martedì 14 maggio 2013

Le memorie di Sbelluccio Bellini (Capitolo XII) [Trame]


XII.
IN CUI LA MIA BUONA FORTUNA
COMINCIA A VACILLARE

E ora, se qualcuno fosse disposto a pensare che la mia storia è immorale, pregherò uno di questi individui che trovano sempre da ridire di farmi il favore di leggere la conclusione delle mie avventure, in cui vedranno che non era un premio tanto grande quello che avevo vinto e che ricchezza, splendori e un seggio in parlamento sono spesso pagati troppo a caro prezzo, quando si debbono acquistare questi piaceri tramite la propria libertà personale, rincarando la dose col peso di una moglie fastidiosissima.
Clelia non era una borbottona, né una spilorcia, come molte mogli; avrei trovato il modo di curarla di queste malattie; ma era di carattere timido, piagnucoloso, melanconico, ipersensibile, cosa che è per me ancora più odiosa: qualunque cosa si facesse per farla contenta, non era mai di buon umore. Dopo un po' lasciai perdere, cercando fuori dalla casa divertimenti e compagnia femminile; in seguito a ciò, ella aggiunse a tutti i suoi difetti una bassa e detestabile gelosia. Per qualche tempo dovetti fare tutto alla zitta, sennò la contessa si torceva di dolore, piangeva e minacciava di suicidarsi. Certo è che la sua morte non sarebbe stata un problema a priori, ma essendo il bisconte l'unico designato all'eredità, io sarei rimasto più povero di quando l'avevo sposata; e questo perchè spendevo tutto, fino all'ultimo centesimo. E basti pensare che, indipendentemente dalle ipoteche e dagli investimenti, ho contratto debiti per almeno dodici milioni di euro negli anni della mia permanenza a Fontanale.
Il nostro bambino, dunque, era la creatura che formava l'unico legame fra me e mia moglie, e non c'era piano ambizioso che io proponessi a cui ella non si unisse a vantaggio di Rolando. E poi, se non era accondiscendente in misura sufficiente sulle cifre che prelevavo dal conto, passavo direttamente alla strategia che ho già descritto nei particolari nel capitolo precedente. Posso giurarvi che furono dispensate regalie a persone di grado così elevato che, se facessi i loro nomi, ne restereste stupefatti. Pagai profumatamente grandi società araldiche perché ricostruissero l'albero genealogico della mia famiglia e chiesi di venire reintegrato nei titoli dei miei antenati e di essere insignito della contea di Monteverde, oltre che della viscontea di Castel Portanova. La lotta per ottenere questo titolo di Conte ritengo sia stata una delle più sfortunate tra tutte le sfortunate iniziative di quel periodo. Feci ingenti sacrifici per portarla avanti. Prodigai denaro qua e diamanti là. Comperai terreni a dieci volte il loro valore; acquistai quadri ed oggetti d'arte a prezzi rovinosi. Diedi numerosi ricevimenti a tutti quei sostenitori della mia richiesta che, essendo vicini al Cavaliere o al Presidente, potevano favorirla.
Gustavo Maria, tredicesimo conte di Candeli e senatore a vita, era un fido consigliere del Cavaliere e una delle persone con cui il nostro riverito Presidente era in termini di notevole intimità. Lui e il Cavaliere giocavano a squash da giovani, quando Milano era stata eletta loro territorio di caccia esclusivo; là avevano trovato fortuna come imprenditori e là sarebbero rimasti, se gli studi in diritto internazionale del buon Gustavo non lo avessero allontanato da quella tetra città non appena laureato. Egli visse a lungo in Russia, come ambasciatore, ma tornò subito dopo la caduta del muro di Berlino, e si trasferì a Roma, con una seggiola già pronta per lui nel primo governo del Cavaliere. Su di lui mi erano giunte voci perlopiù negative, dovute, a mio avviso, all'invidia che molti ricchi signori, politici e non, provavano verso la sua grande amicizia con i potenti. Inizialmente, non volli dare ascolto a chi me ne sconsigliò la compagnia, ma col senno di poi ammetto che avrei dovuto tenere alta la guardia, almeno in quel caso. Ero nuovo di quell'ambiente (nonostante il mio posto in parlamento) e bisognoso di quel titolo, così non mi detti pace fino a che i nostri segretari non riuscirono a mettermi in contatto con lui. Ricordo ancora quando il mio cellulare squillò, in un pomeriggio di aprile:
<<Bellini? Sono Gustavo Maria Candeli. So che mi sta cercando, ma io, come lei ben sa, sono un uomo molto impegnato e non potrò dedicarle tanto tempo. Vogliamo fare questo venerdì a colazione da me?>>.
Ero stupefatto dalla nobiltà che traspariva già dal timbro della voce, da quell'italiano impeccabile che oggi nessuno parla più e che già allora era in via di estinzione; infine, ero curioso di provare il piacere della sua compagnia e di coltivare l'amicizia di un gentiluomo così vicino ai vertici del potere.
Dei fiori tropicali e una cassa del migliore champagne mi anticiparono, quando mi presentai a villa Candeli, lungo l'Appia Antica. Il conte era un milanese in carne, con folti capelli bianchi, due profondi occhi verdi e un colorito rossastro; mi ricevette in Lacoste, jeans e scarpe da corsa Mizuno, lasciandomi di stucco. Io avevo un completo chiaro e la cravatta, e, pur risultando notevolmente più elegante del mio ospite, riuscii a sentirmi a disagio. Mi fece accomodare frettolosamente sotto un gazebo che sorgeva di fianco alla piscina; era uno spazio alla americana, pieno di vetrate, luce e interni minimalisti. Ci accomodammo a tavola e fummo serviti all'istante: gamberoni, insalata e vino bianco. Tentai di parlare della sua villa e delle sue fortune, di quanto erano buoni quei gamberoni e di come profumavano le piante della sua piscina, ma egli tagliò corto e andò subito sugli affari, chiedendomi cosa volessi da lui.
<<E'su di lei, conte, che faccio assegnamento per appoggiare la mia richiesta della contea di Monteverde e della viscontea di Castel Portanova, che da troppo tempo mi propongo di ottenere, fallendo miseramente>>.
A quel punto, il distinto ambasciatore si calmò, sorrise e buttò giù un sorso di vino; poi iniziò a parlare, senza sosta. Mi descrisse la politica oltre il parlamento, dicendosi perfettamente informato su tutto ciò che sarebbe accaduto (il povero Mauro Volpi sarebbe stato rimosso la mattina dopo, e lui già lo sapeva; così come seppe prevedere la data esatta del rientro di una delegazione di agenti segreti inviati in Libia, azzeccandola), e mi parlò delle condizioni della nobiltà. Io tentai di spiegargli che le conoscevo bene e che il mio titolo sarebbe stato una semplice formalità da sbrigare. Lui scoppiò a ridere e disse che un “signor nessuno” sommerso dai debiti e malvisto un po' ovunque non doveva conoscere alcun tipo di formalità da sbrigare e che niente c'era di semplice nel mio caso; aggiunse che conosceva benissimo la mia situazione e che avrebbe potuto recitare a memoria i libri di conti di casa mia, neanche fossero stati i Salmi.
<<L'unica cosa veramente valida che avete fatto dal vostro arrivo a Roma, caro Bellini, è stata armare quella compagnia da mandare in Libia. Vi consiglierei di armarne un'altra e aggregarvi ad essa>>.
Ma questo, come il lettore può immaginare, non era affatto il mio sogno. Anzi, le mie intenzioni, inizialmente, erano di aggregare alla compagnia qualcun altro, cioè il mio borioso figliastro, che, avendo compiuto da poco diciotto anni, manifestava la volontà di andare in Libia, e io sarei stato ben contento di acconsentire per togliermelo dai piedi; ma il suo tutore, don Pardo, che da alcuni mesi mi si opponeva in tutto, rifiutò il permesso e contrastò fortemente le tendenze militariste del ragazzo.
Salutai cordialmente e ringraziai il conte di Candeli, che, lasciando in disparte i suoi toni aggressivi e sarcastici, promise di darmi una mano, se non altro in memoria del suo vecchio amico e collega Sor Filippo, del quale, come non mancò di sottolineare, avrebbe cercato di preservare quel minimo di proprietà sufficienti a non far scomparire completamente il nome e il casato. Non occorrerà che io sottolinei il profondo stato di pessimismo in cui ero caduto dopo quell'incontro.
Mentre il mio autista mi riportava verso Fontanale, mi misi ad architettare un piano tramite il quale liquidare definitivamente il bisconte di Palestrina. Era un ragazzo goffo e disordinato, ribelle e selvaggio, senza alcun riguardo per me, mia madre e il suo fratellastro. Dopo che era tornato da Firenze, avevo lasciato perdere la sua istruzione e non volevo neanche che comparisse al nostro fianco; feci in modo che la tenuta di Veio fosse intestata a lui e cercai di farcelo trasferire quante più volte mi era possibile. Che differenza fra questo sgraziato adolescente e il sangue del mio sangue, Rolando, un bambino che già a cinque anni era un modello di eleganza, bellezza e buona salute.
Aiutato da una bambinaia, a quattro anni già parlava il francese, e i nostri tutori riuscirono a fargli imparare le nozioni base di greco e latino; imparò, da solo, a fare simpatiche caricature con i pennarelli e si sedeva come un adulto a tavola con noi, col suo bicchiere di champagne. Fui sempre io ad educarlo all'avversare le signore impellicciate che si presentavano a prendere il tè con la contessa: insieme le facevamo fuggire dalla nostra proprietà, danzando, cantando ed esclamando sconcerie e parolacce varie. Grazie a questo sistema, cacciammo da Fontanale nobili, ministri e imprenditori famosissimi in tutta Italia; non ne vado fiero, ma dovete capire che una persona del mio livello, non in un periodo prosperoso, riteneva insopportabili certi atteggiamenti sociali; e credo che i lettori che hanno vissuto quel periodo come l'ho vissuto io non potranno spendere solo parole di dissenso riguardo ai miei comportamenti.
Decisi poi di licenziare i tutori del bambino (a parte quella faina di don Pardo, ovvio) e mi detti alla ricerca di un insegnante più serio: scelsi Domenico Sgranato, un siciliano assistente della Sapienza, che fu incaricato di insegnargli latino, italiano, storia e geografia. Questi fu una preziosa aggiunta alla nostra compagnia di Fontanale, perchè era il bersaglio delle mie burle e le sopportava con la pazienza di un martire. Gettavo i suoi vestiti nel fuoco davanti a tutti i nostri commensali, e lui rideva per lo scherzo che gli avevo tirato. Il fine settimana, uscivamo a caccia e caricavamo- senza che lui ci vedesse -i nostri fucili a salve; poi iniziavamo a sparare nella sua direzione; so che quel poveraccio, una volta, dalla paura, corse dai boschi che confinano con Cinecittà fino a San Pietro per ringraziare il Signore di averlo risparmiato dalla traettoria mortale delle pallottole.
Ad attingere ulteriormente dalle casse già difficoltose di casa Monteverde, arrivò una coppia di cui mi ero quasi dimenticato l'esistenza: il signore e la signora Tobino, che avevano dissipato quasi tutto il loro patrimonio. Laila aveva un'aria molto vecchia, grassa e malmessa, con due sudici marmocchi al fianco. Pianse molto nel vedermi, mi chiamò <<conte>> e <<signor Monteverde>>, cosa che non mi dispiacque, e mi pregò di aiutare suo marito; cosa che io feci, ottenendogli, per mezzo del mio amico Candeli, un posto alla dogana di Chiasso e pagando il viaggio fin lì a lui e a tutti la sua famiglia. Trovai che era diventato un sudicio, volgare e piagniucoloso ubriacone, e, guardando di nuovo Laila, non potei fare a meno di pensare con stupore ai tempi in cui l'avevo considerata come una divinità. Ma, se mai ho degnato della mia attenzione una donna, io le rimango amico per tutta la vita, e potrei citare un migliaio di esempi delle mie generose e fedeli disposizioni. Mentre io e Clelia, ci intrattenivamo in conversazione con questi due relitti sociali, fece il suo ingresso il bisconte di Palestrina, che salutò cordialmente il capitano Tobino e baciò le mani sia a Laila che alla contessa; io tesi la mia, ma egli la rifiutò e, alzando la testa disse:
<<Il signor Sbelluccio Bellini, credo?>>, poi voltò i tacchi e uscì.
A mia moglie dispiacque questo contegno insolente, e quando furono soli lo rimproverò aspramente di non avere stretto la mano a suo padre.
<<Mio padre, signora?>>, ribattè lui, <<Mio padre era il molto onorevole Sor Filippo Teobaldo di Monteverde. Se lo hanno dimenticato gli altri, io almeno non l'ho dimenticato>>.
Era una dichiarazione di guerra contro di me, come compresi immediatamente, e decisi di mettere da parte la buona volontà nei confronti del giovinastro, e che, da quel momento in poi, avrei punito senza pentimento ogni insolenza del bisconte; io tratto le persone come loro trattano me. Fu lui che perdette la pazienza e non io, e le dannose conseguenze che ne derivarono dipesero interamente da lui.
Non erano passate che dodici ore da che il bisconte aveva pronunciato quell'oltraggioso discorso, che io lo volli ricevere nel mio studio, dove lo frustai sonoramente; non avevo mai frustato un futuro conte, prima di allora, ma la sua schiena e la mia frusta fecero una così intima conoscenza che vi garantisco che dopo un po', tra noi, si fecero ben poco cerimonie. Accadde, infatti, un paio di settimane dopo, che questi entrasse facendo una gran caciara nella sala proiezioni, dove io e un paio di amici stavamo vedendo una partita di calcio; e si dà il caso che uno di questi miei ospiti fosse un prete, al quale chiesi il permesso di malmenare il giovane reprobo davanti a tutti. Il parroco accondiscese e io potei dargliele quanto mi pareva, mentre quei signori crepavano dalle risate.
Ordinai a Sgranato di poter colpire il ragazzo quando meglio credeva, ma non fu una buona idea: il bisconte, infatti, stese al suolo il professorino e lo colpì con una sedia, con gran divertimento di Rolando, che gridava <<Picchialo forte!>>. E questi lo fece davvero, con profonda indignazione mia e del precettore, che in seguito non volle più infliggere punizioni a nessuno. Effettivamente, il bisconte e il mio bambino si stavano molto simpatici e nutrivano, l'un l'altro, un grande affetto. Inoltre, capitò più di una volta che fra me e quel ragazzaccio si intromettesse quell'angelo di Rolando pregandomi:
<<No, papà, non frustarlo oggi!>>, al che io mi trattenevo e gli risparmiavo una dose di quelle frustate che avrebbe ampiamente meritato.
Tra me e Clelia, come ho già avuto modo di raccontare, c'erano dispute frequenti in cui qualche volta aveva torto lei, qualche volta io e che salivano molto di tono, dato che nessuno dei due aveva un carattere troppo pacato. Io ero spesso un po' alticcio e non riuscivo a padroneggiarmi bene in quello stato; e forse allora trattavo la contessa peggio e più ruvidamente di sempre: le tiravo qualche bicchiere e la chiamavo con nomi non troppo complimentosi. Posso anche averla minacciata di ammazzarla e averla spaventata molto. Fu dopo una di queste liti, quando lei correva per i corrodi del primo piano e io, ubriaco, le correvo dietro barcollando, che il bisconte uscì dalle sue stanze attratto dal rumore e, siccome stavo per raggiungerla, quell'ardito briccone mi fece sgambetto, approfittando della mia ebrezza; caddi svenuto per terra e furono i domestici a recuperarmi e a mettermi a letto. Questa triste vicenda mi è stata narrata per telefono dalla contessa molti anni dopo, perché io, altrimenti, non avrei ricordato nulla di quella nottata d'inferno. Oltre a peggiorare le cose fra me e il giovane, questa storia fu utile a deteriorare ancora il nostro matrimonio e a unire per un poco quella madre e quel figlio così distanti e freddi.
Man mano che il bisconte cresceva e si faceva uomo, il suo odio verso di me raggiungeva un'intensità addirittura scandalosa a pensarci. Due anni dopo quel vergognoso sgambetto, alle porte delle vacanze estive, tornai dal Parlamento e, posata la mia valigia nella biblioteca, afferrai un bastone e mi proposi di bastonare il bisconte come al solito, ma egli mi fece comprendere che non si sarebbe più sottoposto ad alcun castigo da parte mia e disse, digrignando i denti, che mi avrebbe sparato se gli mettevo ancora le mani addosso. Lo lasciai andare: era quasi riuscito a mettermi paura.
Quelli erano per Sbelluccio Bellini giorni duri, dove varie battaglie si incrociavano nell'arco della giornata; ma il bisconte non rispettava i miei problemi, e non mancava di sbeffeggiarmi di fronte a chiunque. Persone ricche e potenti ridevano come non mai a sentire quel maledetto offendermi, schernirmi e massacrarmi, col suo humor sardonico e le sue frecciatine. Queste pesanti vessazioni raggiungerso il loro apice il giorno del compleanno di Rolando, quando, di fronte ad una quarantina di invitati provenienti da mezza Italia, balzai addosso al bisconte e gli somministrai calci e pugni in quantità, rompendoli il naso e varie costole, oltre a procurargli ferite marginali e tagli un po' ovunque. In cinque dovettero togliermelo di dosso, altrimenti avrei finito con l'ammazzarlo come una bestia.
Passò tre giorni a letto, malato, dolorante e frustrato dalla rabbia repressa e dall'umiliazione che gli avevo causato castigandolo di fronte alla créme de la créme italica. La mattina del quarto giorno mi svegliai ancora imbottito di calmanti (abusavo pesantemente di farmaci da ormai due anni) e pregai il nostro maggiordomo di andare a chiamare il bisconte, pregandolo di venire a tavola con noi. Ma la stanza era vuota e fredda e la finestra aperta; era riuscito a scendere nel giardinetto e da lì era scappato, non si sa diretto dove. La mia signora scoppiò in lacrime, e Rolando la seguì immediatamente. Un paio di giorni dopo, Clelia mi inviò in biblioteca una mail che aveva ricevuto dal bisconte, che aveva riparato a Palestrina, ospite dello zio vescovo. Diceva di stare meglio e concludeva la missiva parlando del sottoscritto:

Ho sopportato per quanto era possibile i maltrattamenti di quel villano ignorante e arricchito che hai accolto nella nostra casa, mamma. Non sono soltanto la bassezza della sua nascita e la brutalità dei suoi modi a disgustarmi e farmelo odiare, ma la vergognosa natura della sua condotta verso di te; il suo contegno bovaro e indegno di un gentiluomo, la sua sfacciata infedeltà, le sue abitudini di vizi e ubriachezza, le sue truffe e ruberie sulle nostre proprietà, lo rendono, a mio avviso, indegno del nostro cognome, Monteverde. Mi auguro con tutto il cuore che egli non riesca a mettere le mani su quel titolo di “conte” che tanto pare allettarlo. Siccome rinunci alla soluzione di un divorzio e sembri a volte schierata dalla parte del tuo bel marito, e siccome io non posso punire personalmente questo fetente bastardo, ho deciso di lasciare la mia città, almeno che possa privarmi della compagnia di questo schifo d'uomo, una compagnia che personalmente aborrisco manco fosse la peste. Cercherò di sfruttare la nostra tenuta di Pontassieve, aiutato da quei pochi banchieri e amministratori che ancora sembrano guardare con rispetto il nostro non più cospicuo patrimonio; non mi stupirei, tuttavia, se mi negassero anche questa possibilità, sapendo che il nostro conto è nelle mani di un ladruncolo che non si farebbe scrupolo di raccattare monete dal mezzo di strada. Sperando di trovare il modo di farmi nella vita un percorso più onorevole di quella per la quale quell'avventuriero toscano squattrinato è giunto a privarmi dei miei diritti e della mia casa, ti porgo i miei più sinceri e affettuosi saluti.
Passò parecchio tempo prima che sentissimo parlare di quel che era avvenuto a quel giovane vagabondo; ma dopo poco più di un anno che se l'era svignata, ebbi il piacere di apprendere che si era trasferito davvero in Libia, dove aveva trovato lavoro come consulente e dove la mia compagnia si comportava nel modo più glorioso. A guerra finita, si era spostato verso New York, per aprire uno studio di consulenze assieme ad alcuni amici conosciuti all'università, e dove avrebbe avuto modo di farsi fotografare da svariati paparazzi italiani. A Roma non cessava di circolare la voce che io lo avevo obbligato ad andare in Libia sperando che rimanesse ucciso, e ogni mio tentativo di sedare queste calunnie fu vano. In città si diceva che avrei, nel giro di poco, avvelenato mia moglie, o anche peggio che avrei ucciso il bambino e la contessa per poi fuggire con il denaro; alcuni settimanali mi candidarono come uno dei prossimi politici vicini al fallimento e alla galera. I contadini delle nostre tenute, al mio passaggio, toccavano ferro, e ai nostri ricevimenti iniziarono a comparire un po' troppo spesso farmacisti, mercanti di vino, avvocati e gentaglia qual'è quella che vedevamo ogni giorno facendo due passi in centro. Lo zio vescovo non ci invitava più a Palestrina da prima della fuga del bisconte, e a me furono inflitti, in poche parole, tutti gli oltraggi che si possono riversare su un innocente e onorevole gentiluomo.
Fummo invitati -non so grazie a chi- ad un maestoso ed esclusivo ricevimento a Palazzo Grazioli, durante il quale io speravo che il Cavaliere in persona mi avvicinasse e mi fregiasse del titolo di conte; e, in effetti, il Cavaliere si presentò e mi strinse la mano, per poi però voltarsi e darmi le spalle, senza neanche voler sentire il mio nome per intero. Anche a mia moglie non andò tanto meglio: una sua vecchia compagna di classe, ora ministro delle pari opportunità, la rimproverò non poco, facendole una lista dettagliata di quanto veniva raccontato per i corridoio del parlamento sul nostro conto. Mi risultò impossibile restare indifferente di fronte a tutto questo, e decisi che saremmo partiti la mattina seguente per qualche capitale estera.
All'alba, decollammo per Parigi, una città che ci avrebbe permesso di vivere tranquillamente e come preferivamo; ma i soldi finirono alla svelta e, nel giro di quarantotto ore, per colpa del mio vizio al gioco, eravamo nuovamente a Roma. E fu proprio durante quel triste volo di ritorno che Clelia ed io parlammo del mio tentativo di acquisire il titolo di conte, e che capii di come il Candeli mi avesse grossolanamente ingannato, tenendosi un mucchio di soldi, entrando nella mia casa, spiando la mia vita privata e riportandola, a suo piacimento, ai media nazionali. Scrissi, in quelle due ore di volo, una lettera per il Presidente, dove raccontavo delle sventure che si erano abbattute sulla mia famiglia e dei gravi inganni in cui, a causa di cattivi consiglieri, ero incappato.
La massima carica dello stato mi rispose sinteticamente che non avrei avuto più motivo di seccarlo, poiché non avrebbe mai favorito la mia nomina a conte, ma che anzi l'avrebbe ostacolata fin quando gli fosse stato possibile; e tutto questo perchè mi considerava uno screditato, un disonore per mia moglie e per il mio paese, oltre che un pessimo padre, un mediocre politico e un cattivo esempio per l'intera comunità europea.
In parlamento avevo conosciuto l'avvocato Sermonti, duca di Ocopoli e da poco ministro della giustizia; con questo signore un po' viscido e pigro ero solito trattenermi al bar di Montecitorio. Decisi di confessargli la mia situazione e chiesi un suo parere a riguardo. Egli rispose sorridendo:
<<Bene, caro Bellini, ti risponderò punto per punto. Allora, per prima cosa, il presidente è estremamente contrario a creare dei nobili, come dovresti sapere. Gli saranno state sicuramente presentate le tue rivendicazioni, come le chiami, ma lui ti ha mandato a fanculo. Il Cavaliere, in secondo luogo, è una figura potente, ma il suo migliore amico, che è Candeli, ti ha descritto a lui come un pollo da spennare per un paio di anni, e ormai ti hanno fregato. A mio avviso, sei fottuto. A neanche cinquant'anni ti sei già bruciato tutto, quindi è anche difficile che tu possa ripartire da qualche altra cosa. E ora scusami, ma ho delle pratiche da sbrigare>>.
Tornai a casa in preda ad un accesso di collera indescrivibile; poi ragionai un attimo e decisi di invitare il caro Candeli a cena da me, quella stessa sera. Lo aggredii nell'atrio e lo trascinai prima nella sala degli specchi, dove gliene infransi un paio in testa, graffiandogli buona parte del volto e stordendolo; poi, aiutato dai miei servi, lo portai nel piano sotterraneo e lo feci rinchiudere nel vano tubature, in compagnia di ratti, gelo e ragni. Uscì solo la mattina seguente e corse a denunciarmi, mentre la notizia non smetteva di fare il giro d'Italia; io ne uscii, stranamente, come un personaggio popolare, fui intervistato da radio, giornali e televisioni e la prigionia di Candeli a casa Bellini fu oggetto di critiche da parte di destra e sinistra. Speravo di riuscire a sfruttare la situazione a mio favore e di risanare un minimo le nostre casse domestiche, ma mi sbagliavo di nuovo. Di fatti, in parlamento fui stroncato a destra e a sinistra, tant'è che il presidente della camera rifiutò di ascoltarmi (in effetti, ero un pessimo oratore) e, al momento del cambio di governo, fui costretto a prendere a prestito altro denaro, a tassi rovinosissimi, per affrontare i miei nemici. I media lottarono contro di me in ogni modo gli fosse concesso: fui dipinto come un pastore maremmano (non il cane, si intende), un lustrascarpe fiorentino, un bagnino di Forte dei Marmi e un mendicante dell'Appennino. Fu riversato su di me un torrente di calunnie, da cui qualunque uomo dotato di spirito meno pronto sarebbe stato sommerso.
Benchè affrontassi arditamente i miei oppositori, benchè profondessi nell'elezione grandi somme di denaro, benchè spalancassi le porte di Fontanale e facessi scorrere champagne e Chianti a fiumi, proprio come l'acqua, tanto lì che in tutti i bar della città, l'elezione mi fu sfavorevole. Quei mascalzoni della nobiltà, quelli della borghesia e quelli del proletariato si erano rivoltati tutti contro di me e si erano uniti all'opposizione. Nonostante potesse uscire liberamente e avesse come usanza di visitare la moglie del sindaco, alcuni giornaletti misero in giro la voce che tenessi rinchiusa forzatamente mia moglie in casa. Una signorina venne ad intervistarmi a casa e mi domandò se mia moglie, per cena, apprezzasse di più i maccheroni o le frustate.
Oltre che dal mio fallimento di uomo politico (fui espulso dal parlamento nel giro di due giorni, senza alcuna speranza di venire rieletto), fui sconvolto dalla pioggia di conti che infuriò sulla mia persona: gli impegni che avevo firmato per anni dal mio matrimonio furono mandati tutti insieme dai miei creditori, fino a ricoprire il tavolo della biblioteca. Il loro ammontare era spaventoso. I miei amministratori e i miei avvocati peggiorarono la situazione. Ero stretto in un'inestricabile tela di cambiali, debiti, ipoteche e assicurazioni, con tutti gli orribili guai che ne derivavano. Gli avvocati volevano denunciarmi e le entrate di Clelia venivano totalmente incamerate per sfamare quegli avvoltoi. Quando il peso di tutto questo iniziò ad essere insostenibile, mi decisi per l'unica soluzione che ci era rimasta, cioè ritirarci in Toscana a fare economia, versando la maggior parte delle rendite ai creditori fino a che le loro richieste non fossero state soddisfatte. La contessa fu lietissima all'idea di andare e disse che, se ce ne fossimo stati tranquilli, tutto sarebbe andato per il verso giusto.
Partimmo quasi improvvisamente per Chiusi, lasciando quegli odiosi e ingrati mascalzoni romani a vilipenderci; i miei cani, le mie automobili e i miei cavalli furono venduti immediatamente. Lasciai la villa e tutte le cianfrusaglie al suo interno così come erano, essendo di proprietà degli eredi di casa Monteverde, e sconfinammo in Toscana (i nostri bagagli sarebbero stati spediti a parte, per motivi di privacy). Presi dimora a Castel Portanova per qualche tempo, mentre tutti (media compresi) immaginavano che fossi un uomo irreversibilmente rovinato e che il famoso e brillante Sbelluccio Bellini non sarebbe mai più riapparso nei circoli di cui era stato l'ornamento.
Ma non fu così, perchè, nel bel mezzo dei miei imbarazzi, la fortuna volle riservarmi una consolazione. Dall'America giunse una mail che annunciava il crollo di Wall Street e il conseguente suicidio del mio figliastro, il bisconte, che aveva partecipato a quella caduta in qualità di consulente. Cessò di interessarmi di possedere un miserabile titolo nobiliare, e dedicai le mie attenzioni a Rolando, che si ritrovava erede di una contea toscana e di una romana e fu semplicissimo fargli assumere il titolo di bisconte di Castel Portanova, oltre che di conte di Monteverde, ovviamente. Mia madre uscì pazza dalla gioia e io sentii che tutte le mie sofferenze e le mie privazioni erano ricompensate dal fatto di vedere quel caro fanciullo giunto ad una simile posizione.



Nessun commento:

Posta un commento