensare... oh sì, Wild horses.

TIMES- Charlie Sexton ha iniziato a suonare con te per alcune date nel 1999, ed è tornato all'ovile nel 2009. Cosa lo rende un musicista così speciale?
BD- Di me si dice che è come se potessi leggere le menti degli altri. Per quanto riguarda Charlie, può leggere la mente di chiunque. Charlie, tuttavia, crea canzoni per conto proprio e le canta, oppure può suonare la chitarra e guidare una band. Non c'è nessuna delle mie canzoni di cui Charlie non si senta parte e ha sempre suonato alla grande con me. False Prophet è solo una delle tre cose strutturali a 12 battute di questo disco. Charlie è magistrale in tutte le nuove canzoni. Non è un chitarrista esibizionista, anche se può farlo, se lo desidera. È molto moderato nel suo modo di suonare, ma può essere esplosivo quando vuole esserlo. È uno stile di gioco classico. Scuola molto vecchia. Abita dentro una canzone piuttosto che prenderla d'assalto. Lo ha sempre fatto con me.
TIMES- Come hai trascorso gli ultimi due mesi di quarantena nella tua casa di Malibu? Sei stato in grado di saldare o dipingere?
BD- Sì, un pochino.
TIMES- Sei in grado di essere musicalmente creativo mentre sei a casa? Suoni il pianoforte e gli strumenti nel tuo studio privato?
BD- Lo faccio principalmente nelle camere d'albergo. Una camera d'albergo è quanto di più vicino a uno studio privato.
TIMES- Avere praticamente l'Oceano Pacifico in cortile ti aiuta a elaborare la pandemia del Covid-19 in modo spirituale? Sai, esiste una teoria chiamata “Mente blu” che crede che vivere vicino all'acqua sia un toccasana per la salute.
BD- Sì, ci posso credere. Cold Water, Many rivers to cross, How deep is the ocean?, sento una di quelle canzoni ed è una specie di cura. Non so per cosa, ma una cura per qualcosa che non so nemmeno di avere. Una soluzione di qualche tipo. È un qualcosa di spirituale. L'acqua è una cosa spirituale. Non avevo mai sentito parlare di “Mente blu” prima d'ora. Potrebbe essere una specie di canzone blues lenta. Qualcosa che potrebbe aver scritto Van Morrison. Forse l'ha fatto, chissà.
TIMES- Peccato che proprio quando la commedia Girl From the North Country (che avrebbe dovuto presentare la tua musica al pubblico di Broadway) stava iniziando a ottenere recensioni entusiastiche, la produzione ha dovuto chiudere a causa del Covid. Hai visto lo spettacolo o lo hai guardato in video?
BD- Certo, l'ho visto e mi ha colpito. Sono andato a vederlo come spettatore anonimo, non come qualcuno che avesse davvero qualcosa a che fare con esso. Non mi sono sforzato, ho lasciato che accadesse. La commedia mi ha fatto piangere sul finale. Non posso nemmeno dire il perché. Quando è calato il sipario, sono rimasto sbalordito. Lo ero davvero. Peccato che Broadway abbia chiuso perché avrei voluto vederlo di nuovo.
TIMES- Pensi a questa pandemia in termini quasi biblici? Una piaga che ha spazzato la terra?
BD- Penso che il Covid-19 sia il precursore di qualcos'altro a venire. È sicuramente un'invasione ed è diffusa, ma definirla biblica? Intendi una specie di segnale di avvertimento per le persone che si pentono dei loro errori? Ciò implicherebbe che il mondo è in linea per una sorta di punizione divina. L'arroganza estrema può avere alcune penalità disastrose. Forse siamo alla vigilia della distruzione. Esistono numerosi modi per pensare a questo virus. A me piace pensare che si debba solo lasciargli fare il suo corso.
TIMES- Tra tutte le tue composizioni, When I Paint My Masterpiece è cresciuta, a gusto mio, nel corso degli anni. Cosa te l'ha fatta riportare in primo piano negli ultimi concerti?
BD- È cresciuta anche per me. Penso che questa canzone abbia qualcosa a che fare con il mondo classico, qualcosa che è fuori portata. In un posto in cui vorresti essere, al di là della tua esperienza. Qualcosa di così supremo e di prim'ordine che non potresti mai più permetterti di discendere la montagna. Come una prova che hai raggiunto l'impensabile. Questo è ciò che la canzone cerca di dire e dovresti metterlo in quel contesto. Nel dire che, anche se dipingi il tuo capolavoro, cosa farai dopo? Bene, ovviamente devi dipingere un altro capolavoro. Quindi potrebbe diventare una sorta di ciclo infinito, una trappola di qualche tipo. La canzone non lo rivela, però.
TIMES- Alcuni anni fa ti ho visto suonare una versione praticamente bluegrass di Summer Days. Hai mai pensato di registrare un intero album bluegrass?
BD- Non ci ho mai pensato. La musica bluegrass è misteriosa e profondamente radicata e devi quasi nascere suonandola. Solo perché sei un grande cantante, o un grande questo o quello, non significa che tu possa stare in una band bluegrass. È quasi come la musica classica. È armonica e meditativa, ma resta fuori dal mio sangue. Se hai mai sentito gli Osborne Brothers, sai cosa intendo. È una musica che non perdona e puoi solo allungarla, portandola così, lontano. Le canzoni dei Beatles suonate in stile bluegrass non hanno alcun senso. È il repertorio sbagliato, eppure è stato fatto. Ci sono sicuramente elementi di musica bluegrass in ciò che suono, in particolare l'intensità e temi simili. Ma non ho la voce da tenore alto e non affrontiamo armonie in tre parti o usiamo il banjo di accompagnamento. Ascolto molto Bill Monroe, ma più o meno mi attengo a ciò che posso fare meglio.
TIMES- Come va la tua salute? Sembri accordato come un violino. Come riesci a far lavorare insieme mente e corpo all'unisono?
BD- Oh, questa è la grande domanda, non è vero? Com'è possibile? La tua mente e il tuo corpo vanno di pari passo. Ci deve essere una sorta di accordo. Mi piace pensare alla mente come allo spirito e al corpo come sostanza. Come si integrano queste due cose, non ne ho idea., mi sforzo di andare lungo una linea retta e rimanerci. Diciamo che cerco di mantenermi al mio livello.


venerdì 24 gennaio 2020

Affrontare la vita a muso duro (sull'autostrada) [Interviste]


Con l'entusiasmo incosciente di un personaggio degno di un romanzo di JD Salinger, Ferruccio salta giù per le scale di una birreria del centro di Pisa. Un tipo pelle e ossa, i capelli pochi e arruffati, l'abbigliamento da negozio dell'usato e gli occhi assonnati prigionieri di una montatura in acetato. Si stringe un pacchetto di sigarette fra le mani mentre cerca di sistemare un mucchio di riviste musicali e alcuni taccuini raggruppati attorno a una tracolla di pelle marrone. “Rinunciare al fumo è facile”, sorride, “L'ho fatto un sacco di volte e mi è anche riuscito smettere. Invece non ho mai smesso di scrivere. Poco o tanto, ma ho sempre scritto”. 
Lui è in visita ad alcuni amici, ha chiesto che l'intervista fosse una cosa tranquilla e informale, e così ci accomodiamo fuori dove viene ordinato un giro di Negroni per tutti. Gli domando cosa si prova ad essere alla propria seconda pubblicazione ad appena trenta anni. “Sinceramente? Si dà luogo a un trauma. Pubblicare un nuovo libro equivale sempre a espellere una parte preziosa di noi stessi. Ci si distacca da ciò che abbiamo elaborato e creato, non sappiamo come andrà, se verremo compresi e apprezzati, ma il bisogno di provarci è più forte di tutto il resto. L’importante è non ripetersi, ma è un rischio che io non sento di aver corso. Il nuovo libro è completamente diverso da quello prima, a partire dal formato. Questo è un tascabile che potrà accompagnarvi dappertutto, anche alle lezioni di zumba”. A muso duro sull'autostrada, il secondo libro di Ferruccio, è una raccolta di poesie riprese e aggiustate recentemente ma scritte oltre dieci anni fa, “in un periodo che definire tumultuoso sarebbe eufemistico”. Sospinta da elegie e inni come L'ultima pazziaL'effetto del pino e Limbo buffo, dalle vivaci e satiriche Le dissonanze e Giambo del tirocinante, dalla propulsiva Troppo e dall'epico, silenzioso flusso della conclusiva L'ambra, la raccolta risulta un'esplorazione agrodolce di ciò che un 30enne sente ancora affine alla propria sensibilità umana e letteraria. “Non importa cosa mi passasse per la testa quando le scrissi”, dice, “Non buttai giù queste poesie per pubblicarle. Chi lo pensa commette un errore. Nessuna persona, neanche i miei più cari amici avrebbero mai dovuto leggerle allora. Erano lo sfogo di una fase terribile, incerta. Era come essere a tavola e vedersi servire il contorno a un oscuro pasto emotivo”. Faccio un passo indietro e gli domando se si sente a suo agio in un genere nuovo e contemporaneamente molto discusso come la poesia. “Guarda, per me, è la stessa narrazione che continua sotto forme diverse. Passare da un genere all'altro significa soltanto fare letteratura in un modo diverso, con un registro espressivo differente. Non mi sono mai sentito un poeta qualificato, e non me la sentirei proprio di definirmi un romanziere. Dopo aver scritto poesie tristi e liriche strazianti per affrontare alla meno peggio la mia vita personale, ho deciso di buttare via tutto e salvare solo ciò che davvero, dopo anni, sembrava risultare meritevole. Faccio un altro lavoro, per fortuna, anche perché, se avessi dovuto vivere coi guadagni derivanti dai miei libri, sarei morto da un pezzo”. Ci mettiamo tutti a ridere, mentre facciamo girare a turno i ghiaccioli dei nostri drink. 
Chiedo qualche delucidazione in merito al titolo. “C’è un quadro che Rob Springett, un artista molto gettonato negli anni Settanta, dipinse per un disco di Van Morrison che è perfettamente in grado di descrivere le atmosfere oniriche e assurde delle mie poesie. Il titolo dell’album è Hard nose the highway, che significa appunto A muso duro sull’autostrada. Per problemi di copyright non sono riuscito a utilizzare lo stesso dipinto per la copertina del libro, ma mi dispiace relativamente. Salvo un paio di pezzi, quel disco è forse il primo scivolone della carriera interminabile di Morrison. E' prolisso e controverso, non conserva molto delle opere precedenti ed è acerbo rispetto a certe cose che verranno. Molti, invece, hanno creduto da subito che si trattasse di una citazione di quello straordinario pezzo di Pierangelo Bertoli in cui l’autore sprona ad affrontare la vita a muso duro”, e passa a canticchiarne un paio di strofe. 
Visto anche il tema del precedente libro (Gli anni selvaggi), mi diverto a restare sulla musica. Argomento su cui Ferruccio davvero viaggia a ruota libera: “La musica triste con cui queste poesie si erano sviluppate dieci, dodici anni fa non era necessariamente una lagna lenta e senza speranza. Nel riappropriamene ho scelto, però, un accompagnamento potente. Sai, questo è un bello slancio in avanti per me. Ho approfondito molto l'ascolto di linee semplici, come certe cose che il Boss ha fatto negli anni '80 e questo approccio mi ha aiutato nell'effettuare correzioni altrettanto semplici e lineari”. Ferru passa poi a descrivere quel posto della sua mente da cui è scaturito tutto: “Vivo in questo mondo bellissimo e tragico e faccio del mio meglio per descriverlo, perché mi ha accolto da quando ero un ragazzino e non ne sono più uscito. Deve dipendere dal modo in cui mi connetto ad esso. È un mondo favoloso, visionario, a tratti un po' decadente, tossico senza però l'addizione di una tossicità chimica. All'inizio e dunque da molto tempo, in questo mondo vivevano quaranta poesie. Ne sono sopravvissute ventiquattro, quelle per cui non avevo da lamentarmi e che non avrei mai potuto disconoscere. Mi sono ritrovato con fogli, agende e taccuini fra le mani che necessitavano solo di quello che i produttori discografici definirebbero editing, ma- te lo giuro -non ho modificato nessun contenuto. Anzi, in alcuni casi non ho cambiato una virgola! Mi sono lasciato libero, nella mia mente, di tagliare e migliorare solo ciò che davvero mi sembrava necessario”. Mi arrischio e domando quale possa essere il tema portante della raccolta. “Mi tocca deluderti. Qua non esiste un tema portante. Al limite, potremmo parlare di un sotto-testo che attraversa, serpeggiando, queste poesie. Spero che emerga quanto l’autore fosse e sia ancora innamorato della vita. Sono consapevole della profondità e della disperazione che sentivo quando ho scritto alcune di queste pagine, ma anche di quanto fosse sciocco per me, al tempo, pensare che certe cose sarebbero state permanenti. Non lo erano. E questa raccolta non è nata con la volontà di intristire, non vuole far piangere nessuno. È un libro veloce ed euforico, in certi punti perfino un po' lapidario. Lo ha messo insieme uno che potrebbe addormentarsi alle due di notte guardando la sigla di Fuori orario per poi svegliarsi alle 5:00 con delle parole in testa. E cosa fa questo scribacchino principiante? Si alza dal divano e si mette a battere sui tasti del ThinkPad. Scrive un po', fuma una canna, torna a letto, si addormenta e solo allora, dopo aver buttato tutto fuori, è libero di volare via con la sua musa. E la soddisfazione più grande sai da cosa gli deriva? Dalla sensazione di possedere tutto il tempo del mondo per sé”. Mi faccio vedere un po' spaesato da queste ultime elucubrazioni, ma lui non si spazientisce. Anzi, mi dà una pacca sulla spalla sorridendomi. “Riconosco che sia un discorso complesso e un po’ lungo, forse contorto, perciò- visto che voi giornalisti avete le lettere numerate e prediligete la sintesi -ti farò comunque dono di un riassunto della raccolta: A muso duro sull’autostrada è nato per essere letto in una stanza buia ma guardando la luce che proviene dalla finestra”. 
Ci perdiamo un po' nel divagare su poesia e poeti, dopodiché la conversazione verte inevitabilmente sulle sue letture e sulle sue influenze. “Ho avuto modo di leggere molte poesie nella mia vita, ma a conti fatti mi pare che, qualche secolo prima di Cristo, i lirici greci avessero già scritto praticamente tutto quello che valeva la pena leggere. Forse esagero, ma se anche ci fossimo fermati al Cantico dei cantici, saremmo stati a posto. Recentemente ho riletto l'Odissea da cima a fondo, e cosa può raccontare chi è venuto dopo a un libro così? Non gli manca niente ed è poesia che si dipana per tonnellate di pagine. Nel Ventesimo secolo si è scritto buona poesia, per carità. Montale, Eliot, Sylvia Plath, Ezra Pound, Dino Campana, Pasolini, ci mancherebbe. Ah, e Blood on the tracks, ovviamente! Non conosco i poeti contemporanei, né sono in grado di dire dove va la poesia oggi perché non credo di avere le conoscenze e la competenza necessaria a fornire risposte simili. I nuovi poeti italiani, o come si chiamano, per me sono dei completi sconosciuti. Ma se mi domandi delle mie dirette influenze, si potrebbe partire da Alcmane e fermarsi a Robert Hunter”. Una cameriera porta altro Negroni. La conversazione si sposta su concetti più astratti e le domande si vestono di filosofico. Una cosa del tipo: perché poetare? Ferruccio si chiude per un attimo in un difficoltoso silenzio prima di rispondermi. “Ora esagero, ma per me si scrivono poesie quando si ha modo di scorgere la luce del sole che entra da una finestra di casa e si sente l'attacco di Jungleland uscirci dal cervello e rimbombare nella stanza. Si sceglie di fare poesia per descrivere determinati elementi ed è bello sentirsi fragili e un po' sopraffatti dagli eventi, in quel momento”. Scende definitivamente il sole e ci incamminiamo verso la macchina. Due chiacchiere veloci sul futuro: “Prima di salutarci, dimmi un po' quali sono le sue intenzioni per i prossimi anni”.
“In questo lungo viaggio di sconvolgimenti personali e letterari, sono felicissimo dell’atmosfera rilassata in cui ho appena pubblicato questa raccolta, ma sin da principio ho messo un punto fermo che mi ricordasse ogni giorno che A muso duro sull’autostrada resterà un libro di passaggio. Lo scorso giugno- quindi un paio di mesi dopo la pubblicazione de Gli anni selvaggi -mi sono rimesso a scrivere senza ben capire dove stessi andando. Avevo in testa solo la realizzazione di un romanzo, di un’opera di finzione. Ho sovrapposto una ventina di pagine sconclusionate e quello che ho letto ha finito col piacermi molto. Da lì sono partito con una mappa concettuale molto precisa e dei ritmi severi ma difficili da rispettare. Sarà un libro cubista. Ha un titolo e una trama e per ora somiglia soltanto alla visione di qualcun altro della mia scrittura. Spero possa rivelarsi un modo di uscire da determinati elementi e provare nuove cose senza però rinunciare al mio stile e alla mia personalità. Anche perché sono troppo vecchio per fingere di fregarmene di fare qualcosa che non è quello che sono”.