sabato 11 maggio 2013

Le memorie di Sbelluccio Bellini (Capitolo IX) [Trame]


IX.
RITORNO IN ITALIA
E FACCIO MOSTRA DEL MIO SPLENDORE
E DELLA MIA GENEROSITA'IN QUELLA NAZIONE

Come erano cambiati per me i tempi, adesso! Quando avevo lasciato il mio paese ero un povero ragazzo senza un soldo, soldato semplice in un miserabile reggimento di marcia. E tornavo uomo, con un patrimonio di circa cinquecentomila euro in mio possesso, uno splendido guardaroba e una cassetta di gioielli, orologi e accessori che ne valevano altri ventimila, dopo essermi mescolato a tutte le scene della vita e aver agito in esse da attore protagonista, dopo aver fatto la mia parte in guerra e in amore, dopo essermi fatto strada con il mio genio e la mia energia dalla povertà e dall'oscurità all'agiatezza e allo splendore.
Nel guardare fuori dal finestrino oscurato della mia Audì “A8” blu, che rotolava pesantemente lungo le nude e squallide strade, presso le miserabili casupole dei contadini, che venivano fuori avvolti nei loro stracci spalancando gli occhi sullo splendido mezzo che passava loro davanti e scervellandosi nel tentare di indovinare chi potesse scortare il mio gigantesco bodyguard Tonio, dritto al posto di guida, con le sue treccine curate, gli occhiali scuri e la cravatta ben stretta al collo, non potevo fare a meno di pensare che dovevo ringraziare il destino che mi aveva dotato di tante buone occasioni. Se non fosse stato per i miei meriti, sarei rimasto un rozzo borghesuccio di campagna di stampo chianino, simile a quelli che vedevo vagare per le miserabili città attraverso le quali passava la mia macchina percorrendo la strada verso Firenze; avrei potuto essere ormai padre di dieci figli, o fattore per conto mio o amministratore delegato di qualche fabbrica da due soldi, o avvocato di campagna; ed eccomi, invece, arrivare come uno dei più famosi gentiluomini d'Europa.
A Chiusi pregai Tonio di accompagnarmi nell'affittacamere che undici anni prima mi aveva ospitato durante la mia fuga. Come ricordo bene ogni istante della scena. Il padrone di allora non c'era più e il locale, che all'epoca mi era apparso tanto comodo, appariva come diroccato e miserabile; ma il vino rosso era buono come ai vecchi tempi e io invitai l'albergatore a portarmene un bicchiere.
Avevo ricevuto da mia madre numerose mail che mi informavano delle vicende della famiglia di Fontasciano. Mio nonno era morto e Gabriele, il nipote più grande, lo aveva seguito nella tomba. Le ragazze del podere si erano allontanate dal tetto paterno appena l'altro mio cugino ne aveva preso la direzione. Alcune si erano sposate, altre erano andate a stabilirsi in luoghi fuorimano, chi in Garfagnana, chi in Maremma, chi sugli Appennini. Daniele, benchè fosse successo al nonno nella proprietà, aveva fatto bancarotta con la sua azienda olearia e ora Fontasciano era abitato soltanto dai pipistrelli, dai gufi e dal vecchio guardiacaccia Mario.
Giunsi a Fontasciano verso sera, ma non ripartii immediatamente; scesi dall'auto e iniziai a muovermi intorno alla mia vecchia casa. I cancelli del parco c'erano ancora, ma nel viale i vecchi alberi erano stati abbattuti; nel terreno dietro la chiesa c'erano incisi sulla pietra altri due nomi sulla tomba di famiglia dei Bacherozzi: erano quelli di mio cugino, di cui mi importava ben poco, e di mio nonno, al quale avevo sempre voluto bene. Qua e là sporgeva un vecchio moncone, che gettava lunghe ombre mentre io passavo alla luce del tramonto sul vecchio sentiero abbandonato e invaso dall'erba. Alcune vacche rientravano dal pascolo, all'orizzonte, e i campi, un tempo tutti coltivati, erano ora un ammasso di roghi e di sterpaglia inselvatichita. Nel giardino rividi me e Laila, e poi il litigio col capitano Tobino, e fui sul punto di mettermi a piangere. Penso che un uomo non possa dimenticare nulla: ho visto un fiore, ho sentito una parola, che hanno risvegliato ricordi che erano rimasti addormentati per molti anni. E quando entrai nella casa diroccata, tutto a un tratto mi tornò la memoria della mia infanzia, della mia vera infanzia: ricordai mio padre col suo loden verde, che mi sollevava per farmi vedere qualche aereo in cielo, e mia madre accanto a lui, con un abito a fiori. Mi domando se un giorno tutto ciò che abbiamo visto e pensato attraverserà la nostra mente in questo modo. Preferirei di no.
A Siena fui ospite del conte X, che avevo conosciuto due anni prima durante una mia scappatella parigina. La sera in cui arrivai al suo splendido palazzo del centro, si sarebbe svolto un gala a scopo benefico e io ebbi giusto il tempo di farmi una doccia bollente e di mettere in ordine le valigie, per poi passare ai complessi preparativi per quella esclusiva occasione mondana. Da vero gentiluomo amante del gioco e della bella vita ed esperto di tutti gli aspetti che concernevano tali meraviglie, decisi di indossare lo smoking. Esso è un capo di abbigliamento da indossare solo la sera, cioè dopo le diciotto, ed è indicato per la notte di San Silvestro, le prime teatrali, i casinò e, appunto, le serate di gala; non è, nella maniera più assoluta, un abito da cerimonia. Il mio, gentilmente regalato da Luca Pisano e frutto del lavoro di una prestigiosa sartoria di Regent Street, era il classico monopetto nero, con risvolti e bottone rigorosamente in seta. Il Duca di Windsor aveva ammesso, verso la metà del Novecento, che l'unico colore alternativo al nero era il blue midnight, ma solo pochi arditi osavano indossarlo. Ho visto più volte, soprattutto in Germania e in Olanda, abbinare alla giacca un papillon colorato, e in ogni occasione ho considerato tale scelta di basso livello; per non parlare poi di chi lo mette bianco, ignorando che il farfallino di questo colore è stato pensato per il frac. La camicia bianca che scelsi quella sera era di cotone misto a lino, con bottoni di madreperla cuciti a mano e polsini doppi che non mancai di risvoltare verso l'esterno per poi chiuderli con gemelli d'oro bianco a forma di cavallo. In questi casi, il galateo contempla sia il gilet che la fusciacca, ossia una fascia da girare attorno alla vita: ho sempre optato per la prima soluzione, ritenendo la fascia un oggetto carico di volgarità. Scelsi con grande attenzione i pantaloni, che dovevano essere sprovvisti dei passanti della cintura (un accessorio in questo caso bandito) e di colore nero, come le calze in filo di Scozia e le scarpe, scollate e lucide (le mie, nella fattispecie, presentavano un simpatico, piccolo fiocco di seta al posto delle stringhe). Giusto gli esibizionisti ricorrono a mezzucci come il fazzoletto da taschino o ancora peggio il fiore all'occhiello (oggetti il cui solo pensiero mi fa rabbrividire), così conclusi il mio lavoro mettendo un orologio da taschino quattordici carati nel gilet. Considerai l'idea di un cappello, ma decisi che sarebbe stato troppo; misi il cappotto lungo e uscii.
I cittadini di Siena hanno un così grande e lodevole desiderio di conoscere gli affari dei loro vicini quanto ne ha la gente di campagna; ed è impossibile, per una persona di un certo livello, entrare in questa meravigliosa città senza che il suo nome venga stampato su tutti i giornali e riportato in tutti i luoghi di ritrovo più alla moda. Il mio nome e i miei titoli si sparsero per tutta la città non appena arrivato. Tonio mi scortò con la sua consueta discrezione fino alla Piazza del Mercato, dove ci salutammo; da lì mi incamminai in via del Sole. Il conte volle ricevermi personalmente e decise di presentarmi a quella che lui definì la sua “grande famiglia”. Nel giro di un'ora, il marchese Bini Porciatti fu in grado di offrirmi casse di buon vino a prezzi stracciati con cui riempire le cantine delle mie proprietà per i successivi dodici anni; il dottor Corsini fu così gentile da invitarmi la mattina successiva a colazione da lui; e infine il barone Gonzi Marrocchi mi invitò sul suo palchetto per il Palio dell'Assunta. C'era, in quella nobiltà senese, una semplicità che mi divertì e mi meravigliò allo stesso tempo, condita da un pizzico di provincialismo e da una copiosa porzione di ingenuità: infatti, in una sola serata a Siena, io mi feci una reputazione che ad acquistarsela a Roma o a Milano ci sarebbero voluti dieci anni e un mucchio di soldi.
Non volli approfittare, tuttavia, di una situazione che avrebbe potuto fruttarmi chissà quali ingenti guadagni; è vero, l'intera città era ai miei piedi, ma io ero tornato in Italia per altri motivi, che andavano oltre tutti i piaceri consentiti da quelle parti. Il Circolo dei Rozzi e le case dei nobili mi furono ben presto aperti, così come tutte le società delle contrade e le bische, frequentate quasi esclusivamente da piccola borghesia e plebaglia assortita. Mi fu subito fatto notare l'errore nel quale ero incappato presentandomi, in una sala poker, come un individuo pronto a giocare con chiunque, qualsiasi somma, a qualsiasi gioco. Ad autentici gentiluomini come il sottoscritto, i senesi non dovevano essere abituati. Il gioco, alla lunga, non mi interessava, e decisi di concentrarmi su quella che per me era destinata a tramutarsi in un'ossessione: Clelia.
Mandai una e-mail a Pardo, che per mia fortuna si trovava proprio nel Granducato, e chiesi tutti i possibili particolari sullo stato d'animo e di salute della contessa di Monteverde, alla quale inviai un sms di sei pagine, in cui le presentavo le mie condoglianze e la pregavo di ricordarsi delle belle giornate estive trascorse assieme. La risposta che ricevetti da lei fu estremamente poco soddisfacente e poco esplicita; quella di Don Pardo abbastanza esplicita, ma niente affatto soddisfacente come contenuto. Il notaio Catella, figlio minore del celebre giurista romano, rendeva omaggi molto evidenti alla vedova (sfruttando, ridicolmente, le pagine di alcuni rotocalchi); era legato alla famiglia da lontani vicoli parentali ed era stato chiamato a Pontassieve quale esecutore testamentario del defunto Sor Filippo.
Dopo una settimana di permanenza senese, mi imbattei in mio cugino Daniele, divenuto molto grasso e molto povero, perseguitato dai creditori e dal suo commercialista, rifugiato in ogni sorta di affittacamere di periferia, da cui usciva al tramonto per recarsi in centro, a giocare alle carte in una bisca di Piazza del Sale; il coraggio era l'unica cosa che gli avvocati, gli strozzini e i politici locali non gli avevano tolto, e decisi di fare allusione ai miei sentimenti verso Clelia.
<<La contessa di Monteverde!>>, disse il povero Daniele.
<<Beh, questa è clamorosa! Anch'io vorrei tanto riuscire a sposare una ragazzina della famiglia Bortelli di Castellina, che ha entrate sui diecimila euro l'anno e che è lontana cugina del vicesindaco di Radicofani. Ma come cazzo fa un povero scemo, che non ha neanche un giubbotto per coprirsi, fare proposte ad una a quel modo? Voglio dire, se una sera fossi particolarmente ubriaco come ultimamente capita, magari, potrei chiederla anche alla contessina Clelia!>>.
<<Meglio evitare>>, dissi io, ridendo,<<Chiunque ci provi chiappa delle sonore rombe!>>.
E così gli spiegai le mie personali intenzioni nei riguardi di Clelia. L'onesto Daniele, il cui rispetto per me era divenuto prodigioso da quando aveva visto il mio splendido aspetto e udito le mie mirabili avventure e la mia grande esperienza della vita elegante, si perdette nell'ammirazione della mia energia e del mio coraggio, quando gli confidai il mio proposito di sposare la più grande ereditiera del momento.
Daniele mi aiutò nell'adescare il buon Catella, tramite alcune conoscenze, alla famosa bisca, dove io, aiutato da alcuni amici giocatori (tutti ben pagati, sia chiaro), provvidi dapprima a ripulire il notaio, e poi feci entrare ben tre facchini, travestiti da paparazzi, che immortalavano, con belle reflex digitali noleggiate da un fotografo di Piazza Indipendenza, l'aristocrazia locale sprofondata nel vizio del gioco. Temendo l'ondata di vergogna che avrebbe infangato il suo nome e la sua professione e frugandosi bene in quelle tasche che io stesso avevo svuotato, il notaio Catella non attese di tornare nella capitale per togliersi la vita: lo fece nella sua camera dell'Hotel Continental di Siena, impiccandosi quella stessa notte. 


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