lunedì 13 maggio 2013

Le memorie di Sbelluccio Bellini (Capitolo XI) [Trame]


XI
FACCIO LA MIA COMPARSA
COME FIORE ALL'OCCHIELLO
DELLA SOCIETA'ITALICA

I primi giorni di matrimonio sono abitualmente molto difficili e ho conosciuto coppie che hanno vissuto insieme come colombi per tutto il resto della loro vita, ma che sono state sul punto di cavarsi gli occhi durante la luna di miele. Io non sfuggii alla sorte comune; nel nostro viaggio verso Roma la contessa Clelia riuscì a bisticciare con me perchè tirai fuori una sigaretta (avevo preso l'abitudine di fumare durante la guerra in Iraq, e non ho mai potuto liberarmene) e mi misi a fumare in macchina; e la sposa decise di prendersela a male tanto ad Acquapendente che a Grotte di Castro, perchè la sera, quando ci fermammo, io volli invitare gli albergatori a stappare una bottiglia con me. Clelia era una donna altera e io invece odio la superbia: ma vi assicuro che in tutti e due i casi domai questo suo difetto. Nel terzo giorno del nostro viaggio mi feci accendere una sigaretta dalle sue stesse mani, e, giunti a Palestrina, l'avevo sottomessa così completamente che ella mi chiese umilmente se non volevo invitare anche alcuni domestici a festeggiare con noi. Io non avrei avuto obiezioni a questa proposta, ma il vescovo Picarri, che era lo zio di Clelia (con lei condivideva l'enorme tenuta di Palestrina), e il buon costume non permettevano di appagare la richiesta di mia moglie. Feci la mia comparsa con lei al servizio della sera, per porgere i complimenti al vescovo zio, e volli donare milleventicinque euro per contribuire alla fabbricazione di un nuovo organo per la cappella di famiglia. Questo modo di comportarmi, proprio all'alba della mia carriera in quella provincia, mi rese non poco popolare presso chiunque.
Prima di arrivare a Roma, dovemmo attraversare per venti chilometri le proprietà dei Monteverde sparse lungo la via Cassia, dove la gente usciva fuori per vederci, il prete passava a benedirci e i fittavoli ci lasciavano un rapido resoconto delle ultime entrate. Io gettavo spiccioli a quelle brave persone, mi fermavo a baciare il parroco e a fare due chiacchiere con i fittavoli e, se trovavo che le ragazze della Cassia erano tra le più carine dello Stato, è forse colpa mia? Queste osservazioni fecero adirare Clelia oltre ogni immaginazione. Pensai alla gelosia di mia moglie, e riflettei, non senza un profondo dispiacere, con quanta leggerezza si era comportata quando era vivo il suo primo marito, e che i più gelosi sono proprio quelli che danno agli altri maggior motivo di gelosia.
Attorno a Veio la scena dell'accoglienza fu particolarmente bizzarra: i fotografi ci aspettavano e, appena scesi dalla macchina per salutare, mi parve si essere finito ad una conferenza stampa dell'ONU, solo senza archi, bandiere e quant'altro. I flash mi colsero alla sprovvista, e il mattino seguente la mia nobile espressione di gentiluomo meravigliato era in ogni quotidiano romano degno di rispetto. Rimasi inoltre colpito, all'altezza delle Mura Serviane, dove la Cassia si unisce alla via Flaminia, poiché Clelia mi indicò un grande parco e poi un cancello, a partire dal quale si snodava un viale di nobili olmi fino al Fontanale. Avrei voluto che fossero state querce, quando tagliai quegli alberi, perché avrebbero fruttato tre volte tanto; non conosco niente di più biasimevole della trascuratezza degli antenati nel piantare nei loro terreni legname di scarso valore, quando avrebbero potuto piantare altrettanto facilmente delle querce. Sicchè ho sempre detto che il baciapile Monteverde di Fontanale, che piantò quegli olmi ai tempi dei Borgia, mi frodò di diecimila euro.
Per i primi giorni dopo il nostro arrivo, il mio tempo fu speso piacevolmente nel ricevere le visite della nobiltà e delle persone più distinte che venivano a porgere i loro omaggi alla nobile coppia di novelli sposi e a passare in rassegna i tesori, la mobilia e le numerose camere della villa. È questa una vasta e antica villa rinascimentale, che si eleva nel mezzo di una bella riserva di caccia, che era magnificamente popolata di cervi, e non posso fare a meno di ammettere che da principio la mia soddisfazione era grande, quando sedevo nel salotto dalle pareti di mogano, nelle sere d'estate, con le finestre aperte, i piatti d'oro e d'argento splendenti di cento magnifici colori sulle credenze, una dozzina di amici allegri attorno alla tavola, e guardavo fuori nel vasto parco verdeggiante e negli ondeggianti boschi e vedevo il sole tramontare sulla città o udivo le campane richiamarsi l'un l'altra. L'esterno era, quando vi arrivai la prima volta, una singolare composizione di tutti i generi d'architettura: un paio di torrette medievali, muri rustici tirati su dopo il secolo buio seicentesco e un giardino all'italiana che forse era il vero fiore all'occhiello di tutta la tenuta. Ma non c'è bisogno che mi soffermi a parlarne ancora, dato che avevo deciso io lo stile da dare a tutto il castello, impiegando ingenti risorse economiche per contattare un architetto alla moda. Feci togliere erbacce e sterpame e volli una lunga scalinata che conducesse dalla strada alla porta di ingresso e che iniziasse di fronte alla rimessa.
Il portone di ingresso del piano terra presentava un atrio molto elegante, dal quale due rampe di scale conducevano al primo piano; una porta sulla destra portava ad un piccolo corrodio lungo il quale si trovavano la stanza di divinazione (come ho già accennato con l'episodio della chiromante nel precedente capitolo, Clelia era un'appassionata di questa disciplina) e una sala degli specchi; invece, una porta parallela a quella d'entrata permetteva di accedere ad un corrodio ben più ampio, lungo il quale si trovavano ben undici vani: una lavanderia, confinante con la stanza del nostro maggiordomo; la moderna sala da ballo, che conteneva a sua volta la porta del nostro magazzino (pieno di oggetti utili nell'organizzazione di feste); una sontuosa sala da pranzo e la cucina adiacente (questa si affacciava su un piccolo giardinetto destinato ai cani di Fontanale, che era diviso tramite un muro di cinta alto quasi tre metri dal cimitero familiare); e poi la sala proiezioni (un vecchio prozio adorava il cinema), la sala biliardo (dove ho trascorso serate fra uomini veramente piacevoli) e la stanza degli strumenti musicali, tanto desiderata dalla mia signora nel corso del suo precedente matrimonio; in fondo a questo splendido corridoio, si trovavano un bagno (posto sulla sinistra) e la porta che conduceva nel parco. Attraversato il giardino, curatissimo dal nostro giardiniere (per il quale avevo fatto edificare un capanno in legno proprio nel giardino) e abbellito dalla presenza di un pozzo medievale, si arrivava alla palestra, che avevo reso completa e professionale, tramutandola nell'invidia di molti aristocratici romani.
Ho già descritto le due rampe di scale che conducevano al primo piano della nostra villa, un piano che nulla aveva da invidiare ai lussi di quello inferiore; qui, infatti, io e Clelia avevamo la nostra camera matrimoniale da sogno, messa un po' più in disparte, per rispetto alla privacy di cui ero accanito sostenitore sin dall'infanzia; un primo corridoio sulla sinistra costeggiava l'enorme biblioteca (dove trovavano posto quasi trentamila tomi), una stanza adibita a nursery, la cameretta del bisconte e un'ulteriore camera per due bambini ospiti (poteva capitare che qualche nobile si presentasse con famiglia a seguito e non potevamo farci trovare impreparati); la stanza da tè era invece stata studiata quasi esclusivamente dalla contessa, essendo ella una cultrice delle ore diciassette e di quella calda bevanda; da questa si poteva giungere in un'anticamera, che non aveva uno scopo preciso, se non quello di portare, a sua volta, al nostro ingente guardaroba, che occupava da solo un vano di pochi metri quadrati e che terminava con un balconcino; per la mia cara mamma, che sapevo per certo sarebbe venuta a trovarci sovente, feci approntare dal nostro geniale architetto una camera del cucito, dove poter praticare il suo passatempo preferito, e la stessa attenzione la dedicai allo studio della sala da cena, visto che vi avrei condotto i nostri illustri ospiti in centinaia di occasioni; più in disparte, ma non per questo meno affascinanti, stavano un magazzino vuoto (che per dimensioni era analogo a quello del piano terra) e una stanza delle scienze celesti, voluta dal momento che il bisconte era un piccolo appassionato di quella disciplina; non vedendolo particolarmente soddisfatto, decisi di ampliarla e di adibire un vano di poco più piccolo ad osservatorio (con tanto di telescopio professionale fabbricato a Venezia, e un balcone, dove recarsi nelle notte stellate).
Il secondo piano fungeva un po' più da zona appartata e disordinata della casa, tant'è che decisi di non toccarlo o quasi; il Sor Filippo lo aveva dedicato solo a se stesso e alle sue strampalate collezioni di gentiluomo annoiato, tant'è che questo presentava un'illuminazione più scarsa e spazi notevolmente ridotti rispetto agli altri due; la stanza dei trofei di caccia riusciva comunque ad affascinarmi, così come il grande atelier dell'artista (quel vecchio nobile era stato, in vita, un discreto pittore) e la camera delle armature; non potevo dire altrettanto della polverosa stanza dei telefoni, di quella delle ceramiche e dei vasi o di quella dei giocattoli; la più assurda, infine, risultava quella degli orologi (circa seimila pezzi, che io volli fermare), da cui però feci partire un piccolo ascensore che permettesse di recarsi con grande agilità sul tetto della villa; un enorme terrazzo, coronato da grandi vetrate settecentesche e affacciato su tutta la città, concludeva in bellezza questo secondo piano antico e lasciato un po' a morire.
Sin dall'antichità, è risaputo che le case dei signori presentassero qualche piccolo segreto, e io non volevo essere da meno dei duchi di Windsor: così, dopo un mese dall'inizio dei lavori, presentai il mio progetto per rendere infinitamente più misteriosa e aristocratica la nostra dimora; tutto consisteva nel rivalutare il piano sotterraneo della villa, che al mio arrivo comprendeva una rampa di scale in legno, un vano interruttore e una cantina che poteva risultare curata quanto un salone dell'Hermitage; dalla cantina, una porta in metallo conduceva in un vecchio condotto fognario, lungo il quale feci erigere una cella frigorifera (destinata alle nostre pietanze più prestigiose) e un vano tubature; infine, tenendo per me e l'architetto il segreto, feci prolungare quel budello e, giunto al pari del giardino, detti ordini di allargare smisuratamente il terreno, permettendo la costruzione di una stanza segreta dotata di ogni svago e comfort; per renderla praticamente introvabile, feci mettere due porte lungo il corridoio, di cui solo il sottoscritto avrebbe posseduto la chiave.
Tolsi buona parte dei quadri e inviai un mio uomo a comprarne altri, a giro per le aste; peccato che, per motivi di gusto o di delinquenza, i trecentomila euro che il mio agente spese in opere pittoriche quel giorno, ne avrebbero fruttati trentamila anni dopo, quando fui costretto a rivenderle frettolosamente. Al di là della villa, il nostro intrapendente architetto voleva mettere le mani anche sulla chiesa, ma don Pardo glielo impedì con tutte le sue forze ed io fui costretto a mettere un freno alle sue idee, che pure mi rimanevano simpatiche. Gli permisi, d'altro canto, di potersi sbizzarrire sulla colonica della servitù, il garage e il bosco; e riguardo a quest'ultimo voglio narrare un aneddoto. I contadini della Cassia chiamavano quella che ora era la mia riserva cornicularum saltus, cioè il “bosco delle cornacchie” e sin dall'antichità era stato messo in giro un inquietante proverbio: <<Cum ceciderit lignum ad cornicularum, tunc ille cadet Fontanales>>, che vorrebbe dire <<Quando cadrà il bosco delle cornacchie, cadrà anche il Fontanale>>.
Ho già parlato della cantina della nostra villa e di come fosse ben fornita e curata, oltre che della nostra spaziosa cucina adiacente alla sala da pranzo; ma oltre alle strutture adeguate, avevamo bisogno anche del personale giusto, un aspetto che io decisi di riformare completamente. Chiamai così il mio amico Gianni Mughini, che mi mandò un cuoco dalla Mansion House di Londra esperto in cacciagione e volatili di ogni sorta; e poi mi feci venire anche uno chef parigino con un paio di aides a seguito, un pasticcere veronese e alcuni officiers de bouche. Tutti accessori naturali per un uomo di un certo stile. E nessuno dei nostri vicini se ne andava da un pranzo senza una sufficiente dose di entusiasmo, neanche il più modesto parroco senza pretese del quartiere. Ma la nobiltà di cui parlo sapevo come conciliarmela anche in altri modi. Nella zona c'era stata, da sempre, solo una muta comune di cani e poche miserevoli coppie di vili bracchi destinati alla caccia (talvolta, da quelle parti, i gentiluomini partivano per battute fuori porta che potevano addirittura farli sconfinare in Toscana o in Umbria); io costruii un canile e delle stalle che costarono sessantamila euro e li riempii in modo degno dei miei antenati toscani. Avevo due mute di cani e nella stagione uscivo quattro volte la settimana, seguito da almeno tre compagni.
Questi mutamenti e questo stile di vita richiedevano, come si può immaginare, non poca spesa e debbo confessare che in me c'è ben poco di quello spirito d'economia che taluni praticano e ammirano. Bisogna tener presente che avevo sulle proprietà di Monteverde un interesse che non oltrepassava la probabile durata della mia vita, che avevo sempre avuto una certa facilità a trattare con gli strozzini e che dovevo spendere un bel po' anche per assicurare un degno andamento di vita alla contessa.
Dopo un anno di matrimonio, Clelia mi fece dono di un figlio: lo chiamai Rolando, come l'eroe della Chanson, ma che cosa potevo mai lascargli, all'infuori di un nobile nome? Non erano forse le proprietà della madre destinate tutte a quell'odioso bisconte, che pure viveva a Fontanale con il suo paziente istruttore? L'insubordinazione di quel ragazzo era spaventosa. Faceva adirare la madre nelle maniere più assurde, ma devo ammettere che non era dedito al gioco, alle donne o alle droghe; anzi, a scuola riusciva bene e godeva di un bel cervello. Una volta -ero di ritorno da una cavalcata- presi una frusta a nove code per castigarlo e lui tornò con un coltellaccio e credo mi avrebbe accoltellato, così lasciai il mio strumento di tortura e gli tesi la mano, chiedendo solo pace e amicizia; così ci riconciliammo, quella volta, e anche la seguente, e la seguente ancora; ma non c'era affetto fra di noi e il suo odio per me sembrava crescere a vista d'occhio.
Decisi allora di dotare il mio Rolando di una proprietà e, a questo scopo, feci tagliare dodicimila euro di legname sulle proprietà di Castel Portanova e Poggio Bonizio della mia bella Clelia; i miei commercialisti iniziarono ad urlare e a dire che non avevo neanche il diritto di pensare ad uno solo di quei fuscelli, ma io feci abbattere gli alberi lo stesso e permisi a mia madre di ricomprare quelle terre che, in un tempo lontano, avevano fatto parte delle immense proprietà della mia casata. Ella le ricomprò con grande avvedutezza e con profonda gioia, perchè il suo cuore si rallegrava all'idea che mi era nato un figlio e al pensiero delle mie meravigliose fortune. A dire la verità, avevo un certo timore, ora che vivevo in un ambiente così diverso da quello in cui ella era abituata a muoversi, che venisse a farmi una visita, facendo stupire i miei amici romani con le sue millanterie, col suo modo di esprimersi sempliciotto, col suo rossetto e le sue sottane di trentacinque anni prima, che le si addicevano molto all'epoca della sua gioventù, ma che era appassionatamente convinta essere ancora all'ultima moda. Così, quando le telefonavo, cercavo di rimandare la sua visita, pregandola di venirci a trovare quando fosse stata ultimata l'ala sinistra della villa o ultimato il giardino e così via.
<<A me basta uno squillo, Sbellu>>, rispondeva la vecchia signora. <<Non verrò a disturbarti tra i tuoi altolocati amici romani con le mie maniere da toscanaccia fuori moda. È un sollievo sapere che il mio ragazzo ha raggiunto la posizione che ho sempre pensato gli fosse dovuta e per prepararlo alla quale ho fatto tanti sacrifici. Però, un giorno, devi portarmi il piccolo Rolando. Fai gli auguri alla contessa da parte mia, e dille che ha un tesoro accanto che non avrebbe trovato neanche sposando un duca, visto che il tuo sangue, o il mio, sono i migliori che possano scorrere nelle vene. Non mi darò pace finché non vedrò te conte di Castel Portanova, e mio nipote bisconte>>.
Va detto che per la mente di mia madre e per la mia passavano le stesse idee. Avevo già fatto stampare delle carte da visita con su scritto “Conte Sbelluccio Bellini di Monteverde” e, con la mia abituale impetuosità, avevo deciso di conseguire il mio scopo. Mia madre andò a stabilirsi proprio a Castel Portanova, e io, potete esserne certi, feci correr voce che era un posto di non poca importanza. Tenevo nel mio studio una pianta della proprietà e i progetti per l'ampliamento della storica dimora della nostra famiglia, ed essendo stati messi in vendita ottocento ettari di terreno acquitrinoso, li acquistai a trecento euro l'ettare, sicché, sulla pianta, il mio castello sembrava tutt'altro che insignificante. Sempre in quel periodo, condussi le trattative per l'acquisto delle cave marmifere Guicciardini dall'omonimo barone, per sette milioni di euro: un affare imprudente, che mi fu causa di dispute, processi e liti interminabili. Del resto, i guai del possedere, la bricconeria degli amministratori, i pasticci degli avvocati sono senza fine. La gente modesta invidia noi, grandi uomini, e immagina che le nostre vite siano tutte piaceri. Più d'una volta, durante la mia prosperità, ho sospirato i giorni della più modesta fortuna e ho invidiato i miei compagni d'armi di un tempo lontano, i quali vivevano senza neppure una delle tormentose preoccupazioni e responsabilità che sono i fastidiosi accessori della proprietà e dell'alto rango.
Nel natio Granducato di Toscana, feci poco più che una comparsa per assumere la direzione delle mie proprietà, ricompensando generosamente coloro che erano stati gentili con me nelle mie precedenti avversità e prendendo il posto che mi spettava tra l'aristocrazia del paese. Ma, in verità, avevo pochi allettamenti a rimanere lì, dopo aver gustato i piaceri più aristocratici e completi della vita romana; così, passavamo l'estate fra Palestrina, Roma e Veio, per poi partire verso qualche paese estero.
È meraviglioso come il possesso della ricchezza faccia venire alla luce le virtù di un uomo o comunque dia loro vernice o lustro e metta in evidenza il loro splendore e il loro colore in modo mai conosciuto quando l'individuo stagnava nella grigia atmosfera della povertà. Vi assicuro che ci volle assai poco tempo perché diventassi proprio un personaggio di prim'ordine e facessi una certa sensazione nei caffè di Piazza Venezia e, in seguito, nel celeberrimo Circolo della Caccia. Il mio stile, le mie fuoriserie e i miei party erano sulla bocca di tutti ed erano descritti in tutti i giornali del mattino. La parte più modesta della mia famiglia cominciò a comparire all'improvviso ai nostri ricevimenti, e trovai, fra Roma e dintorni, più cugini di quanti mi fossi mai sognato d'avere, che proclamavano la loro parentela con me. Straccioni, giocatori d'azzardo, veterani di guerra, operai e arricchiti si ritrovarono a passare di fronte alla porta di Sbelluccio Bellini di Monteverde, ma io potevo solo spendere qualche reale parola, lasciandoli tutti con un pugno di mosche.
Dopo un certo tempo, la contessa ed io iniziammo a condurre vite separate, quando eravamo a Roma. Ella preferiva la quiete, o meglio, a dire il vero, ero io che la preferivo per lei, poiché ritengo che alla donna si addica un contegno tranquillo. La incoraggiavo, quindi, a pranzare in casa, con le sue amiche e don Pardo; permettevo a tre o quattro persone discrete di accompagnarla all'Auditorium o ai concerti in occasioni adatte; e declinavo per lei le troppo frequenti visite di amici e parenti, preferendo accoglierli durante le nostre maestose cene. Inoltre, ella era madre e le era di grande conforto vestire, educare e vezzeggiare il nostro piccolo Rolando, per amore del quale conveniva che rinunciasse ai piaceri e alle frivolezze del mondo.
Adoravo comportarmi con lei da vero tiranno, quando non volevo rendermi conto che ero, in realtà, il povero custode severo e diligente di una donna sciocca, di cattivo carattere e di debole mente. E per fortuna voleva molto bene al nostro figlioletto, per mezzo del quale avevo su di lei un dominio effettivo e completo, perché, se pretendeva di avere la meglio nelle nostre litigate e di affermare la sua autorità contro la mia, se si rifiutava di firmare delle carte che io potevo ritenere necessarie per l'amministrazione della nostra vasta e intricata proprietà, io portavo via Rolando, ad Acquapendente, per un paio di giorni; e vi garantisco che la sua mammina non riusciva a tenere duro a lungo e finiva per essere d'accordo con tutto ciò che mi veniva in mente di proporre. Invece della consueta servitù, mi vidi costretto a dover scegliere minuziosamente, fra le tante cameriere che venivano a casa con i loro curriculum, le più sgualdrine; peccato che, nel giro di poche settimane, la mia signora moglie le cacciasse di casa adducendo scuse totalmente infondate e impedendo al sottoscritto di divertirsi a dovere.
Anche da milionario, non abbandonai mai il gioco; addirittura, in alcuni mesi dell'anno, organizzai, coi miei conoscenti altolocati, dei viaggi presso i più prestigiosi casinò d'Europa; ebbi così modo di rivedere vecchie facce e riprendere la mano in un'attività nella quale, almeno una volta, non avrei avuto rivali. Certo è che per due anni a fila, fra la capitale e l'estero, perdetti molto denaro ad ogni gioco di carte e alla roulette, e mi vidi costretto a far fronte alle mie perdite attingendo numerosi prestiti sulle rendite annuali di mia moglie, sull'assicurazione sulla vita della contessa, e così via. Le condizioni a cui presi a prestito queste somme erano molto onerose e intaccavano notevolmente la proprietà; e furono proprio queste carte che Clelia (taccagna, ristretta e timida) rifiutò occasionalmente di firmare, fino a che io non la persuasi, nel modo che ho esposto precedentemente.
Dovrei qui accennare anche al rapporto con le scomesse sulle corse dei cavalli, dato che fanno parte della mia storia di quei tempi; ma, in verità, non mi fa particolarmente piacere ricordare le mie imprese all'ippodromo delle Capannelle. Venivo imbrogliato e frodato in modi assurdi in quasi tutti gli affari che facevo, benché mi intendessi di cavalli tanto bene quanto qualsiasi altra persona in Italia. Quindici anni dopo che il mio cavallo, Big Boy, di Campiglia d'Orcia, discendente di Giunone, aveva perso le corse alle Capannelle, in cui era il primo favorito, seppi che un nobile conte, che non nominerò qui, era entrato nella sua stalla la mattina, prima che corresse; e la conseguenza fu che vinse un cavallo forestiero e che il sottoscritto rimase fuori per la somma di quindicimila euro. Gli ignoranti direbbero che lì, in un luogo frequentato dalla più elegante ed antica nobiltà italiana, uno avrebbe potuto sentirsi sicuro di giocare correttamente e di essere non poco orgoglioso della compagnia in cui si trovava; eppure, vi assicuro che non c'era raccolta di uomini che sapesse come rubare, imbrogliare, corrompere, propinare droghe a un cavallo o manipolare un libro di scommesse in modo più distinto di tutti quei signori.
Ora che ero arrivato al colmo delle mie ambizioni, sembrava che tanto la mia abilità quanto la mia fortuna mi avessero abbandonato. Tutto ciò che toccavo andava in briciole fra le mie mani; tutte le speculazioni che facevo andavano male; tutti i professionisti di cui mi circondavo (e ai quali relegavo la mia totale e sincera fiducia) mi ingannavano. La verità, è che io sono uno di quegli uomini nati per fare, e non per mantenere, le fortune, perchè le qualità e l'energia che portano un uomo a farsi largo nel primo caso sono spesso proprio la causa della sua rovina nel secondo; e davvero non riesco a vedere altre ragioni alla sfortuna che piombò su di me.
Introdotto tramite alcuni amici, in un circolo letterario, proposi la fondazione di una rivista di lettere (disciplina per la quale, sin da bambino, avevo sempre stravisto) da me finanziata. La risposta più garbata che ottenni la dette un certo Gasparri, mediocre ritrattista proveniente dai Parioli, il quale, gentilmente, mi invitò a pensare ai miei cavalli e ai miei sarti e di non impicciarmi con la letteratura. Poi, fu la volta in cui volli provare ad entrare in società con i fratelli Zampetti, famosi a Roma per possedere ristoranti e discoteche di gran moda: con questi due distinti delinquenti, riuscii ad aprire un locale costato due milioni e mezzo, ossia il <<Piccolo Teatro>>, un luogo simpatico e vivace, che sorgeva a due passi dal Tempietto della Pace. Io ne scrivo ora, nella mia gottosa vecchiaia, quando la gente è diventata enormemente moralista e attenta di quando il mondo era giovane con me. A quei tempi, c'era una grane differenza fra un gentiluomo e un individuo qualunque. Noi allora portavamo abiti che nessuno, all'infuori di noi, poteva indossare; oggi, invece, stento a vedere le differenze fra un autista e il signore che viene scortato dentro l'auto. Un uomo era capace di bere quattro volte più di quanto riescano a mandar giù gli smidollati di oggi; ma è inutile insistere sull'argomento. I veri nobili sono morti per sempre. La moda adesso è favorevole ai bottegai, ai soldati e ai muratori, e io divento malinconico e di pessimo umore quando penso a che vita si faceva ai bei tempi.
Poiché il bisconte di Palestrina, a quell'epoca, era diventato troppo alto di statura e non la smetteva con le sue insolenze, decisi di lasciarlo affidato alle cure del collegio di Poggio Imperiale a Firenze, con alcune parenti del mio defunto padre a prendersi la briga di sfamarlo e accudirlo. Quando si diceva stanco di Firenze, era pienamente libero di andare a risiedere a Castel Portanova con la mia mamma; ma tra di loro non c'era simpatia, anzi, credo che ella lo odiasse tanto cordialmente quanto avrei potuto farlo io. Da parte mia, speravo che, al momento in cui quel turbolento ragazzo avesse concluso i suoi studi liceali, sarebbe tornato a casa con la matura convinzione di accettarmi e di avviare gli studi in Scienze Politiche; ero interessato soprattutto a questo secondo punto, visto che a Roma è usanza che le famiglie più aristocratiche indirizzino i propri figli (o figliastri, a seconda) verso la politica, giacchè è questa un utile strumento per portare la nobiltà in parlamento. E i Monteverde, in parlamento, erano assenti da ben due generazioni, mentre i nostri antipatici vicini, i Muratti, contavano da soli ben quattro membri all'interno del maggiore organo di stato. Destra o sinistra mi erano del tutto indifferenti: bastava che quel ragazzaccio diventasse parlamentare entro il mio cinquantesimo compleanno.
Nell'attesa, tenevo in gran conto il sindaco e il consiglio comunale; mandai della cacciagione ai loro pranzi e li invitai ai miei; mi feci un punto d'onore di assistere alle loro riunioni e di compiere ogni atto di cortesia facesse loro piacere. E fu proprio il sindaco, una sera, attorno al mio tavolo da biliardo, ad avvicinarmi:
<<Vede, caro conte, io sono totalmente convinto che, essendo fra gentiluomini, lei potrà capire al volo il discorso che sto per farle>>.
<<Sono tutto orecchie, signor sindaco>>, risposi.
<<Persone vicine al ministro della difesa, parlano di un'altra guerra in Libia, dove l'Italia potrà finalmente ottenere una buona fetta di torta. Dovremo compiere, assieme ai nostri alleati, delle azioni mirate a distruggere i ribelli che, a suo tempo, aiutammo nel combattere Gheddafi>>.
<<Io sono un veterano>>, risposi senza aver ancora capito dove andasse a parare il sindaco, <<E non rimpiango la mia carriera militare, per quanto questa possa essere stata gloriosa e brillante>>.
Il buon uomo scoppiò a ridere, poi si ricompose e proseguì:
<<Oh, ma lei ha capito male! Io sono qui per chiederle di finanziare una guarnigione, visto che le casse dello stato languono e le nostre caserme romane sono in condizioni pietose. In cambio, alla fine di un conflitto pulito e praticamente già vinto, lei avrà un pezzo della famosa torta. Petrolio, gas, carbone, tutto ciò che desidera. La scelta spetterà esclusivamente a lei>>.
Immaginai per un attimo Sbelluccio Bellini che visita le sue proprietà libiche, i suoi pozzi di petrolio e le sterminate ricchezze che questi avrebbero arrecato al mio casato; immaginai i miei debiti saldati, le difficoltà finanziarie mie e di mia moglie svanite; poi, senza dire una parola, estrassi dalla tasca il mio libretto degli assegni e domandai:
<<Quanto le serve?>>.
La cifra era mostruosamente alta, e non mi bastava un pozzo di petrolio come garanzia; così, con una mezz'ora di conversazione in più, decisi che sarebbe stato meglio per tutti che una di quelle poltrone vuote in parlamento fosse data a me. E così fu. Con indicibile furore di molti miei vicini di casa, fui eletto di lì a poco membro del parlamento, dove mi recai, appena mi fu data l'occasione, a compiere i miei doveri.
Fu allora che decisi seriamente di acquistare per me un titolo nobiliare italiano, di cui godesse, dopo di me, il mio adorato bambino ed erede.



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