martedì 14 maggio 2013

Le memorie di Sbelluccio Bellini (Capitolo XIII ed Epilogo) [Trame]


XIII.
CONCLUSIONE

Se il mondo non fosse composto da una razza di ingrati personaggi, che condividono la vostra prosperità finchè dura, ma poi, quando si sono rimpinzati con la vostra tavola e le vostre cantine, oltraggiano colui che ha generosamente pagato la festa, sono sicuro che avrei meritato un buon nome e un'elevata reputazione almeno in Toscana, dove la mia generosità fu senza limiti e lo splendore della mia casa e dei miei ricevimenti non fu eguagliato da alcun altro nobile dell'epoca. Fino a che durò la mia magnificenza, tutto il paese fu libero di parteciparvi; avevo nella rimessa abbastanza automobili da preparare un team di rally e nelle mie cantine tante botti da ubriacare per anni interi staterelli europei. Castel Portanova divenne il quartiere di decine di gentiluomini bisognosi e io non uscivo mai per una partita di caccia senza avere una dozzina di giovani del miglior sangue che facevano da scorta al mio fuoristrada.
Mio figlio dimostrava, in tutto e per tutto, di discendere da due nobili famiglie, e io nutrivo per lui non poche speranze. Amavo lasciarmi andare a tenere previsioni sui suoi futuri successi e sulla figura che avrebbe fatto nel mondo. Ma il crudele destino aveva stabilito che non avrei lasciato dietro di me nessuno della mia razza, e aveva decretato che avrei finito la mia carriera, come vedo ora, povero, abbandonato e senza eredi. Posso aver avuto i miei difetti, ma nessuno potrebbe dire di me che non sia stato un padre buono e affettuoso. Amavo con cieca parzialità quel ragazzino, e non trascorre giorno, da quando l'ho perduto, in cui la sua faccia ridente e il suo bel sorriso non mi fissino giù dal cielo, dov'è ora. Quel caro bambino mi fu tolto all'età di nove anni, nel pieno della bellezza e delle promesse, e la sua memoria mi domina in modo così potente che non mi è mai riuscito a dimenticarlo.
Accadde nel mese di ottobre: io ero stato a Siena, allo scopo di vedere un avvocato e una persona ben provvista di denaro che era venuta sin lì per consultarsi con me circa la vendita di certe miniere e il taglio della tenuta di Fontanale, di cui, dato che odiavo quel luogo e avevo grande necessità di denaro, ero deciso a tagliare fino all'ultimo fuscello. La questione aveva presentato qualche difficoltà. Era stato detto che non avevo diritto di toccare quel legname e i rozzi contadini mi odiavano a tal punto che rifiutavano da settimane di posare l'ascia sugli alberi; e il mio agente dichiarò che correva pericolo di vita in mezzo a loro. A quell'epoca, ogni oggetto della splendida mobilia del castello era stato venduto, non c'è bisogno di dirlo, e l'argenteria aveva fruttato circa seimila euro, i quadri trentamila e alcune cianfrusaglie dodicimila. Ad ogni modo, convinsi Armando Gerondi, costruttore di navi e mercante di legname a Pisa, ad acquistare il mio legname, e anche da lui ebbi cinquemila euro in contanti. Lui non ebbe problemi a far abbattere la mia vecchia tenuta, ve lo assicuro. Si presentò con la sua squadra e in due mesi Fontanale era nudo di verde come il Sahara. Ma quel dannato denaro mi portò sfortuna, visto che ne perdetti la maggior parte in due notti al <<Modigliani>>, sicchè i miei debiti continuarono a sussistere, e a me non rimasero che poche migliaia di euro in tasca. Lasciai Siena con una certa fretta, ma lungo la Cassia mi fermai ad un maneggio perché, mi fosse costato secoli di sacrifici, avevo promesso a Rolando un pony per il suo decimo compleanno. Era un grazioso animale e, includendo anche il trasporto fino alla fattoria che sorgeva lungo la strada di Castel Portanova, mi costò una bella somma; furono proprio i trasportatori, gente esperta che scarrozzava cavalli a giro per mezza Europa da trent'anni, a dirmi di stare attento, perché la bestia era ancora indomita: prese a calci un garzone di stalla del mio vicino di casa, che tentò per primo di montarlo, e gli ruppe una gamba, e fu grazie alla mia abilità e alla mia esperienza se riuscimmo a tenere tranquilla fino al recinto quella bestiaccia. Il mattino seguente mi svegliai di buon'ora e ordinai ad uno dei miei contadini di correre a domare il cavallo, perché, nel giro di alcuni giorni, mio figlio lo avrebbe dovuto montare. Poi, dopo pranzo, davanti alla mia bottiglia, dissi al povero Rolando, che mi assediava di noiose domande sul cavallino, che era arrivato alla fattoria lungo la strada, dove Gigio, il contadino, lo stava domando.
<<Promettimi, amoroso>>, gridò la contessa, <<che non cavalcherai quel cavallo altro che in compagnia del tuo papà>>.
Ma io dissi soltanto: <<Ma che dici, testa di cazzo?>>, perchè la sua sciocca timidezza mi fece rabbia, dato che ora ne dispensava sempre molta in mille spiacevoli modi; e volgendomi al bimbo dissi: <<Ti prometto che, se lo monti senza permesso, ci sarà una bella dose di frustate!>>.
Immagino che al povero bambino non importasse di ricevere questo castigo, visto che, la mattina dopo, quando mi levai piuttosto tardi, essendo rimasto alzato a bere fino a tarda ora la sera prima, trovai che il fanciullo era uscito all'alba, scivolando silenziosamente davanti alla camera di Sgranato, e non ebbi alcun dubbio che si fosse diretto alla fattoria.
Afferrai una lunga frusta, mi vestii velocemente e montai sul nostro fuoristrada, correndo verso la fattoria e giurando che avrei mantenuto la mia promessa. Ma smisi di pensarci, quando a trecento metri da me incontrai una triste processione che mi veniva incontro, contadini che gemevano e gridavano come usa da quelle parti, il pony legato ben saldo ad un albero e visibilmente sfiancato, e infine, sdraiato su un telo, il mio piccino. Il suo viso era bianco come un panno lavato ed egli sorrise nel porgermi la mano, dicendo a fatica: <<Non mi frusterai, vero papà?>>. Per tutta risposta scoppiai in lacrime, afferrai il cellulare e chiamai un'ambulanza. Avevo visto morire alcuni uomini e i morenti hanno negli occhi uno sguardo su cui non ci si può ingannare.
Lo portammo a casa e feci venire i dottori. Ma cosa possono i dottori contro la cupa, invincibile nemica? Tutti quelli che visitarono il mio Rolando poterono solo rafforzare la nostra disperazione con le loro diagnosi sul povero bambino. Rolando era montato coraggiosamente a cavallo ed era rimasto bravamente in sella mentre l'animale scalpitava e tirava calci e, avendo il suo primo accesso di ribellione, si era sentito più rilassato; ma il pony aveva corso velocemente contro un muro di cinta, girando all'ultimo e facendo letteralmente volare contro di esso il bambino, che aveva battuto con tutte le forze la testa e non si era più alzato. Gli versarono dell'acqua sulle labbra e si risvegliò (un mezzo miracolo che la botta non gli avesse distrutto l'osso del collo ed egli non fosse morto sul colpo), ma non poteva muoversi; come dissero da subito quelli del pronto intervento, era stato offeso alla spina dorsale e la metà inferiore del corpo era morta sul colpo; anche il resto non durò a lungo. Rimase con noi per un paio di giorni, e fu una consolazione ben triste sapere che non soffriva.
Chiese perdono a me e sua madre per tutti gli atti di disobbedienza di cui si era reso colpevole verso di noi e diceva spesso che gli sarebbe piaciuto incontrare suo fratello, il bisconte. <<Lui era meglio di te, papà>>, mi disse, lasciandomi di sasso, <<Non bestemmiava e mi diceva e insegnava tante belle cose quando tu non c'eri>>. Poi prese le mani di noi genitori e ci pregò di non litigare, di amarci e di promettergli che ci saremmo rivisiti, un giorno, in cielo. Fummo molto colpiti anche da questi ammonimenti. Alla fine, dopo due giorni, morì, e lo seppellimmo con ogni splendore. Ma a cosa valgono le piume del coreggio funebre e l'orchestra sinfonica?
Mi trassi in disparte e ammazzai con una fucilata il cavallino nero che lo aveva fatto morire, proprio alla porta della cappella in cui avevamo deposto il mio bambino. Ero totalmente impazzito e mi sarei sparato anch'io, quel giorno. E se non fosse che è una colpa, sarebbe stato meglio che l'avessi fatto, forse perchè, da quel momento in poi, la mia vita sarebbe stata solo un seguito di miserie, di guai, di disastri, di sofferenze mentali e fisiche, quali mai si riscontrarono nel destino di nessun altro essere vivente dai tempi di Giobbe in poi.
Clelia, sempre ipocondriaca, nervosa e depressa, dopo la catastrofe divenne più agitata che mai e sprofondò in un tipo di devozione che rasentava il fanatismo, o peggio, la follia. Sosteneva che gli angeli scendessero a parlarle di Rolando, e che, in realtà, il bisconte era ancora vivo. I suoi attacchi di nervi erano difficili da padroneggiare e in paese si cominciò a dire che la contessa fosse definitivamente impazzita. Alcuni bravi informatori, fecero uscire le voci dal circuito toscano, e le riportarono -gonfiandole a dismisura- nei circoli romani dove un tempo mi ero dato un grande da fare. Ricevetti i nomi di “Carognuccio” e “Diavolini”, e non so quali altri; i contadini mettevano a giro stranissime dicerie sul mio conto; i preti, invece, dicevano che in guerra avevo stuprato e massacrato intere famiglie e che, a Roma, lo spirito del bisconte infestava Fontanale. Da queste ed altre inenarrabili circostanze, sorse una vera e propria leggenda sulla mia crudeltà.
Io sono della vecchia scuola, sono sempre stato libero nelle mie espressioni e nelle mie abitudini; ma, per lo meno, se dicevo e facevo quello che mi piaceva, non ero cattivo come tanti bricconi ipocriti, che ricoprono, insospettati, le loro imperfezioni e i loro peccati con la maschera della santità. Così, senza peli sulla lingua, proposi a Clelia di adottare un bambino ancora in fasce e di spacciarlo per nostro figlio, così che io potessi avere almeno un erede. Ella si disse disgustata dalla mia richiesta e prese, finalmente, una posizione netta nei miei confronti, minacciando il divorzio; la invitai a ritirarsi nelle sue camere, magari accompagnata da Don Pardo, e di soffocarsi coi suoi libri di pietà.
Fortunatamente, la mia cara madre era una vera e propria amministratrice, in tutti i campi. Faceva lavorare le domestiche e teneva tutti i nostri operai in fila; sorvegliava il vino in cantina e le stalle; sorvegliava la salatura dei cibi, la preperazione delle conserve, le patate e il pollame, la macellazione dei maiali e tutte le diecimila minuzie di una grande azienda come la nostra. Se tutte le massaie toscane fossero come lei, vi garantisco che oggi, là dove principalmente ci sono ragnatele, splenderebbero grandiosi focolai domestici, e che quei desolati pascoli, lasciati a cardi e roghi, sarebbero battuti da bestiame di ogni sorta. Inoltre, molte e molte sere, quando non ero neanche in grado di accorgermi della sua presenza, proprio mia mamma sorvegliava i domestici che mi raccattavano dalla mia poltrona, caldo di sbornia, e mi portavano a letto; ed era ancora lei a portarmi il mezzo litro di caffè forte al mattino seguente. Del resto, non erano tempi di pappe molli, ve lo assicuro. Un gentiluomo non pensava che fosse vergogna scolarsi sei bottiglie di fila e, quanto ai vostri caffè e alle tisane di acqua sporca, li lasciavamo alla contessa, al prete e alle vecchie domestiche di Castel Portanova. Era l'orgoglio di mia madre che io bevessi più di qualsiasi altro uomo del paese, superando, a sua detta, anche quella buon'anima di mio padre.
Ma mia mamma era troppo tranquilla e razionale per toccare i patrimoni di mia moglie, cosa che mandava Clelia su tutte le furie. Ricevetti, in un giorno terribile, una mail dal nostro avvocato romano, che mi invitava a leggere gli allegati: erano oltraggiose copie di lettere inviate ai nostri legali dove la contessa aveva elencato (non sempre esagerando, purtroppo) i miei difetti e le vessazioni a cui la sottoponevo, sia dal punto di vista privato, che da quello pubblico. Ella aveva parlato, senza tralasciare alcun particolare, delle mie cattive abitudini, delle mie sgradevoli compagnie e delle mie origini; apostrofava mia madre come “la mignotta strega avida di soldi” e mi dava del ladro, farabutto e delinquente, oltre che dell'irrispettoso, ateo e opportunista. Concludeva una delle tante missive minacciando il suicidio, quando io, che giravo per casa ogni giorno, non avevo mai visto un coltello fuori posto o trovato bicchieri sporchi di veleno per topi sulla tavola, né tantomeno il gas lasciato aperto.
Ciò che non riuscivo ancora a capire, era che i nostri avvocati, in realtà, erano gli avvocati di mia moglie, e, prima di lei, lo erano stati di Sor Filippo; e quello che davvero mi risultava impercettibile, era il fatto che questi signori in giacca e cravatta altro non volevano che liquidarmi, con la sottile complicità della contessa, la quale nutriva, per me e la mia diletta madre, sentimenti di astio al limite del sopportabile. Con un certo senso di stupore, dunque, ricevetti un sms dal mio amministratore delle cave Guicciardini, il quale pensava di poter recuperare parte di quei due milioni versati (su sette e mezzo totali) tramite una rispettabile ditta milanese, che si interessava di marmifere e offriva di riscattare e concludere un lungo affitto per una nostra proprietà libera da impegni, chiaramente con la firma della contessa e certe garanzie. All'epoca i miei debiti erano tanto vasti e complicati che neppure io stesso li conoscevo per intero ed ero diventato mezzo pazzo per il loro incalzare. Basti dire che tutto il mio denaro era sparito e che non avevo più alcun credito. Vivevo grazie alla mia azienda agricola, che produceva quanto bastava a sfamarci; il resto della roba se ne andava venduto e con il ricavato pagavo quei pochi operai alle mie dipendenze. Da anni non mettevo più piede a Roma, dove creditori di cui non ricordavo neanche i nomi mi aspettavano con l'ascia alzata, e anche le mie visite senesi o fiorentine divennero sempre più risicate. La probabilità di un buon debito, dunque, era per me la più ben accetta di tutte le prospettive possibili e la salutai con l'entusiasmo che si può immaginare. Le condizioni che ho già elencato vennero rese ulteriormente più dure dal fatto che fui invitato a trattare direttamente negli uffici romani della ditta. Questo fu un vero colpo per me, ma non potevo dettare certe condizioni e, lasciando perdere mia madre che mi scongiurava di non andarci, partii con la contessa. La benzina fu pagata da mia mamma, che tirò fuori da una calza sessanta euro. In che pessime condizioni mi ero ridotto!
Fu solo dopo lunghe preghiere, che l'anziano zio vescovo, il quale aveva mantenuto il suo ruolo di guardiano della tenuta di Palestrina, ci dette ospitalità per la notte; usufruii di un computer del salotto per inviare una mail al mio agente, dicendo che mi sarei fatto trovare all'ufficio la mattina seguente alle ore dieci, pregandolo di procurarmi il nome di un hotel e di affrettare i preparativi burocratici del prestito. Quella notte, io e Clelia convenimmo insieme che ce ne saremmo andati dall'Italia e che ci saremmo trasferiti in Svizzera, in attesa di tempi migliori; presi a fare alcuni calcoli e progetti sul nostro futuro, ma non vedevo la mia signora molto coinvolta.
Alle nove e trenta del mattino, eravamo a Roma, e un quarto d'ora prima dell'ora fissata, la mia macchina venne lasciata in una traversa di via delle Botteghe Oscure, dove entrammo in un elegante palazzo e pregammo l'ascensorista di portarci al quarto piano; avevo davanti l'ingresso dello studio legale Zampetti, affiliato alla ditta interessata alle mie terre. Ci aprì una segretaria sulla trentina, con uno stiloso tailleur e due tacchi mostruosamente alti.
<<Dite all'avvocato che Sbelluccio Bellini è qui>>, la pregai.
Il dottor Zampetti era nella sua stanza, che odorava di chiuso e mozziconi, circondato da scartoffie e libroni; si alzò in piedi e si presentò, poi si diresse ad una porta cui dava le spalle e la spalancò. Rimasi di sasso, quando vidi entrare due agenti di finanza e il conte Candeli, l'uomo che era stato uno dei più grandi truffatori nei quali mi ero imbattuto. Giurai a quell'uomo, e chi era in quella stanza ne è testimone, che qualunque cosa avesse fatto, lo avrei ucciso con le mie mani; e aggiunsi che gli sarebbe convenuto morire mentre io sarei stato a marcire in galera, e solo allora venni interrotto dallo Zampetti:
<<Ma noi non intendiamo arrestarla! Nessuno la vuole vedere in galera, caro signore. Vi daremo una bella somma di denaro se lascerete il paese e soprattutto sua moglie. Così, l'Italia avrà un delinquente in meno e sua moglie potrà finalmente vivere felice, senza di lei>>.
Replicai che era una follia forzare un divorzio, ma fui subito zittato dall'avvocato:
<<Vede, faccio questo lavoro da molti anni e in gioventù lavoravo nel ramo matrimonialista. Le posso assicurare che non ho mai obbligato nessuno a divorziare senza che mi fosse pervenuta una richiesta. E di richieste, da parte della sua signora, qua in ufficio, ne sono giunte anche troppe!>>, e additò una cartella da archivio messa in un angolo della scrivania. Avevo lo spirito disfatto, ero perso nella ragnatela ed ero in terra da troppo tempo; mi accorsi che in quel momento, ribellandomi, avrei solo iniziato a scavare.
Una delle poche letture colte che ho fatto durante la mia permanenza a Fontanale è quella di Livio, scrittore latino nato a Padova ma profondamente legato a Roma, alla quale ha dedicato la sua intera vita artistica scrivendo la Ab urbe condita, di cui mi aveva colpito la storia delle guerre puniche; in particolare, mi tornò alla mente di quando Annibale, ormai in Italia, decise di far fermare le truppe a saccheggiare un paesello prima della capitale; qua i soldati razziarono e mangiarono e bevvero in quantità, saziandosi completamente degli agi e dei piaceri della vita, così che nella prima scaramuccia furono facilmente battuti. Così era per me adesso. Le mie forze di mente e di fisico non erano più quelle del coraggioso giovane che aveva colpito il suo primo avversario appena maggiorenne e aveva preso parte a molte battaglie, pubbliche e private, uscendone sempre vincitore. I finanzieri se ne andarono e mia moglie fu portata via dal conte Candeli, mentre l'avvocato chiamava la sua segretaria e si faceva portare alcuni fascicoli, contenenti le condizioni che proponevano Clelia e i suoi nuovi amici: una miserabile somma annua di settemila euro, da pagarsi a condizione che io restassi all'estero, e da sospendere immediatamente in caso di un mio ritorno. Aggiunse che, se avessi rimesso piede a Roma, e in generale in Italia, sarei stato arrestato, e che il mio credito era così scaduto che nessuno, in tutto il paese, mi avrebbe potuto fornire un prestito. Se avessi accettato subito, mi avrebbero pagato il viaggio per qualsiasi destinazione a mia scelta e mi avrebbero fornito un trimestre della mia annualità. Frustrato e col cuore a pezzi, cosa potevo fare? Presi la somma e fui dichiarato praticamente un “fuorilegge fiscale” a partire dalla settimana successiva. Mia madre si offrì di accompagnarmi nel mio solitario esilio e lasciò Castel Portanova nel giro di un paio di giorni, e tutto fu silenzio in quel palazzo che, quando ne ero io il padrone, aveva sfoggiato tanta ospitalità e tanto splendore. Ora mamma è molto vecchia e proprio in questo istante è seduta qui, al mio fianco, a lavorare: ha una stanza per dormire in via De Seta, dall'altra parte della strada dove sorge il residence, e con la sua rendita di poche centinaia di euro riusciamo a tirare avanti in una miserabile esistenza, assolutamente indegna del famoso e tanto elegante Sbelluccio Bellini.


EPILOGO

Il racconto personale di Sbelluccio Bellini finisce qui, perchè la mano della morte interruppe ben presto l'ingegnoso autore, dopo il periodo in cui le Memorie furono compilate. Aveva vissuto per diciannove anni ospite della prigione Ucciardone (da lui chiamata il “residence”), i cui registri affermano che morì di cirrosi epatica.
Sua madre raggiunse un'età prodigiosamente avanzata e coloro che lavoravano al carcere palermitano ricordano chiaramente i litigi giornalieri che avevano luogo fra madre e figlio; fino a che quest'ultimo, a causa della sua abitudine di ubriacarsi, cadde in uno stato di rimbambimento quasi permanente e fu curato, anche in galera, dalla vecchia madre. Era come un bambino in fasce e piangeva se privato del bicchiere di grappa che gli era ormai necessario.
La sua vita in giro per l'Europa non c'è dato di conoscerla in dettaglio; sembra però che riprendesse la sua antica professione di giocatore, senza avere però il successo di un tempo. Dopo qualche tempo, tornò segretamente in Italia e fece un ifruttuoso tentativo di estorcere del denaro al conte Candeli, con la minaccia di pubblicare foto che in realtà non esistevano. Sfuggì alla cattura per un pelo e nonostante i pressanti consigli dei legali, la contessa di Monteverde non volle sospendergli la pensione, e preferì rompere i rapporti con lo stesso Candeli.
Per quanto riguarda la bella Clelia, ormai anziana, si era stabilita definitivamente a Veio, dove conduceva una vita appartata, sostenuta dai suoi fidi assistenti, don Pardo e Sgranato, cui spettava il compito di amministrare con grande attenzione quanto era rimasto del patrimonio di famiglia. I complicati piani che Sbelluccio aveva in mente per riottenere in moglie quella donna furono stroncati sul nascere dalla comparsa di una persona che era stata ritenuta morta per parecchi anni. Questa altri non era che il bisconte di Palestrina, che si ripresentò con grande sorpresa di tutti. Egli era stato coinvolto negli scandali di Wall Street, erroneamente dato per suicida, finito in galera e poi scarcerato, grazie ad un bravo avvocato. Saputo della storia del suicidio e avendo notato che nessuno della sua famiglia si era interessato tanto alla faccenda, aveva deciso di restare morto per il mondo e, in particolare, per sua madre.
Fu proprio il bisconte a riconoscere il suo ex-patrigno in una sala scommesse del centro, a chiederne la sorveglianza e ad ordinare la carcerazione immediata. Il processo fu uno dei più brevi della storia d'Italia, e il distinto signor Bellini passò da Regina Coeli ai Piombi veneziani, fino ad approdare all'Ucciardone. E finchè visse la contessa, Sbelluccio godette del suo assegno e fu forse felice in prigione come non lo era mai stato; ma quando Clelia morì e le successe il figlio, l'assegno cessò di essere inviato al prigioniero. Alla morte del bisconte, avvenuta in seguito ad un impegnativo coca-party torinese, il patrimonio dei Monteverde fu ereditato dalla famiglia dei Cortina (biscugini della contessa) e il suo titolo si spense, assorbito dal loro, che era superiore. Non risulta che il marchese Gianluigi Cortina abbia seguitato a versare l'assegno a Sbelluccio, né che si fosse interessato a quella situazione. La proprietà, tuttavia, migliorò considerevolmente sotto l'attenta amministrazione del marchese.
Gli alberi di Fontanale hanno tutti quarant'anni, ormai, e le proprietà toscane sono affittate sotto forma di appezzamenti molto piccoli ai contadini del luogo, che ancora intrattengono i forestieri coi loro racconti sull'audacia, le diavolerie, la cattiveria e la caduta finale di Sbelluccio Bellini.



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