martedì 2 aprile 2013

Sette racconti dell'Avaro [Trame]

PREMESSA

La realtà è fonte di ispirazione infinita per chi, come me, si diletta nella scrittura o nel disegno. Proprio unendo queste due nobili arti, verso la fine del 2008, iniziai a scrivere e disegnare una "pagina" umoristica dall'eloquente titolo Il corriere dell'Avaro, avente come protagonista un personaggio (l'Avaro) ispirato ad una persona vera. Questa iniziativa, nata per gioco, finì col portarmi via molto tempo: ogni settimana, di giovedì, usciva il nuovo numero del Corriere, per la lettura del quale io e altri tre, quattro amici ci ritrovavamo e davamo luogo a delle vere e proprie letture di gruppo, con annesse urla e risa. L'Avaro non è solo un personaggio, ma un luogo dell'anima: è il venticinquenne ignorante, opportunista, provinciale, viscido, lavoratore, scapolo, imbranato e inconsapevolmente infelice, che però fa i salti mortali pur di piacere. Uscirono più di trenta numeri (cioè, fogli) del Corriere dell'Avaro, che interruppi- per mancanza di voglia -nel 2010. Nel 2011 ripresi il personaggio per una serie di altri cinque fogli che allargava il campo di "indagine satirica" sui personaggi sgradevoli, ma l'idea del Corriere di Quellaltri durò poco e non uscì mai dal cassetto (e sarà bene che non esca mai, onde evitare denunce, ricatti e minacce assortite). In compenso, utlizzai l'Avaro (in questo caso dandogli il cognome Tattani) e il suo mondo per sette racconti scritti come plagio (e omaggio) del Fantozzi di Villaggio: a riprova che certe figure sociali non sono mai scomparse. Anzi...

SETTE RACCONTI DELL'AVARO
1.
COME L'AVARO FECE CONOSCENZA CON IL SUO NEMICO

Tutta la storia era cominciata da quando gli avevano messo nella stanza De Lauro.
Sulle prime non lo sopportava. Aveva vent'anni meno di lui, la barba, i capelli da “contestatore” e si vestiva senza rispettare le regole tradizionali. Più che un impiegato sembrava uno zingaro. <<Raccomandato!>> pensò <<se gli permettono di venire così mascherato!>>. E poi la cosa più insopportabile era che De Lauro non aveva chiesto né protezione, né consigli e non aveva il tono fintamente rispettoso che hanno tutte le “matricole” con gli anziani.
Ma dopo una settimana De Lauro gli parlò. E lui capì che non era raccomandato, che si era dovuto impiegare al quarto anno di vacanze politiche quando era morto suo padre e che era molto leale.
Era stato un leader dei DAS e quando Tattani- che in materia di contestazione era fermo a <<Viva la pa-pa-pa-ppa col pomo-pomo-pomodoro...>> -gli domandò timidamente <<Ma cosa diamine vogliono questi studenti>>, De Lauro pazientemente gli spiegò tutto. Gli portò dapprima libretti facili e poi ne parlarono insieme.
Dopo tre mesi di letture “maledette” e di comizi, Tattani vide la verità e si incazzò come una belva. Anzi, lui era molto più inferocito di De Lauro: erano vent'anni che lo prendevano per il culo e per vent'anni aveva subito il ricatto <<se non stai buono, ti facciamo fuori>>.
Poi cominciarono le grandi rivendicazioni dell'autunno caldo. E quando De Lauro lo portò per le vie della capitale con centomila metalmeccanici lui sentì un gran groppo alla gola e capì che di paura non ne avrebbe più avuta. La manifestazione ebbe un andamento molto ordinato. Arrivarono nella piazza principale e Tattani chiese di parlare. Non lo sentivano bene e allora, presa una sedia di vimini da un bar, ci montò sopra e parlò. Pensò di strumentalizzare la forza di cui disponeva in quel momento, indicando a quel fiume umano un nobile obiettivo. <<Avanti!>> gridò. Lo seguirono solo una quarantina di maoisti. Sulle prime non sapeva dove portarli, poi vent'anni di paura lo fecero decidere. Sarebbero andati a far danni, a bruciare forse il luogo che odiava di più: la ditta dove lavorava. Dopo dodici giorni di lunga marcia, arrivarono in vista del palazzo carnefice. Tattani perse la testa, e si staccò dal gruppo che si era fermato. L'intero quartiere si era fermato (era la zona industriale). Tutti gli impiegati e gli operai delle altre fabbriche erano alle finestre, così come i negozianti, i bancari, i garagisti erano usciti fuori come topi. Le macchine, gli autobus e tutto il traffico si erano fermati. Si era fatto un silenzio assoluto, magico.
Lui aveva disselciato dall'asfalto un grosso cubo di porfido. Tutti guardavano quel tizio che con un pietrone in mano correva verso il pastificio urlando frasi sconnesse. A dieci metri scagliò il sasso con violenza. Centrò in pieno la grande vetrata della direzione generale. Il megadirettore galattico comparve subito alla porta principale e a muso duro gli domandò: <<E'stato lei, vero? Mi segua...>>. E la città si rianimò. Tattani era diventato color topo, aveva le mani sudate e la salivazione azzerata. Mentre salivano in ascensore gli veniva da vomitare. Venivano accompagnati anche da due giganteschi uscieri che erano le guardie del corpo del galattico; passarono davanti alla sedia elettrica. Tattani si domadava cosa avrebbero potuto fargli. Un processo sommario e poi lo avrebbero anche picchiato prima dell'esecuzione? Temeva di essere crocefisso in sala mensa. Era sicuro che avrebbe pianto di fronte alla signorina Sara, che lo stimava tanto. L'ascensore si fermò e il direttore gli disse con voce dolcissima: <<Prego, perito Tattani, si accomodi>>, e lo fece uscire per primo.
Entrarono così nell'ufficio più straordinario che lui avesse mai visto. Moquettes color verde pastello, affreschi trecenteschi alle pareti, impianto di aria condizionata, filodiffusione e anche un magnifico plasma incastonato nella parete. <<Beve qualcosa?>> gli domandò il megadirettore galattico con voce melodiosa. Tattani era stordito, ma non fino al punto di accettare un bicchiere dal padrone: scosse la testa in segno di no. <<Si accomodi, prego>> disse il signor megadirettore. <<Qui?>> si stupì Tattani, che era in piedi vicino alla grande poltrona dirigenziale in pelle umana. <<Sì...che differenza c'è?>> <<Che differenza c'è? Come che differenza c'è? Non mi vorrà mica dire che io e lei, eccellenza, siamo uguali...voi padroni siete ladri, siete la classe sfruttatrice e noi siamo schiavi e morti di fame!>>. Stava citando il De Lauro.
L'illustrissimo signor ingegner dottor megadirettore galattico sorrise paternalisticamente, bevve un sorso di wisky, si alzò e gli accarezzò la nuca. <<Caro Tattani, è solo questione di intendersi... di termini. Lei dice padroni, io dico datori di lavoro, lei dice ladri, io dico benestanti, lei morti di fame e io classe meno abbiente. Ma, per il resto, io la penso esattamente come lei>>.
<<Come?>> domandò lui, che non capiva.
<<Sì, e come lei sono un uomo illuminato e penso che a questo mondo ci siano molte ingiustizie da sanare, e la penso esattamente come il nostro caro dipendente De Lauro>>.
<<Ma lei non sarà mica...comunista?>> e nel dire quella parola sentì un brivido lungo la schiena.
<<Proprio comunista no>> disse l'illustrissimo signor ingegner dottor grand. Uff. megadirettore galattico. <<Vede, io sono un medio-progressista. E ritengo che tutti gli uomini di buona volontà come me e come lei dovrebbero cominciare ad incontrarsi senza violenza in una serie di civili e democratiche riunioni finchè non saremo tutti d'accordo>>.
<<Ma sire>> osò timidamente Tattani ormai disidratato <<in questo modo ci vorranno quasi mille anni...>> <<Posso aspettare...io>> soggiunse con grande bontà il dottissimo signor ingegner dottor megadirettore galattico.

2.
AL RISTORANTE GIAPPONESE DELL'ULTIMO PIANO DEL CENTRO COMMERCIALE PORTA A SIENA

<<Ma porca puttana...>>. Non potè finire la frase perchè era entrato proprio Lui in persona: il dott. Ing. Grand. Uff. Lup. Man. Luigio Di Cefalo Cavallo, direttore naturale dell'angolo cottura. <<Allora Tattani, voglio seguire il suo consiglio: domani sera al ristorante giapponese, d'accordo?>>.
Tattani non era d'accordo per niente, anzi la cucina giapponese lo faceva vomitare e quel mercoledì sera davano alla televisione la partita. Bestemmiò contro il destino beffardo e dette del figlio di puttana a Marini, suo esterrefatto vicino di scrivania. Dopo quarantasette secondi, rientrò Di Cefalo Cavallo e sorridendo disse: <<Alle nove vadi avanti lei con Pierugo a tenere il posto per me e mia moglie al Porta a Siena>>. Pierugo era il cane pechinese dei Di Cefalo Cavallo. Erano una coppia senza figli e avevano solo lui da dodici anni: non solo si trattava di una bestia odiosa come tutti i pechinesi, ma anche di una palla di pelo viziata, maligna e prepotente. Al Porta a Siena non accettavano prenotazioni e l'unico modo per assicurarsi un tavolo era recarsi sul posto prima del previsto e riuscire a prenderne uno libero. Donna Di Cefalo Cavallo era un'orrenda e avida ex-serva nata all'Aquila e andava pazza per la cucina multietnica.
Verso le 20:30 andò in taxi a prendere Pierugo: il tassista aveva fretta di rientrare per vedere la partita e mise in moto mentre il pechinese doveva ancora salire. Tattani prese sei metri di rincorsa e sferrò un calcio terrificante sulla fiancata della Toyota Prius: <<Cialtrone, come si permette di partire ora...non vede che deve salire il signor cane?>>. Di Cefalo Cavallo aveva osservato tutta la scena dalla finestra e applaudì il coraggio del suo sottoposto. Una volta dentro, Tattani spiegò il suo gesto ignobile al tassista, e assieme presero una drastica decisione. Si fermarono in una stradina buia: il tassista teneva Pierugo per le zampe mentre Tattani gli dava degli schiaffi. <<Tu non farai la spia!>> gli urlavano sul muso. Sputarono anche addosso a quel cane borioso.
Tattani entrò al Porta a Siena alle nove meno un quarto con Pierugo in braccio: <<Siamo, cioè sono in tre>> disse facendo il gesto con le dita. Al Porta a Siena parlavano solo giapponese e bisognava farsi capire con il linguaggio del corpo. C'erano quattro geometri di Cuneo che avevano fatto un gruppo laocoontico per mimare un piatto di spaghetti, erano seminudi, sudati come orsi e la disperazione negli occhi, forse lacrime. Erano entrati alle due meno un quarto di quel pomeriggio e non ne uscivano vivi.
Tattani pensò di far mangiare Pierugo subito, per evitare noie con i padroni successivamente. Schioccò le dita delle mani e rapidamente mimò <<far mangiare il cane>>: indicò il cane, indicò con le dita riunite la bocca, e poi si battè la pancia in segno di pienezza e disse <<Mangiare ora>>. Presero Pierugo e lo trascinarono in cucina; Tattani pensò che lo stessero portando a mangiare là dentro e ne approfittò per dare un'occhiata al locale. Notò con piacere che il menù non era molto caro, anzi con pochi euro si mangiava abbondantemente: pensò a da quanto tempo non portava la famiglia a cena fuori e meditò di fare uno strappo alla regola. Tuttavia, cambiò idea rapidamente. Infatti, le regole dei ristornati giapponesi sono tremende: non si possono toccare i cibi con le mani, ma solo con le bacchette di legno di ciliegio. Un vicino di tavolo di Tattani era da quattro ore alle prese con un'oliva maledetta: si guardò intorno con molta circospezione e poi di scatto prese l'oliva con le dita. Non fece in tempo a metterla in bocca che un samurai emise un urlo da guerra e amputò con un deciso colpo di katana la mano destra dello sventurato.
Arrivarono i Di Cefalo Cavallo e domandarono di Pierugo. <<E'in cucina che mangia>> spiegò Tattani. Arrivò il padrone del locale e si avvicinò sorridendo. <<Qui bisogna inchinarsi>> disse scherzosamente Tattani col tono dell'habitué. Il direttore naturale non fece in tempo a piegarsi che cadde a terra dolorante: lui e il padrone avevano fatto un frontale di incontro con le facce. Il padrone fu portato via per la quinta volta nella serata, mentre Di Cefalo Cavallo fu fatto sedere al tavolo, con la tempia appoggiata alla parete.
<<Nel frattempo ordiniamo del sakè caldo?>> domandò la signora. Tattani battè le mani e mimò <<Sakè caldissimo, per favore>>. Quando il sakè arrivò era alla mostruosa temperatura di 230 gradi, implacabile come piombo fuso, non bolliva e non emetteva fumo, ma aspettava sinistramente nelle tazzine. In quel momento, il direttore naturale riprese conoscenza e decise di tirarsi su con un sorso di sakè; spalancò pigramente la bocca e fece cenno al suo impiegato di svuotargli la tazzina in gola. Quando Tattani sentì lo sfrigolio orrendo misto all'odore di carne bruciata, cercò di scappare dal ristorante, ma le spade dei samurai lo fecero tornare presto al tavolo. Dopo cinque minuti, provò a bere anche lui, ma gli cadde una goccia di piombo fuso sulla mano destra, dove si formò una stimmate alla Padre Pio. Il dolore era così forte che prima vide la Madonna di Loreto che lo fissava, poi cercò di fare dei miracoli e infine mandò una cartolina ai suoi a Pietralcina. Si riprese, rendendosi conto di non avere mai avuto parenti laggiù.
Vennero portati gli antipasti: piatti sfiziosi guarniti con dei fiorellini di plastica che Tattani non riusciva ad inghiottire; il padrone gli fece capire la differenza mentre stava ingoiando una gheixa in avorio di 18 cm. Poi fu il turno di una pasta cattivissima contenente teste di seppia crude: Tattani corse fuori città, arrivando fino alle Crete per vomitare. Non voleva farsi notare, ma quando rientrò evinse dagli sguardi che gli venivano indirizzati che tutti i presenti avevano capito dove era andato: del resto, i suoi conati erano stati uditi perfino dai butteri maremmani.
<<慎重な料理が鉄と青銅製で、鉄は非常に、非常に暑いので赤になっているされているため、>>* dissero le cameriere consegnando tre piatti al tavolo di Tattani. Di Cefalo Cavallo fu il primo a squarciare il silenzio della sala con un urlo straziante, scaraventando il piatto verso l'ingresso. Ogni ventisei secondi si sentiva l'urlo tremendo provenire da ogni tavolo, perchè portavano da mangiare il secondo a tutti i clienti contemporaneamente. Infine fu il padrone in persona a portare il piattoforte: Pierugo fritto in agrodolce, alla moda di Kyoto. Era un ristorante specializzato in cani e i più raffinati si presentavano abitualmente con il loro cane preferito. Tattani aveva mimato male la cosa. La signora ululava impietrita e a Di Cefalo Cavallo, che aveva cercato di toccare il suo cane, i samurai mozzarono entrambe le mani. Nel frattempo, Tattani apprese da una radio vicina alla cucina che la sua squadra del cuore aveva vinto 7 a 2: uscì avvolto nella sua sciarpa da ultrà, festeggiando con altri poveracci.

* tr. <<Attenti perchè i piatti sono di ferro e non di bronzo, e sono rossi perchè il ferro è molto, molto caldo>>.

3.
AL SALONE DELLA NAUTICA DI GENOVA

Un pomeriggio di ottobre, Tattani andò al salone della nautica. Era stata un'idea di Tina, sua moglie. E lui a schermirsi: <<Ma che ci vado a fare? Tanto non compro nulla!>>. Ma la moglie gli spiegò che per lui era l'unica occasione mondana dell'anno e un valido tentativo di inserirsi negli strati dell'alta borghesia padronale.
C'erano circa tre ore e dieci di strada fra casa Tattani e Genova, e lui aveva autorizzato la moglie a svegliarlo anche con una pentolata di acqua gelata in faccia. La prima pentolata la Tina gliela fece cadere sui piedi, alle sette del mattino. Lui non si svegliò ma sognò di essere Amudsen al Polo, durante la ricerca di Nobile. Lo svegliò una seconda secchiata mostruosa, in nuca. La voce sinistra della moglie accompagnò la tazza di caffè rovente: appena ne bevve un goccio, la stanza si riempì di fumo e odore di pollo bruciato. Andò al bagno, si guardò allo specchio e iniziò a bestemmiare ad alta voce, intervallando alle varie “Madonne” dei suoni a dir poco inconsueti. Il portinaio, un sessantenne vesuviano molto superstizioso, si fece il segno della croce terrorizzato e mise una matassa d'aglio sulla guardiola. Sarebbe andato avanti per una mezz'ora, se Tina non fosse sopraggiunta a ricordargli quanto avrebbero potuto far loro comodo le amicizie giuste, specie in vista del futuro della bambina. Tattani si convinse e spogliatosi si tuffò in vasca: era un bagno di lava. Si attorcigliò come un gambero, senza emettere manco un lamento, cambiò colore e in sei minuti era cotto. La Tina lo fece sdraiare sul letto, lo spalmò di maionese Kraft, lo cosparse di prezzemolo, spicchi di limone e un po' di Perry Sauce. Lui si ribellò solo quando la moglie si presentò con una carota in mano: sputò il limone, bofonchiò qualcosa e si vestì velocemente.
Scarpe strettissime: si trattava di un terribile paio di Nike Silver in misto plastica e ferro che avevano una sinistra caratteristica, e cioè quella di stringersi e accorciarsi, fino a che lo sventurato indossatore comincia ad avere allucinazioni e a sentire voci come Giovanna d'Arco. <<C'è molto freddo al salone>> disse la moglie <<Copriti bene!>>. E così fece: mutandoni lunghi di lana, maglia di lana, maglione di lana sotto la camicia, camicia, altro maglione, il suo pesantissimo “spigato” siberiano, guanti da sci, parka artico con resistenze elettriche interne, sciarpone di montone da tre metri e colbacco clamoroso di orso. A tracolla, aveva una fiaschetta di grappa friulana per vincere il freddo tremendo della fiera.
Sfortuna volle che, vuoi per la struttura in vetro, vuoi per la giornata di sole, vuoi per un feroce impianto di riscaldamento a infrarossi, vuoi per la gran folla, al salone della nautica era presente un clima tipico di Maracaibo in una giornata di luglio molto umida. Tattani, prima di entrare, bevve bruscamente un gran sorso di grappa e si infornò; dopo sei minuti non riusciva più a respirare, dopo dodici cadde carponi. Si trascinò al banco informazioni, per chiedere dell'acqua, ma la gente intorno si faceva dei piccoli sgarbi: violente gomitate sugli occhi e prese di collo stile lotta libera. Fu violentemente calpestato e due inservienti lo abbandonarono nello stand navi da riporto per un'ora buona. Nel riprendersi, fu colpito alla nuca da un mostruoso colpo di randa: una nave stava effettuando una dimostrazione. Il colpo lo scaraventò fin sulla banchina polare. Nell'incidente era rimasto in camicia e mutande, e aveva perso anche le scarpe di ferro. Si trascinò verso terra, metà a piedi sul Pak e metà a nuoto inseguito dagli orsi bianchi.
Al suo ritorno, fu accalappiato da un losco standista, che lo applaudì e gli disse: <<Bravo! Ecco chi comprerà una bella barca!>>. Lui firmò davanti ad una folla divertita 2 milioni di cambiali, anche a nome della società. Aveva comperato la “Princess Ann”, una vecchia nave ospedale inglese del 1901. Era in mutande e con un inizio di cancrena a tutte le dita. Guidò verso casa singhiozzando e le lacrime si mescolarono, per tutte e tre le ore di durata del viaggio, al sangue che gli usciva copioso dal naso. Tornato in città a notte fonda, trovò parcheggio in una strada parallela a casa sua. Attraversò via Verdi senza guardare e fu centrato in pieno da un autobus che andava a 180 all'ora. Si rialzò senza protestare. Sulla soglia di casa iniziò a nevicare forte; fu assalito da un grosso cagnaccio, col quale ebbe inizio una lotta all'ultimo sangue. Tina aprì di colpo e lo fece volare dentro casa prendendolo per un braccio: <<Dentro! Siamo assediati da un branco di lupi!>>. Tattani svenne con studiata lentezza.

4.
QUATTRO GIORNI A MONTECARLO

Per accompagnare il duca Pier Paolo conte ingegner Cecchigori a Montecarlo, ci fu un sorteggio per il quale si riunì anche il Consiglio dei Ministri.
Era un'occasione unica per un mediocre come Tattani e il Cecchigori era il direttore responsabile centrale di tutti punti vendita del gruppo. E quando in sala mensa venne fuori il numero di matricola 1002, Tattani non si sentì neppure emozionato, dimostrandosi quasi estraneo alla cosa.
A casa realizzò e soffrì di insonnia tutta la notte, mentre la Tina gli diceva: <<Te lo meritavi, cosa credi che sia solo fortuna? Hanno scelto il migliore...>>. Ma lui si sentiva uno dei meno meritevoli. L'occasione era a dir poco clamorosa: quattro giorni a Montecarlo a vedere giocare il duca conte Cecchigori, un patito di gioco, cabala e stravizi assortiti.
Scortati alla stazione di Santa Maria Novella da una lussuosa Rolls-Royce del 1937, partirono per Nizza in vagone letto e lui, subito per dimostrarsi migliore, disse: <<Grazie, sig. duca conte, ma preferisco non pesare alla società come un biglietto vagone letto. Sarò un viaggiatore seduto, anzi dormirò in piedi>>. Passò così una notte tremenda, durante la quale prendeva sonno ma si svegliava poco dopo con la lingua spiaccicata sul velluto dello scompartimento che sapeva di polvere e treno. Si addormentò in corridoio, sdraiato a pelle di orso, con la faccia sulla giacca. A Nizza, a fine viaggio, lo buttarono fuori a calci nei denti. Si scaraventò ad ossequiare il Cecchigori che aveva, per il sonno, la faccia gonfia come un pugile dopo 15 rounds, e via, di servilismo in servilismo: era disposto a tutto e si stava giocando la vita.
All'albergo, volle aiutare i facchini per far risaltare la differenza fra lui e il direttore e per mostrare il suo spirito democratico. Cadde con tre valige nella porta girevole, creando un ingorgo totale. Quando si fu liberato, era già l'ora di inizio dei giochi.
Cecchigori giocava naturalmente i soldi della ditta, frutti maturi di estorsioni, laute bustarelle e ricavi da ricatti riguardanti intercettazioni telefoniche. Tattani stava bevendo dell'acqua Perrier quando il duca conte ebbe una botta di culo terribile e voltò tre 9 di fila a chemin-de-fer. Il potente signore andava pazzo per la cabala e ordinò che Tattani bevesse senza sosta acqua Perrier, la più gasata al mondo. Inutile dire che il padrone perse come una bestia quasi tutti i suoi averi fino alle sei del mattino.
Il giorno seguente ordinarono da mangiare al tavolo verde presso “Le-Bec-Rouge”, specializzato in porzioni apocalittiche. Cecchigori ordinò due tori alla griglia con erba estragon, aggiungendo birra, acqua Perrier, pepe, cannella, sale, pere cotte, prugne secche e olio. Tattani, dopo cinque ore, iniziò a fare dei rutti disumani, che costarono numerose denunce al casinò da parte di tutte le strutture dei dintorni.
Al terzo giorno, Cecchigori era una mongolfiera. Grigio, svogliato e infelice, si era ridotto a chiedere pochi spiccioli a Tattani, che pure era rimasto al verde. Riuscirono, nel pomeriggio, a vendere i due biglietti del treno ad una famiglia ucraina e a racimolare qualche centinaio di euro. Quella sera, il duca conte sembrava avere fortuna al tavolo da gioco; con una mano fenomenale pensò di giocarsi il tutto per tutto e di chiudere in bellezza un'avvincente partita di poker: <<Scala!>> gridò entusiasta. <<Scala reale!>> replicò l'obiettore di coscienza svizzero che aveva davanti. Erano esattamente le 23 e 17 e Tattani guardò il suo padrone. La fronte del Cecchigori si imperlò di gocce di sudore gelato, poi la drastica decisione: si buttò dalla finestra, ma erano appena al primo piano e atterrò sulle piante di menta. Ci rimase cinque ore. Lo portarono prima ad un prestigioso centro di rianimazione ad Antibes, ma quando Tattani spiegò ai medici che il duca conte era povero in canna e non aveva più un soldo in tasca, iniziarono a cacciarli da tutte le parti. Anche dall'albergo. Il Principato di Monaco predispose un foglio di via alla frontiera spagnola per Cecchigori.
Tattani ritornò in Italia quella notte, attraversando il Passo del Diavolo con un gruppo di spalloni. Era disperato ma non gli interessava di cadere: tanto per lui era comunque finita.

5.
LE VACANZE MARINE DI TATTANI E MARINI

<<Porca ma...>> disse Tattani interrompendo prontamente una bestemmia violentissima contro la Beata Vergine, causata dalla prima tibiata mostruosa che aveva preso dopo cinque minuti di barca. Si trovava con il collega ragionier Marini sulla barca del Di Cefalo Cavallo, il quale, dopo il piccolo incidente alle mani, era stato insignito della medaglia al valore, della carica di guida spirituale della società e di innumerevoli onoreficenze, pubbliche e private. Di lui adesso si diceva che avesse alle spalle Monti, Craxi e Fanfani, conferendogli dunque un'aria temibilissima. I suoi sottoposti si rivolgevano ormai al loro direttore come ci si rivolge ad un santo, mentre gli amici ne esaltavano le doti di ladro e carogna.
La barca che Di Cefalo Cavallo si era regalato era stata costruita con legni pregiatissimi e presentava, come palese peculiarità, le maniglie d'oro massiccio. L'aveva battezzata “Luigio I”, in onore alla sua persona. Un giorno, in ditta, aveva udito Tattani e Marini tracciare delle somiglianze fra lui e Papa Giovanni XXIII: essendo un uomo di vomitevole vanità, li invitò seduta stante sulla “Luigio I”. Destinazione: Portocervo, la spiaggia dei vip, dei miliardari e dei figli di puttana.
La cabina destinata ai due ospiti era 1 m x 12 cm, due loculi in cui circolava l'aria necessaria a far sopravvivere un topo. Nella prima notte di viaggio ebbero salivazione alta, mani due spugne, capogiri, vomito, manie di persecuzione, miraggi. Alle sette del mattino, si presentarono sul ponte a colazione con una tachicardia parossistica. <<Come avete dormito?>> domandò il direttore. <<Come un papa!>> gioì Tattani, alludendo, pur con la sua bassa cultura, a Bonifacio VIII, famoso per la sua insonnia cronica.
Fecero la traversata da Punta Ala a Portocervo con un sole di rame. Il padrone consigliava di ungersi ai suoi due schiavi, che stavano per ore spalmati al sole, con paurosi costumi ascellari di lana greggia rossa stretti in vita da due cinture bianche. Poco prima di cena, un marinaio passò accanto ai due ospiti, li spalmò di burro, aggiunse vino bianco, rosmarino, sale e pepe; infine, li portò in cucina, li caricò su due piatti di argento e li lasciò riposare. Furono serviti in tavola alle venti e trenta precise. Quella notte fecero lo stesso sogno: vestivano i panni di San Francesco ma non potevano bere, a causa delle stimmate.
Alle dieci del mattino, arrivarono a Portocervo, in un tripudio di barche ormeggiate in quarta fila. Trovarono posto accanto al “Bracciante”, la barca dei conti Tarallini Cavallucci. Celere e premuroso, Tattani provò ad aiutare i marinai della “Luigio I” nell'attracco: il risultato fu che, per avvicinarsi il più possibile alla nave vicina, rimase con i piedi sul bordo della barca di Di Cefalo Cavallo e con le mani sul bordo di quella dei conti. Un applauso di incoraggiamento risuonò dalle colline fino a tarda sera.

6.
LA CAMICIA DA VENTINOVE EURO

Tattani aveva invitato finalmente a pranzo fuori la Di Cessa, dopo cinquanta mesi di corte sofferta, tenera e disperata. Lei aveva accettato per pietà, lui invece sognava quel pranzo da quattro anni e l'aveva già vissuto, nei minimi particolari, un centinaio di volte. Aveva prenotato da due mesi un tavolo da “Marchino il Cacciatore”.
All'una di un sabato di sole, ecco che la Di Cessa scese sorridente le scale del suo condominio. Era così carina che lui sentì come una sciabolata di felicità nella schiena, una felicità da urlare, ma si trattenne. Mentre la aspettava, aveva pensato anche di lasciare la moglie Tina e sua figlia, solo se la Di Cessa glielo avesse fatto capire. Giocava grosso, in quella circostanza. Aveva comprato una camicia aderente di lino batista, come aveva visto in “Novella 2000” addosso ai tronisti del momento. Era andato da Nara, la peggiore camiciaia di Italia, e alla fine aveva deciso quale acquistare. La cifra era stata una mazzata: ventinove euro. La metteva in quell'occasione per la prima volta, senza giacca e con i primi tre bottoni aperti, a mostrare il villo del petto, come i veri playboys.
Era l'inizio dell'estate e c'era un lieve odore di magnolie e pitosfori. Tattani era emozionatissimo: mani due spugne, salivazione azzerata ed era loquacissimo. Mentre attendevano il menù, attaccò una filippica terrificante sulle uniche tre cose che conosceva un po' meglio: economia personale, Obama, film di Natale degli anni Novanta. <<Oggi siamo vuoti...>> disse mestamente Marchino, proprietario del locale omonimo. <<Che volete? Faccio a modino mio?>> proseguì, facendo un cenno che avrebbe dovuto emanare fiducia, ma che in realtà lasciava capire che non c'era da fidarsi affatto. Tattani se ne stava seduto, fasciato dai suoi ventinove euro, mentre dai peli del petto iniziavano a scendere, rigogliose, tante gocce di sudore. Cercava di respirare il meno possibile, per consentire alla camicia di mantenere un aspetto “attillato puro”.
Il vischioso ed infido proprietario portò una spaghettata <<alla mia maniera>> monumentale. Tattani aveva una fame mostruosa e, alla dodicesima forchettata esatta, gli saltò il quarto bottone. Respirò profondamente per il disappunto, ma ad ogni forchettata gliene saltava uno. Finì gli spaghetti che era completamente aperto sul davanti. <<Chiuditi, sennò prendi freddo!>> gli consigliò la Di Cessa, dimostrando una perspicacia fuori dal comune. In un piatto largo quanto un garage, furono portate le panzanelle. La Di Cessa si avventò e lui spiritosamente allungò con foga il braccio verso il piatto. Si sentì un crack sinistro: gli era partita tutta l'ascella destra. Cercò allora di toccarsi lo squarcio sinistro dietro la schiena: lottava contro la camicia di Nara. Ad un crack altrettanto terribile seguì un'apertura globale della parte anteriore. Arrivò Marchino che domandò se gradivano un assaggio di stracotto: gli tremò il mestolo e mezzo litro di sugo rovente finì sulla camicia di Tattani; un pezzo di carne gli si infilò sotto il colletto della camicia. Passò un cameriere, scivolò a forbice nella pozza di sugo e prima di andare giù si afferrò, di istinto, al collo della camicia fottuta, sbranandogliela completamente.
Ormai, indossava solo le maniche. La Di Cessa mugolò qualcosa, ma lui non ci fece caso: si alzò lentamente e andò verso l'acquario tenuto al centro della sala, cercando di suicidarsi. Uscito dall'acqua dette di matto. Iniziò a disporre i costosi pesci tropicali del proprietario sul pavimento, per fare il miracolo dei pani e dei pesci. Chiamò <<Caifa>> Marchino il cacciatore. Mentre cercava di battezzare sul Giordano con una bottiglia di Acqua Pejo un turista belga, arrivarono quelli del pronto intervento. Entrarono e gli strapparono via dal corpo le due maniche. Lo portarono via a torso nudo verso l'ambulanza mentre diceva: <<Padre, padre...perchè mi hai abbandonato?>>.

7.
IL RISTORANTE “DAL TERRONE”

<<Iamm'a'magna'fura!>>. Queste furono le lapidarie parole del geometra Poncio in sala mensa all'ora del caffè. C'erano Tattani, il dottore clamoroso Di Cefalo Cavallo, la signorina Di Cessa, che Tattani amava teneramente da otto anni senza saperlo, e il ragionier Marini.
Era andata così: Di Cefalo Cavallo aveva cominciato al solito a parlare di posti rinomati per il cibo, aveva piazzato un paio di inviti a cena piuttosto nebulosi e a quel punto Poncio era partito con un invito esteso a tutti i colleghi della loro sezione. Di Cefalo Cavallo accettò per spirito democratico, senza capire di essere stato incastrato. Decisero per il venerdì: <<Ci sarà anche il pesce!>> trillò la Di Cessa. Tattani le sorrise ma era già preoccupato. Per che cosa? Innanzitutto, per i soldi.
Venerdì sera l'appuntamento era alle nove in casa di Poncio. Tattani arrivò puntualissimo: giacca stile becchino, camicia da carcerato, cravatta corta con nodo pietosamente preconfezionato. Poncio era in vasca, a intonare le canzoni di Gigi Finizio. Quando Tattani entrò, dopo sedici minuti di pianerottolo gelato, dovette assistere allo spettacolo osceno del padrone di casa che si odorava le natiche pelosissime. Alle nove e venti arrivò Marini: vestitone millerighe con cravatta vino da mezzo chilo. Alle nove e venticinque arrivò la Di Cessa vestita da vedova sarda in discoteca e Tattani la salutò con un <<Sarina>>- si chiamava Sara -<<i miei ossequi...>>. Poncio invece le cinse la vita e le disse, pieno di laidi ammiccamenti: <<A'bbbella, che vuo'bbbere?>>.
A mezzanotte arrivò- immerso in un osceno felpone di fattura cinese -Di Cefalo Cavallo, scusandosi per il ritardo, ma le due puttane pagate dal pastificio non gli avevano lasciato scelta. La Di Cessa si era addormentata alle undici, seguita, dieci minuti dopo, dal povero Marini, da sempre abituato ad addormentarsi a quell'ora. <<Dove si va a cena, Poncio?>> domandò il direttore. <<Vi ho invitati “Dal Terrone”!>> esclamò il geometra, rivelando la sua vera natura, quella di un coglione meridionale, ignorante e senza una lira. Tattani e Marini, molto diversi ma uniti dalla grande passione per l'avarizia e il risparmio fine a se stesso, si guardarono preoccupati: al di là del nome, forse un po' volgare e poco invitante, “Dal Terrone” era uno dei ristoranti più cari al mondo.
Poncio ordinò cinque taxi. Ne bastavano due veramente, e i colleghi glielo fecero notare. <<Ma chi se ne fotte! Si vive una volta sola!>> rispose. I taxi vennero a costare duecento euro a cranio, e a Tattani fecero anche il resto sbagliato. Ostentò disinteresse: <<Cosa vuoi che me ne freghi di pochi spiccioli!>> esplose trattenendo lacrime di sincero dolore. Entrarono “Dal Terrone”: si trattava di un posto meraviglioso, lume di candela, camerieri in frac, gente di una razza che nessuno dei dipendenti del pastificio aveva mai visto fino a quel momento. Dopo pochi minuti cacciarono il Di Cefalo Cavallo perchè in felpa quando la giacca era d'obbligo. Obbligò Marini, minacciandolo di un licenziamento in tronco, a dargli la sua millerighe: il ragioniere cedette subito e fu appeso nel guardaroba, in attesa, per tutta la sera. Essendo esauriti i tavoli da quattro o da cinque, Tattani fu spedito da solo su un piccolo tavolo sgangherato nel corridoio, mentre Poncio formava un gruppo affiatato con il direttore e la “sua” Di Cessa; tutto questo a dieci metri di distanza da Tattani.
<<Sciampagn!>> ordinò con tono virile Poncio, mentre Di Cefalo Cavallo, senz'altro provato dalla serata con le due puttane, si accasciava sul tavolo. <<Quale desidera, signore?>> domandò un cameriere con disprezzo. <<Don Perigno'>> rispose Poncio, convinto che il Dom Perignon prendesse nome da un celebre malavitoso del quartiere dove era cresciuto. La Di Cessa era eccitatissima per il lume di candela (a casa sua erano talmente poveri che neanche potevano permettersi i cerini con cui accendere le candele), la musica e il posto; Tattani, relegato nel corridoio, si limitava a bere lo champagne che gli era stato portato e ad ordinare secchielli ricolmi di ostriche (tanto pagava Poncio); Marini si era accoccolato per terra in guardaroba e dormiva: sognava di cenare con la moglie e Carolina di Monaco in un ristorante alla moda.
<<Ancora Don Perigno'!>> ordinava Poncio mentre strizzava i minuti capezzoli della Di Cessa, che dal canto suo urlava <<Sono ubriaca!>>. Alle 1 e 45, Di Cefalo Cavallo si risvegliò e senza dire una parola lasciò il ristorante, con addosso giacca e cravatta di Marini. Tattani fu incaricato di accompagnare il direttore ad un taxi: dovette montarlo a bordo e lasciare indirizzo e 50 euro al tassista. Al suo rientro in sala, chiese umilmente di sedersi al posto del Di Cefalo Cavallo: Poncio si limitò ad annuire, visto che era troppo impegnato a spalmare del burro sulla pelle della Di Cessa e a parlare del cinema erotico degli anni Ottanta.
Il nuovo regolamento del ristorante prevedeva la chiusura forzata alle ore 2 e 30, e così fu. Poncio chiamò il cameriere e gli bisbigliò all'orecchio: <<Metta tutto sul mio conto...>>. Il cameriere capì che si trattava di un dilettante; del resto, dopo ventisette anni di scontri con lestofanti internazionali, l'esperienza a qualcosa serviva. <<Mi spiace, paisa', ma non possiamo tenere conti in sospeso...>>. Poncio trattenne il fiato per trentotto secondi e poi, ridendo come un bavarese all'Oktoberfest, disse: <<Non tengo un euro!>>. Sul volto del cameriere si disegnò una sguardo tipo cobra: fece portare con uno schiocco delle dita un carrello di cambiali già compilate. Marini fu fatto svegliare e nonostante non avesse toccato cibo fu costretto a compilare, in piedi e di fronte a tutto il personale del ristornate, 13.500 euro di cambiali. Il conto era di 13.000, ma Poncio disse forte <<Via, non facciamo i tirchi! 'Nu poco di mancia lasciamola!>>. I camerieri non applaudirono neppure, tanto era forte la tensione in sala.
I quattro taxi rimanenti li aspettavano fuori dal ristorante. Il corteo si diresse all'abitazione di Poncio, dove il padrone di casa convinse la Di Cessa a salire e bere qualcosa. Salutò Tattani e Marini alla svelta, pregandoli di pagare i taxi. Furono utilizzati i risparmi di Marini. I due colleghi si guardarono in faccia: stava albeggiando e iniziava a piovere. Marini era senza giacca, in maniche di camicia e iniziò a correre: scomparve nelle tenebre, bestemmiando. Poi, anche Tattani cominciò ad urlare.

FINE (?)











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