IV.
NEL QUALE CERCO DI
TENERMI LONTANO
IL PIU'POSSIBILE DALLA
GLORIA MILITARE
Sono costretto ad
ammettere che dopo la morte del capitano Mangini, cominciai a
comportarmi nel peggiore dei modi e mi procurai una pessima
compagnia. Invece di conquistarmi la simpatia dei miei superiori,
pensavo soltanto al mezzo di rendermi la vita più facile e mi
attaccavo a tutti i diversivi e alle distrazioni che potevo. Scesi a
poco a poco a mescolarmi con gli altri sottufficiali e a condividere
i loro divertimenti. Bere e giocare erano i nostri passatempi
preferiti, e sarei sicuramente caduto nelle mani del demone del
saccheggio e delle droghe se fossi rimasto più a lungo
nell’esercito, ma accadde una cosa che mi fece allontanare dal
servizio militare in una maniera piuttosto originale.
L’anno in cui il
Cavaliere manifestò l’intenzione di ritirare le truppe italiane
dall’Iraq, il nostro reggimento ebbe l’onore di partecipare ad
alcune gloriose battaglie, in una delle quali io fui colpito da un
pesante mattone sulla testa e mi vidi ricoverato nell’infermeria di
campo, assieme ad una decina di soldati e un paio di ufficiali. Uno
di questi, il tenente Ferragni, milanese in tutto e per tutto, era
messo veramente male e aspettava solo che un chirurgo più esperto
arrivasse con un elicottero per poter amputare un arto di cui
rimaneva ben poco. Io fingevo di essere impazzito in seguito al colpo
ricevuto in testa, e, con i pochi mezzi a disposizione
nell’infermeria, nessuno dei presenti poteva comprovare la mia
condizione. Così, scesa la notte, sgattaiolai fino alla branda del
povero Ferragni, estrassi il coltello dalla fondina della mia
uniforme e glielo puntai alla gola.
<<Gvande
figlio di puttana!>>, furono i suoi primi sussurri quando,
stancamente, aprì gli occhi, <<Aspetta che ti vibecchi
e anche con una gamba sola tvovevò il modo di
ammazzavti!>>, e seguirono alcune bestemmie.
Gli spiegai che avevo
deciso di promuovermi e pretesi che egli mi avrebbe lasciato prendere
la sua borsa, la sua uniforme e i suoi documenti di riconoscimento,
altrimenti a nulla sarebbe servito l’imminente intervento del
dottore. Per risultare ancora più credibile, afferrai velocemente un
mitragliatore e alcune munizioni, dopodiché lo imbavagliai e lo
ammanettai alla branda.
Provai un gran senso di
sollievo quando, uscito dall’infermeria, notai la presenza di due
sole guardie; il mio reggimento aveva lasciato il campo alcune ore
prima, diretto verso la capitale di quel maledetto paese, e i soldati
rimasti in quella retrovia si contavano sulle punte delle dita. Feci
un cenno ad un alpino che non avevo mai visto da quelle parti.
<<Sono il tenente,
Fevvagni>>, dissi tirando fuori un buffo accento
milanese,<<Ho appena vicevuto il comando di lasciave
il campo e povtave documenti dei Sevvizi Segveti
a Nassivya. Dovveste munivmi di una macchina>>.
In cinque minuti, il mio
Land Rover blindato sfrecciava attraverso il deserto a tutta
velocità; guardai nello specchietto retrovisore scomparire le ultime
luci dell’accampamento. Dopo un’ora buona mi fermai e, datomi
un’occhiata attorno, cosparsi la mia divisa con un po’ di alcool
etilico e le detti fuoco. Rimasi a gustarmi lo spettacolo per alcuni
minuti, prima di ripartire. Avendo ammesso di essere diretto a
Nassirya, presi tutt’altra direzione; spensi il satellitare, col
quale sarebbe stato assai comodo per i miei commilitoni
rintracciarmi, e decisi di aiutarmi solo con le mappe cartacee. Nel
portaoggetti trovai dei sigari toscani spezzati, me ne accesi uno e
osservai sorgere il sole sul deserto. Sentivo di essere ad un livello
che mi si addiceva ed ero fermamente convinto a non decadere mai più
dal rango di gentiluomo.
Nella tarda mattinata
arrivai ad uno sperduto villaggio di pastori, non lontano da
al-Najaf, città dalla quale sarei voluto andare diritto al confine
con l’Arabia Saudita, e poi verso il caro vecchio continente. Fu lì
che venni gentilmente fermato da un contingente di militari inglesi,
presso i quali mi spacciai senza intoppi per il tenente Ferragni
dell’Esercito Italiano. Conoscevo molto bene la loro lingua e ciò
rafforzò non poco la mia credibilità. Le mie credenziali, sebbene
non munite di una foto di riconoscimento, non lasciarono dubbio
alcuno, ma i soldati che mi avevano interrogato decisero comunque di
contattare il capitano Walport, loro ufficiale. Questo gran pezzo di
gentiluomo era un marmittone sui sessant’anni, e i racconti bellici
che lo riguardavano erano giunti, seppur romanzati e arricchiti,
anche alle orecchie della mia guarnigione.
Andò a finire che fui
costretto a parcheggiare il mio fuoristrada e fermarmi a pranzo con
Walport ed altri dieci ufficiali, anziani quanto se non più del mio
ospite. Gli inglesi, da bravi colonizzatori esperti, si erano
stabiliti in uno dei più sontuosi palazzi della città, e lì
consumai un pasto che mi riportò alla mente le prelibatezze del
Natale al mio paese lontano. Furono stappate ottime bottiglie di vino
rosso e bianco, quasi tutte francesi, e mi furono dedicati svariati
brindisi. Nonostante la raffinatezza della compagnia e la cultura di
tutti i presenti, era soprattutto Walport a mostrarmi ogni genere di
gentilezza e a subissarmi di domande su Milano, che, per i documenti
che avevo in tasca, risultava essere la mia città; e io rispondevo
meglio che potevo. Ma questo meglio, devo ammetterlo, era piuttosto
mediocre. Non sapevo niente di Milano, dei signori del castello
sforzesco e delle famiglie nobili di lassù, ma spinto dalla
vanagloria e dalle tendenze che avevo in quei tempi di vantarmi e di
parlare in modo non sempre aderente alla verità, inventai mille
storie. Gli descrissi il sindaco e i ministri nativi di lassù, dissi
che l’ambasciatore italiano a Londra era mio zio, e arrivai,
addirittura, a promettere al mio amico una lettera di raccomandazione
per lui. Quando l’ufficiale mi chiese il nome di mio zio, non ero
in grado di dargli il nome vero, e, maledicendo il mio errore, gli
dissi che si chiamava Ferragni, esattamente come me. Quanto alle
storie sul mio reggimento, naturalmente, non mancavano.
La mattina seguente avrei
lasciato al-Najaf e, scusandomi, dissi al mio amico Walport e a tutti
i presenti che mi sarei ritirato. Ma l’austero ufficiale, mi invitò
a sedermi nuovamente e riempì di nuovo il mio bicchiere con
dell’ottimo brandy. Non volevo apparire scortese e accettai con un
largo sorriso il suo invito; mi osservò bere un sorso il liquore e
toccandosi i baffi mi domandò: <<A quale membro dei servizi
segreti deve portare quei dispacci, tenente?>>.
<<All’agente
Garrone>>, risposi prontamente, riportando alla memoria un
tizio in giacca e cravatta che aveva fatto capolino al nostro
accampamento l’anno prima. A queste parole Walport scoppiò in una
fragorosa risata e, schioccando rumorosamente le dita, fece
avvicinare una guardia che non aveva mai lasciato la sala e ordinò
di arrestarmi seduta stante.
<<Signore>>,
replicai, <<Sono un’ufficiale italiano>>.
<<Lei è un
impostore, un bugiardo e un disertore. L’ho capito in queste ultime
tre ore e l’ho sospettato da quando mi è giunta la notizia del suo
arrivo stamani. Abbiamo saputo che un uomo è fuggito da un campo
italiano e io ho subito pensato che quell’uomo fosse lei. Le sue
menzogne e le sue stronzate me lo hanno confermato. Ha la pretesa di
portare dispacci ad un agente che è morto da dieci mesi. Deve
raggiungere una città che è nella direzione opposta a quella in cui
si trova. E come se non bastasse, ha uno zio ambasciatore a Londra
che risponde all’assurdo nome di Ferragni. Ti vuoi unire a noi come
mercenario, o vuoi essere riconsegnato ai tuoi?>>
<<Consideratemi
arruolato, sir>>, risposi.
Potrei raccontare molte storie sull’esercito, ma essendo stato io stesso soldato, tutte le mie simpatie sono per la truppa e senza dubbio si direbbe che i miei discorsi hanno tendenze immorali e farò quindi meglio ad essere breve. Non voglio fare alcun romantico racconto della Guerra in Iraq, alla fine della quale, l’esercito di sua maestà britannica, tanto rinomato per il suo disciplinato valore, aveva come ufficiali e sottufficiali dei nativi del Regno Unito, è vero, ma era composto anche da uomini arruolati o rapiti, come me, da quasi tutte le nazioni di Europa. La vita che conduceva il soldato semplice era spaventosa, per qualsiasi persona che non avesse coraggio e resistenza di ferro. I castighi erano incessanti e ogni ufficiale aveva la facoltà di infliggerli. Non ho inoltre intenzione di fare la storia delle battaglie combattute dagli inglesi più di quanto ne abbia avuta di fare quelle sostenute al servizio dell’Italia. Feci il mio dovere in queste come in quelle, ed ebbi la furbizia di distinguermi durante l’assedio finale a Baghdad, dove salvai la vita al capitano Walport e uccisi uno dei più fidi collaboratori di Saddam.
Potrei raccontare molte storie sull’esercito, ma essendo stato io stesso soldato, tutte le mie simpatie sono per la truppa e senza dubbio si direbbe che i miei discorsi hanno tendenze immorali e farò quindi meglio ad essere breve. Non voglio fare alcun romantico racconto della Guerra in Iraq, alla fine della quale, l’esercito di sua maestà britannica, tanto rinomato per il suo disciplinato valore, aveva come ufficiali e sottufficiali dei nativi del Regno Unito, è vero, ma era composto anche da uomini arruolati o rapiti, come me, da quasi tutte le nazioni di Europa. La vita che conduceva il soldato semplice era spaventosa, per qualsiasi persona che non avesse coraggio e resistenza di ferro. I castighi erano incessanti e ogni ufficiale aveva la facoltà di infliggerli. Non ho inoltre intenzione di fare la storia delle battaglie combattute dagli inglesi più di quanto ne abbia avuta di fare quelle sostenute al servizio dell’Italia. Feci il mio dovere in queste come in quelle, ed ebbi la furbizia di distinguermi durante l’assedio finale a Baghdad, dove salvai la vita al capitano Walport e uccisi uno dei più fidi collaboratori di Saddam.
Fu allora che il generale
Murphy, comandante del mio reggimento e figura straordinariamente
vicina a Sua Maestà, mi diede due medaglie d'oro al valore davanti
alla truppa schierata, e mi disse: <<Ora ti do questa
ricompensa; ma temo che un giorno o l'altro finirai male>>.
Giocai quelle medaglie e
quel denaro che avevo raccolto fra i cadaveri durante l'assedio,
spendendo fino all'ultimo centesimo, e fino a quando la guerra finì
non fui mai senza almeno un dollaro nel portafogli.
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