sabato 27 aprile 2013

Le memorie di Sbelluccio Bellini (Capitolo I) [Trame]

PREMESSA

La rubrica Trame è in anticipo di alcuni giorni, è vero. Ma c'è un motivo.
Una finta autobiografia che si ispirasse, anzi che ricalcasse i grandi romanzi di formazione inglesi e tedeschi del Settecento e Ottocento.
Non a caso, è un voluto plagio de Le memorie di Barry Lyndon di Tackeray.
12 capitoli e un grande divertimento nello scrivere unendo fantasia, realtà, belle copie di vita, brutte copie dell'arte.
Come nella migliore tradizione dei romanzi d'appendice, non pubblicherò questa autobiografia tutta insieme, ma un capitolo alla volta, anche se devo ancora decidere la cadenza. Ci penserò.
Nel frattempo, buona lettura.


LE MEMORIE DI
SBELLUCCIO BELLINI
GENTILUOMO DEL REGNO D'ITALIA

IL CUI CONTENUTO CONCERNE:

IL RACCONTO DELLE SUE AVVENTURE STRAORDINARIE;
LE SVENTURE; LE SOFFERENZE AL SERVIZIO DI SUA SIGNORIA
IL DEFUNTO CAVALIERE; I SOGGIORNI IN DIVERSE CORTI EUROPEE;
IN TOSCANA E IN ITALIA; E LE MOLTE PERSECUZIONI,
COMPLOTTTI E CALUNNIE DI ESTREMA CRUDELTA' DI CUI FU VITTIMA.


I.
LE MIE ORIGINI E LA MIA FAMIGLIA.
SUBISCO L'INFLUSSO DI UNA TENERA PASSIONE

Dai tempi di Adamo in poi, si può dire che non vi sia mai stato al mondo un guaio in cui non fosse implicata una donna. E da quando ha avuto origine la nostra famiglia (e deve essere stato molto vicino ai tempi di Adamo- tanto antichi, nobili e illustri sono i Bellini, come ognuno sa) le donne hanno avuto una parte importante nei destini della nostra razza.
Immagino che non vi sia in tutta Europa alcun gentiluomo che non abbia sentito nominare la casata dei Bellini di Toscana, nel regno d'Italia, poiché nessun nome altrettanto famoso si può trovare nel Triveneto o nel Mezzogiorno; e benchè da uomo di mondo io abbia imparato a disprezzare con tutta l'anima i vantati diritti a un'altra nobiltà di pretendenti che non hanno una genealogia più illustre di quella del lacchè che mi lucida gli stivali, e benchè derida col maggior dileggio le spacconate di molti dei miei concittadini, che discendono tutti dalle signorie del Granducato e parlano di un pezzetto di terra (su cui potrebbe a malapena vivere un porco) come di un feudo; pure la verità mi costringe a dichiarare che la mia famiglia era la più nobile della penisola e forse dell'universo mondo. E d'altra parte i nostri possedimenti, ora insignificanti, a noi sottratti dalla guerra, dal tradimento, dal trascorrere del tempo, dalla bizzarria degli antenati, dalla fedeltà dell'antica fede e all'antico monarca, una volta erano immensi e abbracciavano molti borghi, in un tempo in cui l'Italia era molto più ricca e prospera di ora.
Avrei potuto anche porre la corona medicea sul mio stemma gentilizio, ma troppi sono gli sciocchi pretendenti a questa distinzione che già la portano e l'hanno resa comune. Forse, chissà, se non ci fosse stata di mezzo una donna oggi la corona avrei potuto portarla io. Se vi fosse stato un condottiero valoroso a guidare i miei concittadini invece di quei queruli buffoni che piegarono il ginocchio dinanzi ai Savoia, essi avrebbero potuto rimanere uomini liberi; e se vi fosse stato un capo risoluto per affrontare quel mascalzone assassino di Benito Mussolini, avremmo potuto cacciare i forestieri una volta per sempre. Ma non vi era alcun Bellini in campo contro Vittorio Emanuele e al tempo del Ventennio era troppo tardi per levare il grido di guerra contro il Duce.
Non eravamo più principi della terra; la nostra infelice razza aveva perduto i suoi possedimenti un secolo prima, in conseguenza del più vergognoso tradimento. Conosco bene il fatto, poiché mia madre me ne ha spesso raccontato la storia e per di più ha compilato un albero genealogico in ricamo di lana che ha appeso nel salone giallo dell'Agrestone, dove abitiamo. Questo è il solo feudo che i Bellini posseggano ora in Italia e fu un tempo proprietà dei miei antenati. Lorenzo Bellini di Castello lo possedeva fin dal tempo di Cosimo de'Medici. I Bellini, in quel tempo, erano sempre in lotta con i pisani Cappelli e una donna del mio casato, la figlia del buon Lorenzo, era innamorata del giovane marchese Cappelli: quest'ultimo, seguito dai suoi familiari, guidò il massacro e fece a pezzi il mio antenato Lorenzo Bellini. L'odioso macello ebbe luogo al crocevia della Madonnina di Coneo, presso Boscona. Il Cappelli sposò la figlia di Lorenzo e pretese il feudo che egli lasciò; e benchè i discendenti di Lorenzo fossero vivi e si continuino nella mia persona, nella causa di fronte ai tribunali del Granducato di Toscana il feudo venne concesso al pisano, come è sempre avvenuto in tutti i processi in cui fossero interessati pisani e fiorentini. Così, se non fosse stato per la debolezza di una donna, sarei fin dalla nascita entrato in possesso di quei feudi che più tardi dovetti acquistare grazie al mio merito, come avrete modo di sentire. Ma andiamo avanti con la storia della mia famiglia.
Mio padre era molto noto nei circoli del Granducato, e più in generale in quelli d'Italia, col nome di Mario Floriano Bellini. Si era indirizzato, come altri figli cadetti di nobili famiglie, alla professione di ingegnere, e aveva fatto il suo tirocinio in un celebre studio di viale Lavagnini, a Firenze. Per il suo ingegno superiore e per il suo amore della logica non vi è dubbio che sarebbe divenuto una figura eminente nella sua professione, se le sue qualità sociali, la passione per i divertimenti politici e sportivi e la straordinaria grazia dei suoi modi, non lo avessero indirizzato verso un tipo di attività di gran lunga superiore. Sin da quando era studente di Ingegneria, egli manteneva sette cavalli da corsa e andava a caccia regolarmente con i cacciatori di Giampiglia e di Onci. Sul suo cavallo grigio, Fanta, disputò poi quella famosa corsa contro il notaio Birindelli che è ancora ricordata dagli amanti di quello sport. Per ricordare quella vittoria fece dipingere uno splendido quadro che ora è appeso sopra la mensola del mio camino nella sala da pranzo di Castel Portanova. Un anno dopo ebbe l'onore di cavalcare, a Fosci, lo stesso cavallo Fanta davanti al defunto arciduca Francesco Salvatore di Toscana, ricevendone il premio e la benevola attenzione dell'augusto signore. Benchè fosse l'unico figlio unico della nostra famiglia, il mio caro padre ereditò naturalmente il feudo (ora ridotto soltanto alla miserabile rendita di 40.000 euro l'anno), perchè un suo parente più anziano, il cugino Luca Pisano (così chiamato a causa della provenienza della madre, originaria di Cascina) rimase fedele alla vecchia religione in cui la nostra famiglia era stata allevata, e non solo prestò onorevolmente servizio alla dirigenza delle allora Ferrovie Statali, ma combattè persino contro la privatizzazione di queste nell'infelice salita al potere del Cavaliere Silvio Berlusconi. Riparleremo oltre del cugino Luca Pisano.
Devo essere grato della conversione di mio padre alla mia cara mamma, Anna Rita Bacherozzi, figlia del Signore e giudice di pace Marcello Bacherozzi di Asciano, provincia di Siena. Ella era, ai suoi tempi, la più bella donna delle crete senesi e veniva chiamata da tutti <<l'Elegante>>. Vedendola ad un'assemblea, mio padre si innamorò perdutamente di lei; ma ella non voleva sposare un gentiluomo fiorentino o l'assistente di qualche ingegnere, e così per amor suo, essendo ancora in vigore le vecchie leggi, il mio caro babbo prese il posto del cugino di Pisa ed entrò in possesso del feudo di famiglia. Renzo Bisconti prestò ai miei genitori il suo yacht, che allora stava all'ancora a Santa Croce sull'Arno, e la bella Anna Rita venne indotta a fuggire con Mario Floriano a Poggibonsi, benchè i suoi genitori fossero contrari al matrimonio e i suoi spasimanti (glielo ho inteso dire migliaia di volte) fossero i più numerosi e ricchi di tutta la ex-Repubblica di Siena. Si sposarono a San Gimignano e mio padre, vista la magnanimità del nonno, potè entrare in possesso dei beni famigliari e sostenere con dignità il nostro nome a Poggibonsi- dove sfruttarono una casa lasciata in eredità da un vecchio prozio -e in molti altri stati d'Europa (su tutti, Francia, Svizzera, Austria, ex-Jugoslavia e Grecia). Ferì, in una partita di calcetto, il famoso conte Bandinelli dietro la tenuta di Strozzavolpe, fu membro della <<San Galgano>> e frequentatore di tutte le mescite di cioccolata, e mia madre, del pari, fece una vita brillante. Infine, dopo il giorno del suo grande trionfo di fronte alla signoria di Francesco Salvatore a Fosci, la fortuna di Mario Floriano stava ormai per essere fatta, perchè il generoso arciduca aveva promesso di pensare a lui. Ma, purtroppo, egli venne chiamato da un'altra signoria, la cui volontà non consente ritardi né rifiuti, vale a dire dalla Morte, che colse mio padre alle corse di Pian del Lago, lasciandomi orfano e senza aiuto. Pace alle sue ceneri! Egli non fu senza colpa e dissipò la maggior parte delle proprietà della nostra famiglia; ma era valente nel bere un bicchiere e nello scuotere dadi e nel guidare il suo scooter cromato da vero uomo alla moda.
Non so se il subentrato arciduca Guntram, principe di Toscana, fosse molto colpito dall'improvvisa scomparsa di mio padre, benché mia madre mi abbia detto che in quell'occasione fu sparsa qualche nobile lacrima. Ma queste non ci aiutarono in nulla, e tutto ciò che la moglie e i creditori trovarono in casa fu una borsa con novanta euro, che mia madre naturalmente prese insieme allo stemma di famiglia, il guardaroba di mio padre e il suo. Dopo aver caricato tutto su un camion di traslochi, si diresse verso Colle di Val d'Elsa. Il funerale fu organizzato agilmente, giacchè il monumento e la cappella in chiesa erano, purtroppo, tutto quanto rimaneva dei miei vasti possedimenti; perchè mio padre aveva venduto fino all'ultima porzione della proprietà a un certo Pacini, un avvocato. Ricevemmo quindi soltanto un gelido benvenuto nella nostra casa- che era diventata un luogo miserabile e squallido.
Mia madre decise che la miglior soluzione sarebbe stata di riparare presso la sua famiglia a Fontasciano, ed è là che arrivammo con una lussuosa berlina blu che portava scolpito un immenso stemma di famiglia dei Bellini sul retro: quindi, nonostante le divergenze passate, la mia mamma venne considerata subito dai parenti e dal resto del borgo come una persona di notevole ricchezza e di grande distinzione. Per un certo tempo, Anna Rita dettò legge a Fontasciano. Dava ordini ai servitori in qua e in là e insegnava loro ciò di cui avevano molto bisogno, vale a dire un po' di distinzione fiorentina. E il “Sbelluccio Ferrucci”, come io venivo chiamato dai parenti più colti, era trattato come un piccolo Lord; aveva per sé una cameriera e un paggio, e l'onesto nonno Marcello pagava loro lo stipendio. Mamma sistemò il nuovo alloggio con grande economia e considerevole gusto e mai, nonostante la povertà, venne meno la dignità che le era dovuta e che tutto il vicinato le tributava. D'altra parte, come si poteva rifiutare rispetto a una gentildonna che aveva vissuto a Poggibonsi, aveva frequentato la società più elegante ed era stata persino (come ella stessa dichiarava solennemente) presentata a Palazzo Comunale? Questa situazione le dava il diritto- che sembra essere largamente esercitato in Italia da quei nativi che lo posseggono -di guardare dall'alto in basso con disprezzo tutte le persone che non hanno avuto occasione di lasciare la penisola e di vivere per qualche tempo a giro per l'Europa. Inutile soffermarsi sulle malelingue di Fontasciano riguardanti i motivi che avevano portato la signora Bellini e il suo diletto figliuolo a ricorrere all'aiuto di quella famiglia Bacherozzi che anni prima era stata rinnegata: la televisione e i giornali della domenica non ci forniscono forse ogni settimana più freschi romanzi e pettegolezzi più interessanti? Basti dire che l'insopportabilità dei toni e degli argomenti rese impossibile qualsiasi tipo di convivenza e fu proprio mio nonno a congedare me e mia madre, non prima di aver donato lei la cospicua cifra di novantamila euro. Andammo ad abitare ad Agrestone e, tenendo conto della scarsità della nostra rendita, ci tenevamo su bene. Della mezza dozzina di famiglie che formavano la congregazione di Agrestone, non c'era nessuno che avesse un'aria tanto rispettabile quanto la mamma, la quale, benchè sempre vestita a lutto in memoria del defunto marito, badava che i suoi abiti fossero fatti in modo da dare alla sua bella persona il maggior risalto possibile. Ritengo che passasse almeno sei ore di ogni giorno della settimana a tagliarli, guarnirli e modificarli perché fossero sempre alla moda. Confesso che la mia camera all'Agrestone era molto piccola, ma noi ne tirammo su tutto il profitto possibile. Ho ricordato già l'albero genealogico della famiglia che era appeso nel salotto, mentre la mia cameretta ospitava alcuni dipinti sopravvissuti agli sperperi paterni e la camera da letto di mia madre finiva con l'assumere il ruolo di grande magazzino della moda del tempo. Al momento del pranzo, Massimo il domestico suonava regolarmente una grande campana e avevamo per bere una coppa d'argento per uno, e mia madre affermava, non a torto, che avevo dinanzi a me una bottiglia di chiaretto degna di qualsiasi altro signore del Granducato. Infatti, era così: per me e mia madre, la cantina riserbava sempre e soltanto le bottiglie più prestigiose. E il nonno Marcello, nonostante le dispute in famiglia, si accorse di questo fatto un giorno in cui venne per sua disgrazia ad Agrestone all'ora di pranzo e gustò quel nettare. Bisognava vedere come tesseva le lodi di quella bevanda e le smorfie che faceva! Era uno degli individui più simpatici, semplici e di buon carattere che mai siano vissuti, e passava volentieri qualche ora con mia madre quando era stanco della nonna Anna Emilia e della casa. Gli piacevo, diceva, molto più di qualcuno dei suoi tanti nipoti, e alla fine, dopo un paio d'anni, acconsentì a farmi rientrare a Fontasciano. Quanto a mia madre, però, mantenne risolutamente il giuramento e non volle mettervi più piede.
Proprio il giorno in cui tornai a Fontasciano si può dire, in un certo senso, che cominciassero i miei guai. Mio cugino, Daniele, un grosso mostro di diciannove anni (mi odiava e, ve lo posso garantire, lo ricambiavo con tutto il cuore), mi insultò a pranzo rinfacciandomi la povertà di mia madre, e fece ridere alle mie spalle tutte le ragazze della famiglia Bacherozzi e della servitù. Andammo così nelle stalle dove Daniele era solito accendersi, di nascosto, una sigaretta dopo pranzo; gli dissi tutto quello che pensavo di lui e ne seguì una lotta che durò almeno dieci minuti, durante i quali mi comportai da uomo e gli pestai l'occhio sinistro, benché a quel tempo io avessi solo dodici anni. Naturalmente egli mi battè, ma una sconfitta fa poca impressione a un ragazzo in quella giovane età, come io avevo già provato molte volte nelle mie battaglie con i monellacci di Agrestone, nessuno dei quali, durante quel periodo della mia vita, era in grado di starmi alla pari. Mio nonno fu molto soddisfatto quando seppe della mia prodezza; mia cugina Elvira portò il cotone e l'alcool per curarmi il naso e quella sera andai a casa con una bottiglia di vino rosso sullo stomaco, non poco orgoglioso di avere tenuto duro per tanto tempo contro Daniele. Da allora tornai quasi ogni giorno a Fontasciano; mio nonno mi comprò un puledro, mi portava con sé a cacciare lepri e uccelli e mi insegnò a tirare a volo. E alla fine fui liberato anche dalla persecuzione di Daniele, poiché suo fratello, Gabriele, ritornò dal Sant'Anna di Pisa e, siccome odiava il fratello maggiore (cosa che avviene di solito nelle famiglie del bel mondo), mi prese sotto la sua protezione. Da quel momento, poiché Gabriele era più grosso e forte di Daniele, io venni lasciato stare, salvo le volte in cui veniva a Gabriele la voglia di frustarmi, cosa che faceva ogni volta che lo riteneva conveniente.
La mia educazione non venne trascurata neppure nelle parti più superflue, e poiché avevo una non comune predisposizione per molte cose, presto superai in finezza la maggior parte delle persone che mi stavano intorno. Avevo orecchio ed una bella voce, che mia madre coltivava con cura, insegnandomi anche a ballare il minuetto con grazia e solennità e gettando così le fondamente del mio futuro successo nella vita. Imparai anche i balli volgari, e io venivo considerato senza rivali sia nella danza moderna che nel liscio. Per quanto riguarda la cultura libresca, ebbi sempre un gusto non comune per leggere tragedie e romanzi, che sono la parte fondamentale dell'educazione di un perfetto gentiluomo e mai lasciavo il paese senza aver acquistato almeno un paio di volumi. Per quanto riguarda, invece, grammatica, greco, latino e inglese, le feci mie sin dalla prima infanzia e dichiarai subito francamente che le avrei approfondite più avanti. Questa mia intenzione la mostrai in maniera abbastanza decisa all'età di tredici anni, quando mia madre spese quel centinaio di euro di tasse scolastiche per la mia educazione, decidendo di iscrivermi al Liceo Classico di Colle di Val d'Elsa, diretto all'epoca dal noto giurista Otello Pennabianchi. D'altro canto, mentre in italiano, latino, greco, inglese, storia, filosofia e geografia ero il primo della scuola, non riuscivo affatto ad eccellere nello studio della matematica e delle scienze, e dopo essere stato fustigato sette volte, senza che questo facesse fare il minimo progresso alla mia algebra, mi rifiutai di sottomettermi di nuovo, trovando la cosa perfettamente inutile, a un'ottava applicazione della frusta. <<Cercate qualche altro sistema, prof.>>, dissi al professore quando stava per scudisciarmi un'altra volta; ma egli non volle, e allora per difendermi gli tirai in testa la lavagna e lo colpii con un enorme tomo di geometria euclidea. A questo gesto i miei compagni si misero a strillare di gioia e da quel giorno il mio percorso scolastico fu solo in discesa. Non ero decisamente lo studente modello, una tipologia che ho sempre teso a denigrare con tutto me stesso. Infatti, ho incontrato nel mondo molti dotti topi di biblioteca, specialmente un'illustre coetanea, ora commercialista con gli occhi cisposi, di nome Monechi, che viveva in un cortile presso le Tre Grazie, a Colle; ebbene l'ho ridotta al silenzio, come sto per dirvi, nella mia aula scolastica; e in questo e nella poesia, e in quella che chiamo filosofia naturale, o scienza della vita, e nell'equitazione, nella musica, nel salto, nel tennis, nella conoscenza dei motori o nelle scommesse calcistiche, nel modo di fare di un perfetto gentiluomo e di un uomo di mondo, posso dire che, per quanto mi riguarda, Sbelluccio Bellini ha di rado trovato un eguale. <<Elisabetta>>, dissi alla signorina Monechi nell'occasione cui alludevo, <<credi di saperne molto più di me perché citi il tuo Aristotele e il tuo Ricardo, ma sai dirmi quale cavallo vincerà a Bagnaia la settimana prossima? Sai correre per mezzo chilometro senza ripigliare fiato? Sai mandare in buca sei palle di fila seguendo la progressione numerica? Se è così, parlami pure del tuo Aristotele e del tuo Ricardo>>. Ma sto divagando dalla mia storia e debbo, in conseguenza, tornare a casa, alla cara vecchia Italia.
Avevo fatto conoscenza, fin da allora, con la gente più ragguardevole della provincia e i miei modi, come ho detto, erano tali da poter stare alla pari con tutti loro. Forse vi meraviglierete che un ragazzo di campagna, quale io ero, educato tra piccoli proprietari toscani e i loro dipendenti di fattoria e fabbrichetta, potesse arrivare a possedere quel modo di fare così elegante che senza discussione mi viene da tutti riconosciuto. Ma il fatto è che ebbi un valente istruttore nella persona di uno studente rivoluzionario, che aveva fatto il servizio militare sulle Alpi assieme ai rampolli dell'aristocrazia francese, e che mi insegnò il ballo e le belle maniere, nonché un'infarinatura della lingua di quel paese, insieme con l'uso della carabina. Molte e molte volte ho camminato, da ragazzo, per un chilometro e mezzo al suo fianco, mentre egli mi narrava le meravigliose storie delle manifestazioni in Francia, della sinistra extraparlamentare, del compagno Fidel e dei gruppi hard rock delle nostre zone. Egli aveva anche conosciuto il cugino Luca Pisano e alcuni miei parenti e sapeva mille raffinatezze sulle più illustri famiglie del paese. Non ho mai conosciuto un ragazzo che potesse stargli a pari nel gioco del calcio, nel mettere a posto un'automobile, nel guidarla e nel saperla scegliere. Mi insegnava gli sport virili, a cominciare dalla caccia dei nidi, così che considererò sempre Pietrino come il miglior istitutore che abbia mai avuto. Il suo unico difetto era il bere, ma su questo ho sempre chiuso un occhio; odiava anche mio cugino Daniele come il veleno, ma anche su questo punto mi era facile scusarlo. Sotto la guida di Pietrino, all'età di quindici anni, ero un ragazzo molto meglio educato dei miei cugini, e credo che la Natura fosse stata anche più benigna verso la mia persona. Alcune ragazze di Agrestone, come presto racconterò, mi adoravano. Nelle discoteche e alle corse molte delle ragazze più carine presenti dicevano che mi avrebbero voluto avere come cavaliere. Eppure, bisogna che lo confessi, non ero molto popolare. In primo luogo, tutti sapevano che ero povero in canna; e credo che forse un po' di colpa l'avesse, in questo, la mia buona madre che mi aveva fatto troppo orgoglioso. Avevo l'abitudine di vantare, coi miei compagni, la mia nascita e la magnificenza del mio parco macchine, dei miei giardini, delle mie cantine, dei miei domestici, e questo davanti a gente che conosceva perfettamente la mia effettiva situazione. Se c'erano dei ragazzi che osavano pigliarmi in giro, dovevo picchiarli, a costo di morire. <<Difendi il tuo nome anche col sangue, Sbellu>>, mi diceva quella santa donna, con le lacrime agli occhi. Così quando avevo quindici anni non c'era più ragazzo, si può dire, al di sotto dei vent'anni in un raggio di dodici chilometri, che non avessi picchiato per una ragione o per un'altra. Potrei ricordare una ventina di prodezze da me compiute, se questi ricordi di pugilato non fossero argomenti troppo futili per parlarne davanti a gentiluomini e signore.
Fu sempre verso i quindici anni che presi a frequentare Laila, una volgare civetta piccolo borghese che da anni orbitava intorno ad Agrestone; ero un ragazzo ingenuo e passionale e non le nascosi i sentimenti che potevo provare, a quel tempo; così ella non potè fare a meno di accorgersi presto delle mie intenzioni e prese a trattarmi talvolta da bambino, talvolta da uomo. Mi piantava sempre in asso se, nella piazza del paese, vedeva passare il dottorino o addirittura il figlio del fattore. <<Dopo tutto>>, mi diceva, <<tu, Sbellu, hai soltanto quindici anni e non hai un euro al mondo>>. Allora le giuravo che sarei divenuto il più grande imprenditore che si fosse mai conosciuto fuori dal Granducato di Toscana e facevo la scommessa che, prima di aver raggiunto i vent'anni, avrei avuto abbastanza denaro per comprare un feudo sei volte più grande di Agrestone. Naturalmente non ho mantenuto nessuna di queste sciocche promesse; ma non vi è dubbio che esse ebbero molta influenza sui primi anni della mia vita e mi indussero a compiere quelle grandi azioni per cui sono divenuto celebre e che verranno ora ordinatamente narrate.
Voglio riportare, però, almeno un episodio, così che i lettori possano conoscere che razza di tipo era Sbelluccio Bellini e quale coraggio e indomita passione avesse in corpo. Non so se qualcuno dei giovani all'acqua di rose del giorno d'oggi avrebbe osato fare la metà di ciò che feci io di fronte al pericolo. Occorre premettere che in quel tempo l'Italia era in stato di grande eccitazione per la minaccia, che generalmente trovava credito, di un'invasione islamica. Si diceva che fosse stato meditato uno sbarco in Sicilia, e i nobili e la gente del popolo che erano in grado di farlo in tutte le parti del regno mostravano la loro fedeltà arruolando reggimenti di fanti e paracadutisti per resistere all'invasione. Fontasciano mandò una compagnia ad unirsi al reggimento di Siena, in cui era capitano mio cugino Daniele, e ricevemmo una lettera di Gabriele dal Sant'Anna, che raccontava come anche l'università avesse formato un reggimento, in cui egli aveva l'onore di essere caporale. Come li invidiavo entrambi! Soprattutto quell'odioso di Daniele, quando lo vedevo marciare alla testa dei suoi uomini nella sua giabba mimetica ricamata, con il basco amaranto. Lui, quella povera creatura priva di intelligenza, era capitano, ed io, niente! Io che sentivo di avere tanto coraggio quanto Giuseppe Garibaldi in persona, e che sapevo, per di più, che una giubba mimetica mi sarebbe stata tanto bene. Mia madre mi disse che ero troppo giovane per arruolarmi nel nuovo reggimento dei paracadutisti, ma il fatto era, in realtà, che lei era troppo povera e il costo dell'arruolamento avrebbe ingoiato almeno la metà della sua rendita di un anno, mentre avrebbe voluto che suo figlio facesse una figura degna della sua nascita, guidasse la migliore delle fuoriserie, fosse vestito con gli abiti migliori e frequentasse le compagnie più eleganti. Così dunque, mentre tutto il paese risuonava di rumori di guerra, le otto provincie rimbombavano di musiche militari e ogni uomo di merito si recava a rendere omaggio alle truppe della Difesa, io, perchè povero, ero costretto a restarmene a casa, in pigiama, a sospirare in segreto la gloria. Una volta gli ufficiali della Caserma Bandini di Siena diedero un grande ballo a Casetta, a cui, naturalmente, vennero invitate tutte le signore di Colle, che formavano il carico completo (e passabilmente brutto) di un servizio navetta messo a disposizione dal comune. Laila proclamò solennemente che andare chiusa negli autobus le faceva sempre male; così andammo insieme con la Jaguar di mio nonno fino a Casetta, e mi sentivo orgoglioso come un principe, poiché Laila mi aveva promesso di ballare con me tutta la notte. Ma appena arrivati, quell'ingrata civetta mi dichiarò di aver completamente dimenticato il suo impegno; e infatti aveva ballato tutto quel giro con un soldato pugliese. Ho sopportato molti tormenti nella mia vita, ma nessuno pari a quello. Cercò di farsi perdonare la sua trascuratezza, ma inutilmente. Ero troppo sconvolto per riuscire a divertirmi con le altre ragazze, e così restai solo, tutta la serata, in preda al più vivo spasimo. Avrei voluto giocare, ma non avevo denaro, tranne la moneta da due euro che mia madre mi faceva sempre portare nel portafoglio- senza spenderla -come deve fare un gentiluomo. Non avevo voglia di bere, e in quel tempo non conoscevo ancora l'amaro conforto che si prova con questo; ma pensavo di uccidermi, di uccidere Laila, e di fare altrettanto col capitano Tobino. Finalmente al mattino le danze ebbero fine. La maggior parte delle ragazze se ne andò con la prima corriera del giorno; Laila prese posto in macchina, cosa che le lasciai fare senza dire una parola. Dopo mezzo chilometro, ella iniziò a scusarsi, a giustificarsi e a pronunciare strane frasi, come <<A me non importa niente del capitano Tobino!>>, o ancora, <<Con te posso ballare ogni giorno!>>. Il mio umore subì un ulteriore peggioramento quando Laila aggiunse ad una delle sue giustificazioni le seguenti parole: <<Oltre a tutto questo, Sbellu, il capitano Tobino è un uomo e tu soltanto un ragazzo, e non hai neanche un euro!>>. Bestemmiai e dissi <<Se mai lo incontrerò ancora, vedrai chi è il migliore fra noi due. Lo sfiderò a pugni e a coltelli, per capitano che sia. Sfiderò ogni uomo ti si avvicini!>>. Di fronte alla mia romantica presa di posizione, Laila, che quella volta aveva voglia di ridere, continuò i suoi sarcasmi. Dichiarò che il capitano Tobino era già noto come valoroso soldato, che era famoso come uomo di mondo a Roma, e che poteva essere facile da parte di un Bellini qualsiasi parlare, vantarsi e battere compagni di classe e figli di contadini, ma sfidare un capitano dell'Esercito Italiano era una cosa molto diversa.
Per l'ora di pranzo tornai a casa, dove mi ammalai di una febbre che mi tenne a letto per sedici giorni; e quando lasciai il mio giaciglio ero molto cresciuto di statura, e ancora più violentemente era aumentata la mia passione, che era più forte di quanto avessi mai provato prima. Il mio risveglio era stato brillante, ma in casa mia potevo respirare un'aria bizzarra. Il fatto è che, durante gli ultimi giorni della mia malattia, si era installato ad Agrestone niente meno che il capitano Tobino, che stava corteggiando Laila in debita forma. Scesi in cortile, montai in automobile e in meno di cinque minuti ero nei pressi della cinta muraria che divideva il giardino di Laila dalla strada; aggrappandomi dove potevo riuscii a raggiungere la cima del muro di cinta alto tre metri. Da principio, notai un fuoristrada Iveco targato “EI” e un soldato semplice che lo stava lucidando; decisi di non scavalcare per andare a rompergli le ossa e sgonfiare le gomme al mezzo. Con un'agilità sconosciuta a tutti i miei coetanei non addestrati e senza farmi notare, percorsi il muro di cinta fino al limite della piccola proprietà, e fu lì che, nascosto dietro il tronco di una quercia, vidi Tobino e Laila che passeggiavono per il giardino insieme. Davanti a quello spettacolo, le ossa cominciarono a tremarmi violentemente e mi sentii tanto male che fui sul punto di cadere svenuto sull'erba, vicino all'albero cui mi ero appoggiato; poi raccolsi tutte le mie forze, mi diressi verso la coppia che stava camminando, aprii la lama del piccolo coltello col manico d'argento che portavo sempre nella tasca posteriore dei jeans, ben deciso a trapassare il corpo dei due delinquenti e a infilarli come bestie. Ebbi l'impressione che tutto il mondo mi crollasse sotto i piedi. Avevo un bracciale in falso oro rosa; Laila me l'aveva regalato e lo portavo sempre con me. Lo trassi dal polso e lo gettai in faccia al capitano Tobino, e mi precipitai su di lui col coltello sguainato. Gridando, lo presi per il collo, mentre Laila faceva echeggiare l'aria delle sue grida, al rumore delle quali il soldatino di piombo che avevo notato al cancello e Remo (un avido commerciante padre di Laila) si precipitarono verso di noi. Benchè fossi cresciuto come la gramigna durante la malattia e avessi quasi raggiunto la mia statura definitiva di un metro e ottantatre, ero soltanto un soldo di cacio in confronto all'enorme capitano pugliese, che aveva spalle e polpacci quali non può vantare neanche uno scaricatore del porto di Livorno. Quando gli saltai addosso, diventò prima tutto rosso, poi straordinariamente pallido, si divincolò e afferrò la Beretta calibro 38 nella fondina, allorché Laila, sopraffatta dal terrore, l'abbracciò gridando: <<Euge'!Fermo, lascia stare il bambino! Non lo vedi, è solo un ragazzino?>>.
<<Dovrebbe essere cinghiato, questo pezzo di merda!>>, disse il capitano, <<ma non avere paura, Lailina, non lo tocco, il tuo gigolò>>.
Così dicendo si chinò, raccolse il bracciale che recava le iniziali di Laila e, porgendoglielo, disse in tono sarcastico: <<Quando le ragazze fanno ai ragazzotti simili regali, è necessario che altri ragazzotti si ritirino>>.
Laila iniziò a giustificare il regalo che mi aveva fatto tempo addietro, ma inutilmente; Tobino poi tornò a prendersela col sottoscritto. <<Chiamerò un boia a farti un culo così, guaglioncello!>>, disse, <<e in quanto a te, Laila, ti dico “arrivederci e grazie”>>.
Si tolse il basco con ostentata cerimoniosità, fece un profondo inchino, ed era sul punto di andarsene, quando giunse mio cugino Daniele, che era passato con il resto del reggimento a reclutare alcuni ragazzi di Agrestone. <<Eugenio Tobino, ma cosa urli? Questa ragazza piange, mio cugino con un coltello in mano e te fai l'inchino?>>.
<<Te lo dico io cos'è successo, Dani! Ne ho abbastanza della signorina Laila e dei vostri modi di fare toscani. Non ci sono abituato!>>.
<<Bene, ma qual'è il problema?>>, disse mio cugino con buona grazia, perché era debitore a Tobino di una bella somma, <<Si può sempre sperare che adottiate i nostri modi, oppure che siamo noi ad adottare quelli meridionali>>.
<<Non è usanza meridionale che una ragazza abbia due innamorati, e così, Dani, ti sarò grato se mi pagherai la somma che mi devi, mentre declino ogni pretesa nei confronti di questa ragazzina. Se le piacciono gli studentelli, che se li prenda!>>.
<<Ohé, Eugenio, ma scherzi?>>, disse Daniele.
<<Non sono mai stato più serio in vita mia>>, rispose l'altro.


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