domenica 28 aprile 2013

Le memorie di Sbelluccio Bellini (Capitolo III) [Trame]


III.
NEL QUALE FACCIO UNA FALSA PARTENZA NEL BEL MONDO
E HO UNA VISIONE NUOVA DELLA GLORIA MILITARE

Per riprendermi un po' dallo stress della giornata, mi fermai a cena ad una locanda alle porte di Chiusi; non avevo scelto a caso quel posto, dal momento che da lì potevo tranquillamente proseguire sia per Arezzo che per Roma. Solo che non resistetti di fronte alla splendida cantina del luogo e finii con lo scolarmi due bottiglie del miglior Brunello; essendo totalmente incapace di guidare e avendo finalmente una discreta quantità di denaro, decisi di fermarmi là per la notte, e quando l'albergatore mi chiese i documenti non ebbi di che preoccuparmi, visto che gli raccontai che ero diretto nella capitale, dove avrei completato i miei studi in Lettere. Vedendo il mio bell'aspetto, la mia camicia pulita di fresco e la valigia che mi portavo appresso, il padrone si prese la libertà di darmi la camera migliore dell'albergo e di spedirmi un'ulteriore bottiglia in camera. Da quelle parti, nessun gentiluomo andava a letto senza una generosa dose di buon liquore sullo stomaco, e vi assicuro che recitai la mia parte alla perfezione. Non sognai la morte di Tobino, come avrebbero fatto molti giovani delinquenti di qualche chiosca mafiosa da due soldi, e del resto non ho mai avuto sciocchi rimorsi dopo qualsiasi partita d'onore.
La mattina, bevvi un caffè senza zucchero, accompagnato da una brioche, e chiesi alla cuoca di prepararmi un panino arrostito, tanto per avere qualcosa da spiluzzicare durante il viaggio; cambiai una delle due banconote da cento che avevo in tasca per pagare il conto, senza dimenticare di dare laute mance a tutti i camerieri, come deve fare un perfetto gentiluomo. Cominciai così il primo giorno della mia vita nel mondo, e così ho continuato. Nessuno è mai stato in ristrettezze peggiori delle mie, e io ho conosciuto talvolta la miseria più nera e la povertà più dura, ma nessuno può dire di me che, se avevo un euro, non fossi generoso e non lo spendessi con la prodigalità di un Lord. Non temevo il futuro: pensavo che un ragazzo delle mie qualità, talento e coraggio, si sarebbe fatto strada ovunque. E poi avevo in tasca un centinaio di euro, somma che (in questo mi sbagliavo) calcolavo sarebbe durata almeno altri tre, quattro giorni; nel frattempo, pensavo a come agire per raggiungere la fortuna. Allo svincolo della superstrada, decisi se riavvicinarmi ad Arezzo e dunque rimanere in Toscana, oppure se dirigermi a sud, verso la capitale. Per scrupolo, contai nuovamente i quattrini, detti un morso al panino arrostito e lo trovai ottimo; ero impavido, ma non incosciente: conoscevo i costi di Roma e sapevo che con le mie risorse sarei sopravissuto forse un paio di giorni. Perciò, decisi di rimanere nel Granducato, fino a quando non avessi trovato una fonte di reddito che mi avrebbe permesso di allontanarmi.
Avevo attraversato ormai tutta la Val di Chiana e mi trovavo nei pressi di Cortona, quando notai una paletta dei carabinieri che mi faceva cenno di accostare. Obbedii e rimasi calmo, spensi la macchina e abbassai il finestrino. L'agente Barbucci (notai subito il nome inciso sulla placchetta di metallo posta sul petto) mi invitò cortesemente ad esibire i miei documenti; seppure andassi di fretta, avevo controllato attentamente che assicurazione e bollo fossero in perfetto ordine. <<Dei ladri hanno assalito un autoblindo sulla strada>>, mi spiegò il carabiniere, <<E dobbiamo aspettare che questa riapra. Lei dov'è diretto?>>.
Avevo bisogno di una grande idea e decisi di sfruttare il delicato momento di politica estera che l'Italia e un po'tutta l'Europa stavano vivendo; spiegai che dovevo sconfinare in Umbria e raggiungere Foligno, dove mi sarei voluto arruolare nella fanteria. Il mio tono convinto e patriottico toccò il cuore del povero Barbucci, che porgendomi i documenti disse: <<E che c'è bisogno di arrivare fino a Foligno? Qui sopra, a Cortona, presso la nostra caserma, ci sono proprio oggi i reclutatori>>.
Ero con le spalle al muro, e ricevetti il colpo di grazia quando l'agente chiamò il suo collega e lo pregò di scortarmi con la moto fino alla caserma del piccolo e bellissimo paese. Ringraziai entrambi i carabinieri e feci il mio ingresso nell'anonima caserma, pensando che, alla fine, poteva andare peggio e che avevo finalmente l'occasione di servire il mio paese e di coronare quel sogno di gioventù che tanto mi aveva fatto invidiare i cari cugini.
Il reclutatore richiese le mie generalità e domandò cosa mi portava ad arruolarmi a Cortona. Gli dissi che, francamente, ero uno studente che, a causa di pesanti perdite economiche, si era visto costretto ad abbandonare gli studi universitari e che riteneva preferibile servire il paese che tornare a casa. Dieci minuti dopo ero arruolato al servizio dello stato italiano e del ministro della Difesa. A nessuno poteva venire in mente che un volontario fosse là per sfuggire alla legge dopo aver ucciso in duello un ufficiale pugliese. Inoltre, il Cavaliere aveva troppo bisogno di uomini per badare alla loro provenienza, e un individuo della mia statura, disse il sergente, era sempre il benvenuto. Una camionetta portò me e i miei commilitoni fino alla stazione ferroviaria più vicina, e da lì un treno speciale ci condusse al campo di addestramento di Caserta, in Campania.
Non ho mai provato altro piacere al di fuori di quello di una buona compagnia e odio tutte le descrizioni di una vita mediocre. In conseguenza, il racconto relativo all'ambiente in cui ero venuto a trovarmi allora deve essere breve; e il suo stesso ricordo mi è profondamente sgradevole. Il pensiero di quell'orribile buco nero in cui eravamo confinati noialtri soldati, delle disgraziate creature di cui ero costretto a subire la compagnia, dei villani, dei vagabondi, dei delinquenti che avevano cercato nel servizio militare un rifugio contro la miseria e la legge (come, in sostanza, avevo fatto anch'io), è sufficiente a farmi vergognare di me stesso anche ora, e mi sale il rossore sulle guance quando penso che sono stato costretto a restare non poco tempo in una simile compagnia. Mi sarei dato alla disperazione, se non che, per fortuna, accaddero alcuni eventi che mi sollevarono lo spirito e mi consolarono, in un certo modo, delle mie sventure.
La prima delle consolazioni che provai fu una bella lite, avvenuta il giorno dopo il mio arrivo a Caserta, con un grosso individuo dai capelli rossi, un vero mostro siculo, un bagnino di San Vito Lo Capo ora arruolatosi per sfuggire ad una moglie litigiosa, la quale, per quanto egli fosse un pugile, era sempre stata per lui un avversario difficile. Non appena questo individuo -mi ricordo che si chiamava Russo- era sfuggito dalle mani della lavandaia sua consorte, gli si erano risvegliati il coraggio e l'orgoglio tipici di ogni “picciotto”, ed era divenuto il tiranno di tutti coloro che gli stavano attorno. Tutte le reclute, specialmente, erano oggetto dei suoi insulti brutali e dei suoi maltrattamenti. Io non avevo soldi, come ho detto, e stavo seduto con aria molto sconsolata davanti ad un piatto di prosciutto rancido e di pane secco, che ci era stato distribuito alla mensa, quando venne il mio turno di servirmi da bere, e mi venne messo davanti, come agli altri del resto, un bicchiere ancora sporco di sapone, che conteneva un po'di vino rosso allungato con acqua frizzante. Il recipiente era tanto unto che non potei fare a meno di rivolgermi all'uomo che distribuiva il pranzo e dirgli: <<Scusa, posso avere un altro bicchiere? Questo qui è sporco...>>.
A queste parole tutti i mascalzoni che mi stavano attorno diedero uno scoppio di risa, scambiandosi battute in dialetto (cosa ancor più fastidiosa e disprezzabile), ma più forte di tutti sghignazzava, naturalmente, il signor Russo. <<Portate al picciotto un tovagliolo per le mani e una scodella di zuppa di tartaruga!>>, gridava quel barile di passito di Pantelleria, che stava semisdraiato sulla panca di fronte a me; e mentre diceva questo, si alzò, prese il mio bicchiere e lo vuotò in un solo sorso, fra gli applausi degli altri.
<<Se lo vuoi far arrabbiare, sfottilo a proposito di sua moglie, che lo tratta male>>, bisbigliò senza dare nell'occhio il mio compagno di tavolo, un commerciante di Udine costretto ad arruolarsi e, come me, infastidito da quella sovrabbondanza di esuberanti meridionali.
<<E'un tovagliolo lavato da tua moglie, signor Russo? Dicono che spesso ti asciuga la faccia con uno di quelli!>>, dissi marcando moltissimo il mio accento da toscanaccio.
<<Sfottilo anche perché non ha voluto vederla ieri, quando è venuta al campo>>, aggiunse il mio commilitone, e così feci, aggiungendo particolari sbellicanti fino a che Russo non balzò in piedi e, afferrata una sedia, non minacciò di tirarmela addosso. Un paio di sottoufficiali arrivò a fermarci, ma fu il sergente maggiore D'Angelo, nostro capo istruttore, a dichiarare amabilmente che, se lo preferivamo, potevamo batterci a pugni, da veri uomini. Ma l'uso della lotta libera sembrava non essere contemplato nel profondo sud, e così venne stabilito, cause di forza maggiore, che ci saremmo battuti con un paio di pesanti bastoni di olivo, imitando e volgarizzando ciò che nella terra del Sol Levante risulta essere il millenario sport del kendo; sebbene per me fosse una completa novità, con una di queste rustiche armi finii quel prepotente e losco bagnino in quattro minuti, poiché gli diedi su quella testa malata un colpo tale che lo lasciò privo di sensi sul cortile del campo di addestramento, senza che io ricevessi in cambio neanche un livido.
Questa vittoria sul “picciotto” mi fece guadagnare il rispetto di quella compagnia di malavitosi di cui ormai anch'io facevo parte, ma la mia posizione nell'ambiente militare divenne presto più sopportabile in conseguenza dell'arrivo di un vecchio amico. Questi non era altri che il mio padrino nel fatale duello che mi aveva lanciato tanto presto nel mondo: il capitano Magnini.
Quando arrivò l'Iveco con a bordo il nostro capitano, cercai di apparire nella migliore delle forme al momento del saluto militare, e sobbalzai arrossendo, quando egli riconobbe me -un discendente dei Bellini- in quella umiliante posizione; e io vi posso assicurare che la comparsa del volto di Magnini mi fu molto gradita, perchè ero sicuro che avevo vicino a me un amico.
Il capitano con un'occhiata mostrò di avermi riconosciuto, ma non dette di questo fatto alcuna dimostrazione pubblica; solo due giorni dopo, quando un aereo ci stava trasportando verso l'Iraq, mi chiamò nella cabina di pilotaggio, e dopo avermi stretto la mano con grande cordialità, di fronte ai taciturni piloti, mi diede notizie della mia famiglia, che molto desideravo. <<Ho cercato di sapere di te ad Arezzo>>, mi disse, <<E, in fede mia, non hai avuto tutti i torti a cambiare destinazione di viaggio. Anzi, credo che non avresti potuto fare di meglio di quello che hai fatto. Ma perché non hai mai scritto o telefonato a casa, alla tua povera mamma? Ti ha mandato non so quanti sms, credendoti ad Arezzo e dintorni>>.
Gli dissi che avevo perso il cellulare giocandolo a carte (in realtà, lo avevo smarrito appena arrivato a Cortona) e tagliai corto.
<<Possiamo scriverle adesso, grazie al nostro pilota>>, proseguì, <<Tra due ore sarai in Iraq e magari a tua madre farà piacere saperti salvo e sotto le armi>>. Non mi andava di parlare di mia mamma e cambiai bruscamente argomento.
<<Laila sta bene?>>, chiesi con un lieve tremolio di voce.
<<La povera Laila...>>sospirò Magnini, al che io pensai che fosse morta per il dolore della mia fuga e per la nostalgia provata nei miei confronti.
<<Oddio! Che le è successo, capitano?>>.
<<Era così addolorata dalla tua rocambolesca partenza, che trovò consolazione in un marito. Adesso Laila è la moglie di Eugenio Tobino>>.
<<Come Tobino? Esisteva un altro Eugenio Tobino?>>, chiesi io, sbalordito per la notizia.
<<No, caro mio, è lo stesso. La pistola con la quale gli hai sparato era caricata a salve. Credevi che Remo, ma anche i cittadini di Agrestone, si volessero far sfuggire una rendita di centocinquantamila euro l'anno?>>.
E quindi Magnini mi disse che per mandarmi fuori dai piedi- poiché il vile capitano pugliese non avrebbe mai consentito al matrimonio per paura del sottoscritto –avevano combinato il piano del finto duello. <<<Ma tu l’hai colpito in pieno, Sbellu, con bel proiettile a salve, e quel ficoso si è cacato tanto in mano che ci è voluta un’ora prima che si riprendesse!>>.
Confesso che fui molto sollevato al pensiero di non averlo ucciso, ma ciò non bastava a togliermi dalla testa la codardia di quell’uomo e il subdolo tranello messo in atto per me. <<<E la famiglia di Remo, una delle più antiche e onorevoli al mondo, ha acconsentito a prendersi in casa un vigliacco simile?>>.
Magnini rise, dette un sorso ad una bottiglietta di acqua minerale e scosse la testa. <<Hai bisogno di qualche soldo, caro? Ho un centinaio di euro vinto a carte stamani, e finché camperò non sarai mai al verde>>.
Benché sia stato chiamato capitano Bellini per molti anni della mia vita e sia stato conosciuto con tale titolo dalle maggiori personalità d’Europa, debbo confessare che non ho più diritto a tale qualifica dalla maggior parte dei gentiluomini che l’assumono, e che non ho mai avuto diritto ad alcun grado militare più elevato che quello dei galloni del più modesto caporale. Venni nominato caporale da Magnini durante il nostro viaggio verso l’altopiano iracheno e il mio grado venne confermato anche al campo base dei nostri alleati. Mi era stato promesso il grado di sergente e forse anche quello di tenente, se mi fossi distinto, ma il destino non volle che restassi un soldato italiano a lungo, come si vedrà presto. Incoraggiato ed esortato dal mio buon amico capitano, facevo il mio servizio con grande zelo; ma benché fossi gentile e mi mostrassi di buon carattere con i miei commilitoni, non potei mai consentire a fare amicizia con simili volgari individui, e del resto venivo di solito chiamato da loro il Principe. Credo che tale soprannome l’avesse trovato un traduttore e interprete di Velletri, un farabutto che per primo mi aveva dato questo titolo; e io sentii, guarda caso, di meritare quella distinzione con lo stesso diritto di un qualunque Principe del regno.
Ci vorrebbe un grande storico e filosofo per esporre le cause della Guerra in Iraq in cui erano impegnati gli Stati Uniti e diverse nazioni d’Europa; del resto, la sua origine mi è sembrata sempre molto complicata, e i libri scritti su tale argomento tanto difficili e oscuri che di rado ho capito qualche cosa di più dei titoli degli stessi capitoli; in conseguenza, farò grazia al lettore di ogni disquisizione mia personale sull’argomento.
A Falluja presi parte alla mia prima battaglia; sinceramente, vi fu ben poco di eroico quel giorno ed entrambe le parti ne dettero e ne presero. Non posso, tuttavia, fare a meno di dire che feci una conoscenza molto intima col colonnello Ibn-Amar, perché gli ficcai nello stomaco un proiettile, e feci fuori anche un giovanissimo magrebino, neanche maggiorenne. Uccisi, oltre a questi, altri quattro ribelli, e nella tasca di un barbuto soldato trovai una borsa con quattrocento dollari e un pacchetto di sigarette francesi; il primo di questi regali mi fu molto gradito. Tutto quello che so della battaglia di Falluja (salvo quello che ho imparato dai libri di storia e dalla cronaca giornalistica) è detto qui sopra. Le sigarette del barbuto e la sua borsa piena di dollari; la faccia livida del povero Ibn-Amar mentre mi cadeva davanti; le grida dei miei compagni mentre sparavo nel mucchio; le loro grida e le loro bestemmie quando il fuoco si fece più intenso e il numero di ribelli sembrava superare non di poco il nostro; sono, in realtà, ricordi molto poco degni, su cui è meglio sorvolare rapidamente. Quando il mio buon amico Magnini cadde, colpito dalle schegge di un mortaio, un suo collega capitano e caro amico si volse verso il tenente Moratti e disse: <<Magnini è andato; ecco la tua compagnia, Moratti!>>.
Fu questo l’epitaffio per quel grand’uomo di Magnini, mio amico e protettore. <<Avrei voluto lasciarti quei cento euro famosi, Sbellu>>, mi disse, <<Ma ho avuto sfiga ieri sera a carte e ho perso tutto>>. Furono le ultime parole che mi rivolse.
Quando tornai, neanche cinque minuti dopo, con il medico del reggimento, era già morto e qualcuno (dei nostri, si intende) gli aveva rubato i gradi e il portafogli, oltre ad un anello di scarso valore che portava all’indice della mano sinistra. Come divengono mascalzoni e cattivi gli uomini in guerra! È bello per i gentiluomini parlare dell’età della cavalleria, ma pensate ai contadini, agli ignoranti, ai ladri, agli assassini: è con uomini dediti solo alla sbornia, all’omicidio e al saccheggio che i grandi politici e i re hanno fatto il loro sporco lavoro nel mondo.





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