martedì 21 maggio 2013

[Recensione] La grande bellezza

Paolo Sorrentino ha detto due cose alla prima del suo nuovo film, una giusta e l'altra sbagliata. Quella giusta è stata: <<Il cinema italiano dovrebbe essere migliore, ha grandi autori e trovo stravagante che lo si critichi sempre a priori>>. Niente di più vero, specie se si pensa che chi critica il cinema italiano spesso non vede film italiani, e, nei casi più disperati, neanche ha mai visto film italiani belli o ha una vaga idea di cosa siano. Tuttavia, cascano le braccia (e non solo quelle) quando andiamo a vedere un po' di cinema nostrano spacciato per "autoriale": nel mio caso, penso a registi come Ozpetek, Giordana, Garrone o Bellocchio; le opere di questi tizi mi lasciano perplesso e rimango schifato da chi si prostra ai loro piedi, inneggiando ogni volta al "capolavoro", termine usato sempre più spesso e sempre più a sproposito. In compenso, Sorrentino commette un errore quando conclude il proprio intervento dicendo che <<La dolce vita era un capolavoro, questo è solo un film>>. Sbaglia. Sbaglia di grosso.
La grande bellezza è un capolavoro, ed è, con tutta probabilità, l'unico autentico capolavoro del nostro cinema approdato in sala negli ultimi vent'anni. Il fatto che sia l'unico film italiano in concorso a Cannes, il fatto che sia stato accolto molto bene, il fatto che possa davvero vincere la Palma è secondario: La grande bellezza è un film che si fa una volta nella vita. Sorrentino, che finora (al contrario di maestri come Fellini, Bertolucci, Monicelli, Antonioni, Olmi, Visconti o Rossellini) non ha mai girato un film brutto, può dirsi "arrivato" come autore. Lui stesso ha parlato tanto e a lungo di questo film, che lo ha praticamente risucchiato per due anni, definendolo per primo come il suo lavoro più importante, quello per tanti versi "definitivo", senza sbavature o ripensamenti. Finora, aveva raggiunto la massima espressione artistica con Il divo, la <<mascalzonata>> su Andreotti di cui tanto si è parlato anche nelle ultime settimane, ma qui, vuoi per il brusco cambio di genere e stile (anche rispetto al più recente e un po' meno riuscito This Must Be The Place), vuoi per l'alone misterioso che ha avvolto la trama del film fino a pochi giorni fa, siamo proprio su un altro pianeta. Tutto è semplicemente perfetto, dalla messa in scena di questa decadente e folle città eterna popolata da individui che si sono appena resi conto della propria mortalità alla scelta della colonna sonora, dalla bravura di Servillo e Verdone all'eleganza con cui la macchina da presa scivola, fora, penetra la "grande bellezza" della città. Calza molto poco il parallelismo con Fellini, visto che il maestro riminese "onirizzava" parecchio la capitale, giocandoci e mostrando l'aspetto più surreale del boom economico; Sorrentino invece prende Roma e la "idealizza", popolandola di individui che stanno per scomparire, inquadrando queste meravigliose terrazze su cui sta andando in scena l'estinzione di una civiltà cafona, ipocrita e insensibile.  L'unico che potrebbe davvero cavarsela, alla fine, è proprio il protagonista Jep (Servillo), un tempo scrittore di successo, ora disilluso e ricco giornalista mondano, cinico, spietato ma anche incredibilmente sensibile, come lui stesso ammette all'inizio. I personaggi che lo circondano, dalla triste spogliarellista sul viale del tramonto Ramona (una Sabrina Ferilli semplicemente perfetta) all'ingenuo e romantico autore teatrale Romano (un Verdone eccezionale nel suo ruolo drammatico), o muoiono o abbandonano Roma. Alla fine, la vera protagonista del film è proprio lei, Roma, la città eterna, costretta a convivere con i suoi sgraditi ospiti, e cioè gli esseri umani: Jep è solo il meno peggio dei suoi abitanti,  è un individuo che dopo il primo, romantico libro pubblicato a venticinque anni, vorrebbe scriverne un secondo, quello sulla maturità, sulla paura di non essere eterno, sulla disillusione dell'età adulta. 
In poche parole, non è semplice parlare di tutto quello che questa grande opera d'arte contemporanea affronta, delle sue microstorie, dei suoi simboli, ma una cosa è certa: è un film di grande bellezza, ma di quella che lascia senza fiato. 

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