venerdì 14 dicembre 2012

Il manipolatore dell'anima [Trame]

PREMESSA

Visto che mi sono promesso di pubblicare almeno un racconto al mese, ho pensato a qualcosa di carattere natalizio, ma mi sono accorto di non avere mai scritto nulla a riguardo. Così, ho rovistato fra le cartelle più "polverose" del Mac, ripescando Il manipolatore dell'anima, presentato in occasione del concorso letterario Don Muzzi, indetto dalla Banca di Monteriggioni (ora Banca del Chianti o qualcosa del genere) nel 2008. Il tema del concorso di quell'anno era Io e gli altri. Lo scrissi in un paio d'ore in classe, in una mattina fredda come questa e con molta più rabbia in corpo. E vinsi.
Buona lettura.

IL MANIPOLATORE DELL'ANIMA


All’ultimo piano dell’ultimo palazzo dell’ultimo quartiere, nell’ultimo, estremo lembo del mondo conosciuto, la luce settembrina si rifletteva sulle finestre, chiuse a tutto ciò che potesse, in qualche modo, rassomigliare alla vita. Lucidai quattro bicchieri e li posai sul tavolo di noce al centro del salotto, sicuro che, di lì a poco, avrei ricevuto visite. La visita era per me un concetto piuttosto sbiadito, giacché i pochi amici di cui avevo deciso di circondarmi si erano trasferiti da tempo, alla ricerca della fortuna e della vita, nelle grandi città, lontano dalla costa sulla quale io risiedevo. I contatti con loro erano andati quasi totalmente persi, ma, ogni tanto, qualcuno si rifaceva vivo, fintamente desideroso di aggiornamenti sul mio stato emotivo e sul mio lavoro. Quasi sempre li sentivo ansiosi, preoccupati per me, che, in tutta franchezza, non avevo problemi di alcun tipo, né provavo invidia nei confronti di nessuno, essendo quasi privo di termini di paragone e di modelli migliori in cui potermi specchiare: semplicemente, ero voluto tornare nella casa che mi aveva visto nascere, alla ricerca dei suoni dell’infanzia, intimamente nascosti tra i flutti del Mediterraneo. Altrove non ero mai stato felice: lo dimostrava quell’atroce sensazione di smarrimento sociale in cui mi ero imbattuto sin dagli anni della scuola superiore e che, all’università, era andata accrescendosi in maniera preoccupante.

Allora frequentavo una facoltà di elettronica, scelta a causa dei miei istinti di manipolatore di suoni, e vivevo quotidianamente in bilico fra euforia e insofferenza, rifiutando ogni rapporto con i miei compagni. Quando mi accorsi che non potevo convivere neanche con me stesso, decisi di andarmene. Non mi ero neanche sforzato di legare con altri esseri umani, anche perché relazionarmi con cose o persone nuove significava alimentare sospetti troppo dannosi alla psiche. Scettico lo ero sempre stato, sin da bambino. Per il mio decimo compleanno ricevetti in regalo un pianoforte a coda, poiché i miei avevano già notato la mia predilezione per la musica; e non dimenticherò mai le loro facce mentre mi osservavano battere non sui tasti, ma direttamente sulle corde, apprezzando notevolmente il suono emesso: ora potevo fidarmi di lui. Un evento simile si verificò per i miei sedici anni, quando comperai il primo sintetizzatore, che non volli nemmeno provare, preferendo afferrare un cacciavite in garage per smontarlo e manomettere la sua logica interna. Come avevo fatto con questi strumenti, così mi piaceva comportarmi con la gente: la aprivo, tentando di adattarla perfettamente ai miei gusti, di manomettere la sua anima e il suo cervello. Quando capii di aver fallito in questi miei propositi, allora decisi che avevo chiuso con la socialità e che potevo ritirarmi, solo e senza alcun titolo di studio, a registrare suoni. Coloro che erano definibili miei amici risultavano essere, in realtà, delle splendide radio o televisioni, che mi tenevano aggiornato su quanto stava accadendo nel mondo intorno a me. Catalogavo in un archivio i loro nomi, i loro dati, una breve nota biografica e alcune foto; poi, quando ne avevo voglia, aprivo queste cartelle e davo dei voti da 1 a 5, congetturando su quale sarebbe stata la loro residenza ultramondana: Inferno, Purgatorio o Paradiso?
Scrissi su un’agenda i nomi dei miei ospiti di quella sera: persone di modesta levatura umana, ma ben piazzate nella società dalla quale ero fuggito. Provai una strana sensazione, come se stessi aspettando da anni questo momento. Mi sedetti, rigirandomi fra le mani l’Anabasi di Senofonte, sfogliai quel volume che avevo letto più volte in gioventù e mi accorsi, in quel preciso istante, che era da moltissimo tempo che non sentivo la mia voce. Socchiusi le labbra e iniziai a leggere: l’attenzione si posò interamente sul mio tono, sulla mia stessa voce, ignara di ciò che stavo dicendo. Il suono che emettevo mi stava entusiasmando, poiché avevo capito che, pur stando da solo, riuscivo a fare qualcosa che, solitamente, avevo sempre eseguito in compagnia. Ero felice e mi dimenticai quasi dell’impegno preso con gli amici. Misi da parte i nastri registrati che andavano accumulandosi nello studio, spolverai il piccolo busto in marmo di Bach, raddrizzai il ritratto di Peter Bruegel appeso alla parete del salotto e ordinai simmetricamente le sedie intorno al tavolo, dopodiché riposi sulle mensole i molti volumi sparsi per tutta la casa: mi passarono di fronte agli occhi Pascoli, Pasolini, Wittgenstein, Pennac, Musil, Sartre, Joyce, Ariosto e Petrarca, e li amai tutti, considerandoli i miei soli e veri amici. Per tre volte udii sonori battiti sulla porta e capii che gli ospiti erano arrivati. Per un attimo tornai alla realtà ma subito ripresi a immaginare: immaginai queste tre persone che mi tenevano compagnia per un tè, che mi pregavano di far loro visitare l’appartamento, che mi interrogavano sul perché di certi miei indumenti, che mi criticavano come un artista disturbato e disturbante, che mi definivano un eremita, che mi tempestavano di domande sul mio attuale lavoro, che mi raccontavano dei loro affari cittadini, che mi riferivano con pervertito divertimento dei loro esperimenti sessuali, che mi chiedevano come mai non trovassi una moglie, che mi consigliavano l’ultimo libro o l’ultima canzone. Allora mi accorsi che non avrei mai sopportato tutto questo. Preferii così fare finta di non esistere e non aprii.
Non avevo nulla contro di loro e non mi ero mai ritenuto un misantropo, ma semplicemente un individuo scontento di se stesso. Essi, invece, mi avrebbero parlato di una vita felice, calata per me in una società malsana, sbagliata, da rifare. Bevvi un po’ di vino bianco, sicuro che i miei ospiti non si sarebbero offesi per non essere stati ricevuti e che a casa avrebbero mangiato meglio che da me, per poi raccontare alle mogli quanto secondo loro fossi folle, perso, scontento, infelice. Andai a letto, cercando di capire cosa gli altri potessero provare pensando a me. Affiorarono idee troppo profonde da analizzare per un uomo che stava sprofondando nel mondo dei sogni. Liquidai la giornata, la vita e le amicizie con un terribile pensiero, ossia che l’universo è solo una casualità moralmente vuota e di inimmaginabile violenza.






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