martedì 7 maggio 2013

Le memorie di Sbelluccio Bellini (Capitolo V) [Trame]


V.
CONDUCO VITA DI GUARNIGIONE E VI TROVO MOLTI AMICI

Dopo la guerra, il nostro reggimento fu uno dei primi a tornare in Inghilterra e fu accantonato nella capitale, la meno noiosa, forse, di tutte le città Europee. Il nostro servizio, sempre duro, ci lasciava ogni giorno poche ore libere in cui potevamo prendere qualche svago, se avevamo i mezzi per pagarcelo. Molti dei nostri andavano a lavorare in mestieri manuali, ma a me non capitò nessuna occasione del genere e per di più il mio onore me lo avrebbe impedito, perché, essendo un gentiluomo, non avrei potuto sporcarmi le mani con un'occupazione servile. Così divenni il man of honour del capitano Walport, il suo gentiluomo militare di fiducia.
Avevo respinto quest'offerta quattro anni prima, quando mi era stata fatta mentre ero al servizio dell'Italia, ma in un paese straniero come il Regno Unito è tutt'altra cosa. Venni subito a sapere che Walport era nipote ed erede del ministro della Difesa, Sir Maurice Ridley Walport, parentela che senza dubbio aveva favorito la promozione di quel maturo gentiluomo. Anche fuori dall'Iraq, il capitano Walport era un ufficiale severo, specie in caserma, ma era persona molto suscettibile all'adulazione. Me lo accattivai inizialmente per il modo in cui preparavo il caffè e, in seguito, ottenni la sua fiducia con mille piccole astuzie e complimenti che, per un personaggio del mio rango, sapevo sempre come impiegare. Egli era un buontempone, si dava alla bella vita assai più apertamente di molti altri nobili vicini alla regina; era generoso e non badava a spese; tutte qualità che sinceramente condividevo, e dalle quali, naturalmente, traevo profitto.
Non era molto amato al reggimento, perchè si riteneva che avesse relazioni troppo intime con lo zio ministro, a cui, correva voce, riferiva tutte le notizie dei militari all'opera a Londra. Ma io ero troppo occupato ad entrare definitivamente nelle grazie dell'ufficiale per badare a questi affari. Dopo tre mesi di soggiorno londinese, mi furono infatti evitate numerose esercitazioni, ronde di sorveglianza e parate militari, e ottenni, d'altra parte, numerosi guadagni occasionali che mi permisero di fare buona figura e di comparire con un certo éclat nella non poco umile società aristocratica di Londra. Ero sempre uno speciale favorito delle signore e il mio modo di fare con loro era tanto cortese che non si capacitavano come uno spiantato militare italiano fosse rifinito nei loro prestigiosi salotti.
Riuscii sempre in quel periodo a procurarmi un cellulare e a poter telefonare a mia madre, in Italia, per dirle che stavo bene, che non contavo di tornare in patria a causa delle follie che avevano anticipato (e causato) la mia partenza e che ero agli ordini della più illuminata monarchia d'Europa.
Una sera io e Walport stavamo attraversando l'elegante quartiere di Chelsea e l'ufficiale cominciò a farmi domande sulla mia famiglia, alle quali risposi con sufficiente chiarezza. Ero il discendente di una grande famiglia toscana, ma mia madre era quasi in rovina, mentre io mi trovavo a studiare legge a Roma, dove mi ero ingolfato di debiti e nelle cattive compagnie, avevo ucciso un uomo e sarei finito in galera se fossi ritornato. Mi ero arruolato in fretta e furia nell'Esercito Italiano, finché mi si era presentata un'occasione di fuga a cui non avevo saputo resistere. Il seguito già lo conosceva, visto che entrambi ricordavamo benissimo la vicenda di al-Najaf, dove ci eravamo incontrati. Walport disse che avrebbe avuto cura che restassi dov'ero, e io gli giurai eterna gratitudine; poi domandai perché, nonostante l'ottimo servizio offerto sotto la corona britannica, nessuno mi avesse promosso. <<Dopo che mi hai salvato la vita, Sbelluccio, ho parlato con mio zio, il ministro della Difesa, personalmente, ma chi ti aveva messo gli occhi addosso aveva già avuto modo di raccontare della tua pigrizia, dei tuoi vizi e della tua totale assenza di principi; aggiunse che era venuto a sapere delle tue risse con gli altri camerati e che, nonostante il tuo valore e la tua intelligenza, non avresti mai combinato nulla di buono>>.
La mattina seguente, ero di fronte al ministro a giustificare la mia condotta in un inglese impeccabile: <<Sir, spero che lei si sia sbagliato a proposito del mio carattere. Sono capitato in una cattiva compagnia, questo è vero, ma ho fatto soltanto quello che fanno altri soldati e, soprattutto, non ho mai avuto, prima d'ora, un buon amico e un protettore a cui far capire che meritavo una sorte migliore. Il ministro può dire che sono un cattivo soldato e mandarmi all'inferno, ma stia pur sicuro che io ci andrei all'inferno, pur di servire un reggimento>>.
Non ne potevo più della schiavitù delle armi e sapevo di dovermi ingegnare per raggiungere la libertà. Il mio piano era questo: dovevo rendermi utile ai Walport fin quando lo avessero ritenuto necessario, così che mi avrebbero dato ogni permesso di tornare da dove ero venuto. Una volta libero, in grazia della mia elegante persona e della mia buona famiglia, avrei fatto ciò che avevano fatto prima di me diecimila gentiluomini italiani: avrei sposato una signora, con un buon patrimonio e una buona posizione.
La fortuna era dalla mia parte, e il mio intervento, nell'ufficio del ministro, non era stato vano: infatti, il capitano Walport mi raggiunse alla caserma in una mattinata di fine marzo, per darmi una grande notizia.
<<Sbelluccio, ho parlato al ministro mio zio a proposito dei tuoi servizi e la tua fortuna è fatta. Ti faremo uscire dall'esercito, ti daremo un incarico nell'ufficio dei Servizi Segreti a Londra e, in conclusione, ti faremo muovere in un ambiente migliore di quello in cui la sorte ti ha messo da qualche tempo>>.
Il mio primo incarico fu smascherare un traffico di droga in cui rimase coinvolto anche il console olandese van Guldensack, e il vecchio Walport fu talmente contento che mi telefonò personalmente e mi invitò nel suo ufficio, dove ci raggiunse, poco più tardi, anche il mio amico capitano.
<<E' venuto da poco, a Londra, un gentiluomo al servizio della regina, un tale che si fa chiamare Léon-Luc de Rabelais, porta i simboli delle grandi logge e la croce dell'ordine dei Cavalieri di Malta. Parla indifferentemente tedesco, inglese e ovviamente, francese, ma noi abbiamo motivo di credere che questo monsieur de Rabelais sia nativo del tuo paese, l'Italia. Non hai mai sentito un nome come de Rabelais in Italia?>>
<<Rabelais!Rab...>>
Un lampo improvviso mi traversò la mente. <<No, signore>>, dissi, <<Non ho mai sentito questo nome>>.
<<Devi entrare al suo servizio>>, proseguì il ministro sfogliando un grosso fascicolo, <<Naturalmente non dovrai sapere una parola di italiano e, se il monsieur ti fa delle domande sul tuo accento straniero, digli che sei portoghese. Il servo che è venuto con lui sarà mandato via oggi, e la persona cui si è rivolto per avere un fedele maggiordomo ti accompagnerà da lui. Sei portoghese e hai servito nella guerra in Iraq i vostri vicini spagnoli. Hai lasciato l'esercito a causa della debolezza dei tuoi lombi. Hai fatto servizio per due anni con Sir Reginald Lancaster nella sua tenuta di Kensington; ora lui è via per lavoro, ma ha comunque firmato delle carte che lo proveranno. Poi sei stato con il dottor Floor, che darà ogni spiegazione in casi ce ne sia bisogno. Quanto al resto della storia, puoi sistemarla come vuoi, e farla romantica come piccante. Aggiungo solo che il de Rabelais gioca molto e vince. Conosci bene le carte?>>.
<<Solo un po', come tutti i soldati>>
<<Credevo tu fossi un vero esperto. Devi osservare se il monsieur bara: se bara lo abbiamo in pugno. Vede di continuo gli inviati dei vari consolati e soprattutto i giovani pranzano spesso da lui; cerca di non farti scappare una parola, ovviamente nelle lingue che conosci. Dorme con le chiavi della cassaforte attaccate al collo con un nastro. Duemila sterline per te se riesci a portare l'impronta di quella chiave. Ma ora vai a darti una tagliata ai capelli e una bella sistemata agli abiti>>.
Non riuscivo a non pensare al cognome de Rabelais. La parola “Rabelais” è un composto di “Ra” e “Belais”; la seconda parte, se pronunciata correttamente, crea la formidabile ed elegante assonanza francese “Beles” con il mio cognome “Bellini”; a questo sommavo l'enorme passione del cugino Luca Pisano per il romanzo Gargantua e Pantagurele, e iniziai a supporre che questo misterioso gentiluomo francese fosse in realtà il caro cugino di mio padre, che parlava francese meglio dell'italiano e che, privato dei suoi possedimenti per motivi politici, aveva riparato a Londra.
Prima di andare a presentarmi, andai nel cortile del palazzo in cui abitava, non distante da Buckingham Palace, a dare un'occhiata alla sua automobile. Un vecchio Mercedes 300 SL targato Parigi, un'automobile di strabordante bellezza estetica e di impareggiabile eleganza. Doveva essere proprio lui. Mi sentivo male mentre salivo le scale. Dovevo presentarmi al cugino di mio padre come un servo!
<<Tu sei il giovanotto che Monsieur Lancaster ha raccomandato?>>, chiese de Rabelais in un inglese formidabilmente intriso di accento francese.
Feci un inchino e porsi la lettera che mi era stata fornita da Walport. Mentre la leggeva, ebbi tutto il tempo di esaminarlo. Il cugino Luca era un uomo sulla sessantina, indossava una vistosa giacca doppiopetto blu dai bottoni dorati, una camicia di cotone misto a seta bianca e dei pantaloni chino; attorno al grasso collo gli passava il nastro di porpora di qualche grande loggia massonica, di cui riconoscevo alcuni simboli, e sul petto, gli brillava la croce di Malta. Aveva anelli a tutte le dita, un cronografo Rolex in oro giallo al polso, e aveva messo un ottimo profumo; infine, portava calze in lana merino a rombi alte fino al ginocchio e scarpe penny loafer di un marrone brillante; per leggere la lettera, aveva portato sul naso eleganti occhiali dalla montatura in osso. Un posacenere in cristallo e un toscanello aromatizzato al caffè stavano sul tavolo accanto a lui e completavano il costume di questo splendido gentiluomo. Come altezza era quasi uguale a me, vale a dire un metro e ottantatre, ma i lineamenti erano completamente diversi; per peso, inoltre rischiava abbondantemente di doppiarmi. Una barba folta ma non per questo poco curata gli nascondeva una bocca che più tardi mi accorsi avere un'espressione piuttosto sgradevole. Sorrise e potei notare che i denti superiori, giallastri e intaccati dal tabacco, sporgevano troppo; il suo volto mostrava sempre quel sorriso fisso, spettrale, niente affatto piacevole.
Fu molto imprudente da parte mia, ma quando vidi lo splendido aspetto di monsieur de Rabelais e la nobiltà dei suoi modi, sentii che mi era impossibile mantenere davanti a lui la mia falsa identità, e quando mi disse:
<<Ah, sei portoghese, vedo!>>, non potei resistere più a lungo e dissi (nella mia lingua):
<<Monsieur, sono italiano, e mi chiamo Sbelluccio Bellini, dell'Agrestone>>.
Mentre parlavo scoppiai in lacrime, non saprei dire perchè, ma non avevo visto nessuno della mia famiglia e della mia stirpe da sei anni e il mio cuore desiderava trovarne qualcuno.


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