domenica 12 maggio 2013

Le memorie di Sbelluccio Bellini (Capitolo X) [Trame]


X.
FACCIO LA CORTE ALLA CONTESSA CLELIA,
ELARGISCO NOBILTA'ALLA MIA FAMIGLIA
E RAGGIUNGO IL CULMINE DELLA MIA (APPARENTE) FORTUNA

Dato che i debiti e certi pendenti penali gravavano ancora sull'esistenza di Luca Pisano, sarebbe stato poco opportuno per lui raggiungere il sottoscritto nella terra dei nostri avi dove, se non l'arresto, almeno un fastidioso processo, gli avvocati e un dubbio perdono aspettavano quel vecchio signore. In ogni importante crisi della mia vita da adulto, le sue dritte erano state sempre importantissime e io non mancai di andarne in cerca in quel frangente e di implorare, per mail, i suoi consigli in quel che concerneva il mio corteggiamento alla vedova. Gli raccontai la situazione in cui ella si trovava, i progressi che il notaio Catella aveva fatto nel suo affetto e l'oblio in cui ella aveva posto il suo vecchio ammiratore; parlai del suicidio del suddetto notaio, adducendone le cause a motivi passionali, ricevendo in risposta una e-mail piena di eccellenti suggerimenti, di cui non mancai di approfittare.
Monsieur de Rabelais apriva la lettera dicendo che in quel momento si trovava nel convento dei Frati Minori di Bruges, dove sperava di trovare la sua salvezza e di ritirarsi per sempre dal mondo, dedicandosi alle più severe pratiche religiose. Contemporaneamente, mi scriveva riguardo la contessa: era naturale che una bella donna, fra l'altro piena di soldi e inserita nel bel mondo, attirasse file di pretendenti come il miele fa con le api. Ma poiché, quando suo marito era ancora in vita, si era mostrata non del tutto maldisposta a ricevere i miei omaggi, non poteva avere dubbi che io fossi il favorito. Tralascio le lunghe descrizioni delle mortificazioni e delle devozioni a cui il buon cugino di Pisa si dedicava in convento, dal quale indirizzava perfino a me parole toccanti e intrise di fede.
Attendendomi alle direttive del novello fra'Luca, spedii un sms alla contessa, per chiederle quando avrei potuto intromettermi nel suo lutto, ma lei non rispose. Un paio di giorni dopo un altro messaggio servì a chiederle se aveva forse dimenticato i tempi trascorsi a Maiorca, ma nulla. Fu dopo cinque, interminabili giorni che il segretario di Clelia mi telefonò, affermando che la contessa era ancora troppo sconvolta e turbata per vedere chicchessia, all'infuori dei suoi parenti. Non mi detti per vinto e, piuttosto che insistere con volgari pressioni, decisi di aspettare, avessero dovuto sbiancarmi i capelli. Per cominciare, feci i bagagli, licenziai la mia fida guardia del corpo e presi commiato dal conte X, che tanto gentilmente mi aveva ospitato per quelle due bizzarre settimane. Braccato da alcuni articolisti di un gazzettino locale, risposi alle loro domande parlando di una fuga dalla città, sperando che la notizia raggiungesse anche la provincia di Firenze e giungesse alle orecchie della contessa di Monteverde; in realtà, mi allontanai di circa venti chilometri, stabilendomi dalla mia buona madre ad Agrestone.
Quei lettori che hanno in mente un forte senso del dovere filiale, si meraviglieranno che io non abbia ancora descritto l'incontro con mia madre, i cui sacrifici per me in giovinezza erano stati così notevoli, e per la quale un uomo della mia natura non poteva fare a meno di provare il più durevole e sincero riguardo. Ma un signore che agisce nell'alta sfera della società in cui ora mi trovavo io, ha i suoi doveri pubblici da compiere prima di pensare ai suoi sentimenti privati; sicché, appena giunto, inviai un messaggino alla vedova Bellini, annunciandole il mio arrivo. Mi risulta che la mia cara mamma preparò un party come non ne se ne vedevano da tempo e invitò a parteciparvi tutte le sue umili conoscenze di Agrestone; io, pur apprezzando il gesto, non avevo voglia di scendere a tavola con una nobiltà ancor più gretta e odiosa di quella in cui mi ero imbattuto a Siena e, scusandomi umilmente, mi detti malato. Cercai di addolcire il disappunto di mamma mandandole dei fiori freschi e una pelliccia che feci arrivare direttamente da Grosseto. Quella cara donna, nonostante dodici anni di lontananza, malinconia e precarietà d'ogni tipo, sembrava ancora giovane e fresca, ed era pronta, ora che il suo delfino viveva di nuovo nella casa degli avi, a viziarmi e coccolarmi come quando ero piccolo.
Il primo momento di tensione fra me e mamma lo si ebbe quando Daniele, che nella sua infinita umiltà mi era stato accanto nei giorni senesi, provò ad avvicinarsi a casa nostra. Fu cacciato e mia madre giurò che avrebbe rinnegato lui e tutti i poveri diavoli rimasti vivi in quello che un tempo era stato un nobile casato, quello dei Bacherozzi. Alla seconda occasione, invece, fui io ad alterarmi: infatti, don Simone, guida spirituale di mia madre, fu la sola persona alla quale venne aperta la porta di Agrestone durante il mio soggiorno, perché non avrebbe ammesso dinieghi. Egli si preparò un bicchiere di vino rosso, dandomi così l'impressione che avesse l'abitudine di bere a spese della mia buona madre; borbottava e mi parlava, con tono di rimprovero, della peccaminosità dei miei passati trascorsi e specialmente della mia attività di giocatore.
<<Peccatore!>>, dissi balzando in piedi di fronte al prete impietrito,<<Certo, siamo tutti peccatori, don Simone, e proprio voi lo andate dicendo a giro da quando siete nato. Mettetevi nei miei panni e provatevi a comportare in maniera diversa!>>. E alla lista dei miei peccati ne volli aggiungere altri: omicidi, sciacallaggio, regolamenti di conti, donne sposate, donne libere, donnacce. Il buon uomo raccolse le sue cose e uscì dalla porta sul retro mentre io lo seguivo urlandogli alle spalle tutti i mali che avevo commesso negli ultimi dieci anni. Almeno ad Agrestone, nessuno rivide più don Simone.
<<Avrei voluto, Sbellu, che tu ti trattenessi di più con la tua povera mamma>>, disse la vedova mentre si asciugava le lacrime, al mattino seguente. Avevo infatti deciso di ripartire il prima possibile e, con un paio di ore di macchina, avrei raggiunto la tenuta dei Monteverde per pranzo. Promisi che sarei tornato a trovarla nel giro di poco, portandole le foto della mia casa e della mia futura moglie.
<<E chi sarebbe?>>, chiese mamma incuriosita.
<<Una delle più belle e ricche nobildonne del regno, mammina mia>>, risposi; e con queste speranze lasciai Agrestone.
Pontassieve è un paese di ventimila anime e sorge a circa undici chilometri dal capoluogo del Granducato; la splendida tenuta di Castel Sant'Andrea apparteneva alla famiglia della contessa da almeno cinquecento anni e sorgeva poco fuori città, arroccata su un poggio. La mia Audì fu lasciata su uno spiazzo indicatomi da un anziano chaffeur, che ebbe la gentilezza di accompagnarmi fino alle stanze dove la contessa aveva da poco finito il suo pranzo. Mi imbattei in Pardo, che fu molto cordiale con me, e nel piccolo bisconte, che continuava a nutrire nei miei confronti un astio inspiegabile. Bussai alla porta della sala da pranzo e rifiutai che una domestica brutta e sgraziata mi presentasse.
<<Avanti!>>, disse la mia Clelia quasi sussurrando.
Uscii da quella stanza meno di due ore dopo, durante le quali avevo riversato parole su parole sull'attonita vedova, stando dritto davanti a lei e dominandola con la mia statura, affascinandola col balenare dei miei occhi; lei diventava rossa, poi sbiancava per il timore e la meraviglia, e io, in tutto questo gioco di sensazioni, constatavo con calma trionfale il dominio che andavo assumendo su di lei. Mi invitò ad uscire ringraziandomi di quella visita e domandando se di incontri analoghi se ne sarebbero tenuti altri.
<<E chi lo sa...>>, dissi.
Quando scesi lasciai mille euro in contanti allo chaffeur che, da bravo factotum, mi aprì la porta.
<<E'per compensarvi del disturbo di aprirmi la porta. Dovrete farlo spesso>>.
Il giorno dopo, quando ritornai, non andò altrettanto bene; mi fu rifiutato l'ingresso. La signora non era in casa! Sapevo che non era vero: avevo tenuto d'occhio tutta la mattina la porta principale da una camera che avevo preso in affitto nella casa dall'altra parte della strada dove sorgeva il castello. Mi attaccai al telefono e presi ad urlare:
<<La vostra padrona non è fuori di casa. Non mi raccontate stronzate!>>, dissi.
La cuoca mi passò, alla quarta telefonata, il mio amico chaffeur, che mi invitò a raggiungerlo nella rimessa.
<<Patti chiari, amicizia lunga>>, iniziò, <<Io so tutto della contessa, signor Bellini. Se lei vuole sapere, deve pagare>>.
Inizialmente pensai di prendere un piede di porco e aprire la testa a questo strozzino, ma non mi sentivo in una posizione pienamente favorevole, così decisi di mostrarmi accondiscendente e srotolai una mazzetta di pezzi gialli. Seppi così che Clelia si era recata, incappucciata e vestita come una donna di servizio (ecco perché non l'avevo notata quella mattina), da una chiromante che abitava a Rignano sull'Arno.
<<La contessa visita quella strega due volte a settimana. È l'analista che non ha mai trovato, il prete confessore che non ha mai voluto avvicinare, un po' per vergogna, un po' perché non crede tantissimo in queste cose>>.
<<E quando si terrà il prossimo appuntamento?>>, domandai spazientito.
<<Lunedì prossimo>>, rispose lo chaffeur.
Aggiungendo altri duecento euro, ottenni l'indirizzo della chiromante e me ne andai, maledicendo la servitù di tutto il mondo.
La signora Mara, negromante che aveva fatto di Rignano il suo impero, era una figura assai nota alle cronache per alcuni problemi avuti, quando conduceva un noto programma televisivo, con la giustizia. Da allora aveva cercato di ripartire da zero, riuscendo perfettamente nei suoi intenti e ottenendo la fiducia (e le borse) di molte donne toscane, fossero queste di ceto basso o di ceto alto. Clelia, come molte altre distintissime nobildonne dell'epoca, si era lasciata invaghire da questa strega e non era più riuscita a smettere di andare alle sedute; io, avendo conosciuto nei miei viaggi decine di truffatori e simili, non mi feci ammaliare. Le chiesi quanto guadagnava con le otto sedute mensili della contessa e lei rispose senza eccedere; le offrii due volte quella somma, ma doveva promettermi che avrebbe fatto il mio nome nel leggere il futuro di Clelia.
Fu così che Mara non mancò di riconoscere come futuro marito della contessa di Monteverde il suo perseverante adoratore Sbelluccio Bellini.
Notevolmente infastidita da questo pronostico, Clelia fu sommersa da dubbi e paure sul mio conto e decise di ritardare ancora il momento della decisione. Io, da parte mia, stanco del clima che respiravo forzatamente a Pontassieve, iniziai a farmi venire idee assai malsane: sapevo che in quelle zone collinari selvagge e pericolose, si muovevano dei mascalzoni gentiluomini, i quali, su commissione, convincevano le persone a sposarsi con o senza il loro consenso o quello dei genitori. Chi fosse a capo di questa pittoresca organizzazione nessuno sembrava saperlo e tentare di mettersi in contatto con qualsiasi affiliato rappresentò, per me, solo una grande perdita di tempo.
La svolta fu quando, finalmente, la contessa decise di dimettersi da inconsolabile vedova e di togliere le tende da Pontassieve. Fu per me un sollievo lasciare quei luoghi tetri e desolati, e l'inverno alle porte avrebbe senz'altro peggiorato la situazione; inoltre, sganciai gli ultimi duecento euro al caro chaffeur, che mi descrisse minuziosamente gli imminenti movimenti della sua padrona.
<<Partirà con la macchina grande e farà un giro di lontani parenti del Valdarno. Lei deve calcolare almeno una settimana di giri, cene e ospitalità varie. Poi andrà sicuramente a Firenze, dove la potrete rintracciare in via del Proconsolo. Vive lì, in un appartamento appartenuto al marito>>.
E, ovviamente, la prima persona che Clelia trovò sotto casa in via del Proconsolo meno di otto giorni dopo fui io. Mi ero mosso con largo anticipo e avevo preso un bell'appartamento in via Ghibellina, con tanto di servizio di sorveglianza, che mi era stato fornito grazie ad una vecchia conoscenza pratese. Visto che la contessa non poteva sapere che il distinto Walter era ai miei servigi, lo incaricai di recarsi dal portiere del palazzo della vedova e di rilasciargli, ogni giorno, laute mance, in cambio di informazioni su ogni novità. La mia reputazione mi aveva preceduto anche a Firenze, tanto che, al mio arrivo, una quantità di nobili erano pronti a ricevermi alle loro riunioni mondane.
Noi non abbiamo idea, in quest'epoca monotona e volgare, di quanto gaia e splendida fosse Firenze allora e che passione per la belle vie ci fosse tra giovani e vecchi, maschi e femmine; quante migliaia di euro girassero in una notte; quali bellezze ci fossero. Era di moda vivere allo sbaraglio. Che piacevoli tempi, e felice colui che aveva entusiasmo, carattere e denaro per poter vivere appieno quel periodo. Io avevo tutto questo e i vecchi frequentatori di <<Yab>>, <<Colle Bereto>>, <<Gilli>> e <<Tenax>> potrebbero raccontare un bel mucchio di storie sul coraggio, lo spirito e l'eleganza del signor Bellini.
Lo svolgimento di una storia d'amore è tedioso per tutti coloro che non vi hanno parte e io lascio questi argomenti ai poveri scrittori di romanzi new epic, new romantic e alle signorine palazzinare per cui essi li scrivono. Non è mia intenzione seguire qui passo passo gli incidenti del mio corteggiamento o narrare tutte le difficoltà che dovetti affrontare e il mio trionfale modo di superarle. Se un uomo ha abilità e perseveranza sufficienti, può convertire l'indifferenza e l'avversione in amore. Mi basterà dunque dire che, poco dopo il mio arrivo nel capoluogo, avevo trovato il modo per farmi ricevere in casa della contessa, e le sue amiche, le serve e tutti coloro che attraversavano ogni giorno via del Proconsolo parlavano continuamente in mio favore, magnificando la mia reputazione e lodando il mio stile, il mio successo e la mia popolarità nel mondo.
Un giorno mi recai da Clelia a prendere il caffè, verso le quattordici, e rimasi meravigliato dell'assenza delle sue amiche, di Pardo e del piccolo bisconte; un silenzio irreale regnava su quel maestoso appartamento dai soffitti altissimi. Lei mi fece accomodare e, senza proferire parola, mi porse la tazzina. E sorrise. Fu allora che capii che sarebbe stata la donna della mia vita.
Così, a un anno di distanza dal nostro primo incontro, io ebbi l'onore di condurre all'altare Clelia, contessa di Monteverde, vedova del defunto molto onorevole Sor Filippo Teobaldo di Monteverde. La cerimonia fu celebrata nella chiesa di Santa Maria de'Servi, a Siena, dal reverendo Luis Pardo, cappellano della contessa. Furono dati un rinfresco pantagruelico e una serata a base di musica e gioco in un'antica colonica di Ville di Corsano e la mattina dopo, alla mia levée, ebbi da incontrare un duca, quattro conti, tre ufficiali e una folla dei personaggi più distinti del Granducato e, più in generale, d'Italia. Remigio, un comico all'epoca molto famoso, compose una satira sul matrimonio (pubblicata, la settimana seguente, da <<Vanity Fair>>) e Fonzie non risparmiò arguzie a <<Chi>>. Quanto al giovane bisconte, era ormai un ragazzino e quando fu invitato dalla contessa ad abbracciare il suo papà, mi scosse il pugno davanti al viso e disse: <<Lui mio padre? Chiamerei piuttosto papà uno dei nostri domestici!>>. Ma io potevo permettermi di ridere dell'ira del ragazzo (ed è ciò che feci) e di tutti i begli spiriti dei nostri illustri invitati. Mandai uno scintillante resoconto delle nostre nozze a mia madre (ella, purtroppo, si era ammalata ed era stata costretta a letto) e al cugino Luca; quindi, essendo giunto all'apice della prosperità e avendo raggiunto, a trent'anni, una delle più alte posizioni sociali che un uomo possa occupare in Italia, decisi di godermela da uomo di alto rango per tutto il resto della mia vita.
Un paio di giorni dopo la cerimonia, io e la mia signora ci recammo a visitare le nostre proprietà fuori dal Granducato; lasciammo Siena in un Jeep “Grand Cherokee” nuovo di zecca e due auto di scorta, sulle quali avevo fatto apporre il simbolo della mia nobile famiglia. Prima di lasciare Siena, tuttavia, mi procurai da il Cavaliere il grazioso permesso di aggiungere il nome della mia gentile signora al mio e assunsi quindi il nome e il titolo di Sbelluccio Bellini di Monteverde.



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