X.
FACCIO
LA CORTE ALLA CONTESSA CLELIA,
ELARGISCO
NOBILTA'ALLA MIA FAMIGLIA
E
RAGGIUNGO IL CULMINE DELLA MIA (APPARENTE) FORTUNA
Dato che i debiti e certi
pendenti penali gravavano ancora sull'esistenza di Luca Pisano,
sarebbe stato poco opportuno per lui raggiungere il sottoscritto
nella terra dei nostri avi dove, se non l'arresto, almeno un
fastidioso processo, gli avvocati e un dubbio perdono aspettavano
quel vecchio signore. In ogni importante crisi della mia vita da
adulto, le sue dritte erano state sempre importantissime e io non
mancai di andarne in cerca in quel frangente e di implorare, per
mail, i suoi consigli in quel che concerneva il mio corteggiamento
alla vedova. Gli raccontai la situazione in cui ella si trovava, i
progressi che il notaio Catella aveva fatto nel suo affetto e l'oblio
in cui ella aveva posto il suo vecchio ammiratore; parlai del
suicidio del suddetto notaio, adducendone le cause a motivi
passionali, ricevendo in risposta una e-mail piena di eccellenti
suggerimenti, di cui non mancai di approfittare.
Monsieur de Rabelais apriva la
lettera dicendo che in quel momento si trovava nel convento dei Frati
Minori di Bruges, dove sperava di trovare la sua salvezza e di
ritirarsi per sempre dal mondo, dedicandosi alle più severe pratiche
religiose. Contemporaneamente, mi scriveva riguardo la contessa: era
naturale che una bella donna, fra l'altro piena di soldi e inserita
nel bel mondo, attirasse file di pretendenti come il miele fa con le
api. Ma poiché, quando suo marito era ancora in vita, si era
mostrata non del tutto maldisposta a ricevere i miei omaggi, non
poteva avere dubbi che io fossi il favorito. Tralascio le lunghe
descrizioni delle mortificazioni e delle devozioni a cui il buon
cugino di Pisa si dedicava in convento, dal quale indirizzava perfino
a me parole toccanti e intrise di fede.
Attendendomi alle direttive del
novello fra'Luca, spedii un sms alla contessa, per chiederle quando
avrei potuto intromettermi nel suo lutto, ma lei non rispose. Un paio
di giorni dopo un altro messaggio servì a chiederle se aveva forse
dimenticato i tempi trascorsi a Maiorca, ma nulla. Fu dopo cinque,
interminabili giorni che il segretario di Clelia mi telefonò,
affermando che la contessa era ancora troppo sconvolta e turbata per
vedere chicchessia, all'infuori dei suoi parenti. Non mi detti per
vinto e, piuttosto che insistere con volgari pressioni, decisi di
aspettare, avessero dovuto sbiancarmi i capelli. Per cominciare, feci
i bagagli, licenziai la mia fida guardia del corpo e presi commiato
dal conte X, che tanto gentilmente mi aveva ospitato per quelle due
bizzarre settimane. Braccato da alcuni articolisti di un gazzettino
locale, risposi alle loro domande parlando di una fuga dalla
città, sperando che la notizia raggiungesse anche la provincia di
Firenze e giungesse alle orecchie della contessa di Monteverde; in
realtà, mi allontanai di circa venti chilometri, stabilendomi dalla
mia buona madre ad Agrestone.
Quei lettori che hanno in mente
un forte senso del dovere filiale, si meraviglieranno che io non
abbia ancora descritto l'incontro con mia madre, i cui sacrifici per
me in giovinezza erano stati così notevoli, e per la quale un uomo
della mia natura non poteva fare a meno di provare il più durevole e
sincero riguardo. Ma un signore che agisce nell'alta sfera della
società in cui ora mi trovavo io, ha i suoi doveri pubblici da
compiere prima di pensare ai suoi sentimenti privati; sicché, appena
giunto, inviai un messaggino alla vedova Bellini, annunciandole il
mio arrivo. Mi risulta che la mia cara mamma preparò un party come
non ne se ne vedevano da tempo e invitò a parteciparvi tutte le sue
umili conoscenze di Agrestone; io, pur apprezzando il gesto, non
avevo voglia di scendere a tavola con una nobiltà ancor più gretta
e odiosa di quella in cui mi ero imbattuto a Siena e, scusandomi
umilmente, mi detti malato. Cercai di addolcire il disappunto di
mamma mandandole dei fiori freschi e una pelliccia che feci arrivare
direttamente da Grosseto. Quella cara donna, nonostante dodici anni
di lontananza, malinconia e precarietà d'ogni tipo, sembrava ancora
giovane e fresca, ed era pronta, ora che il suo delfino viveva di
nuovo nella casa degli avi, a viziarmi e coccolarmi come quando ero
piccolo.
Il primo momento di tensione fra
me e mamma lo si ebbe quando Daniele, che nella sua infinita umiltà
mi era stato accanto nei giorni senesi, provò ad avvicinarsi a casa
nostra. Fu cacciato e mia madre giurò che avrebbe rinnegato lui e
tutti i poveri diavoli rimasti vivi in quello che un tempo era stato
un nobile casato, quello dei Bacherozzi. Alla seconda occasione,
invece, fui io ad alterarmi: infatti, don Simone, guida spirituale di
mia madre, fu la sola persona alla quale venne aperta la porta di
Agrestone durante il mio soggiorno, perché non avrebbe ammesso
dinieghi. Egli si preparò un bicchiere di vino rosso, dandomi così
l'impressione che avesse l'abitudine di bere a spese della mia buona
madre; borbottava e mi parlava, con tono di rimprovero, della
peccaminosità dei miei passati trascorsi e specialmente della mia
attività di giocatore.
<<Peccatore!>>, dissi
balzando in piedi di fronte al prete impietrito,<<Certo, siamo
tutti peccatori, don Simone, e proprio voi lo andate dicendo a giro
da quando siete nato. Mettetevi nei miei panni e provatevi a
comportare in maniera diversa!>>. E alla lista dei miei peccati
ne volli aggiungere altri: omicidi, sciacallaggio, regolamenti di
conti, donne sposate, donne libere, donnacce. Il buon uomo raccolse
le sue cose e uscì dalla porta sul retro mentre io lo seguivo
urlandogli alle spalle tutti i mali che avevo commesso negli ultimi
dieci anni. Almeno ad Agrestone, nessuno rivide più don Simone.
<<Avrei voluto, Sbellu, che
tu ti trattenessi di più con la tua povera mamma>>, disse la
vedova mentre si asciugava le lacrime, al mattino seguente. Avevo
infatti deciso di ripartire il prima possibile e, con un paio di ore
di macchina, avrei raggiunto la tenuta dei Monteverde per pranzo.
Promisi che sarei tornato a trovarla nel giro di poco, portandole le
foto della mia casa e della mia futura moglie.
<<E chi sarebbe?>>,
chiese mamma incuriosita.
<<Una delle più belle e
ricche nobildonne del regno, mammina mia>>, risposi; e con
queste speranze lasciai Agrestone.
Pontassieve è un paese di
ventimila anime e sorge a circa undici chilometri dal capoluogo del
Granducato; la splendida tenuta di Castel Sant'Andrea apparteneva
alla famiglia della contessa da almeno cinquecento anni e sorgeva
poco fuori città, arroccata su un poggio. La mia Audì fu lasciata
su uno spiazzo indicatomi da un anziano chaffeur, che ebbe la
gentilezza di accompagnarmi fino alle stanze dove la contessa aveva
da poco finito il suo pranzo. Mi imbattei in Pardo, che fu molto
cordiale con me, e nel piccolo bisconte, che continuava a nutrire nei
miei confronti un astio inspiegabile. Bussai alla porta della sala da
pranzo e rifiutai che una domestica brutta e sgraziata mi
presentasse.
<<Avanti!>>, disse la
mia Clelia quasi sussurrando.
Uscii da quella stanza meno di
due ore dopo, durante le quali avevo riversato parole su parole
sull'attonita vedova, stando dritto davanti a lei e dominandola con
la mia statura, affascinandola col balenare dei miei occhi; lei
diventava rossa, poi sbiancava per il timore e la meraviglia, e io,
in tutto questo gioco di sensazioni, constatavo con calma trionfale
il dominio che andavo assumendo su di lei. Mi invitò ad uscire
ringraziandomi di quella visita e domandando se di incontri analoghi
se ne sarebbero tenuti altri.
<<E chi lo sa...>>,
dissi.
Quando scesi lasciai mille euro
in contanti allo chaffeur che, da bravo factotum, mi aprì la
porta.
<<E'per compensarvi del
disturbo di aprirmi la porta. Dovrete farlo spesso>>.
Il giorno dopo, quando ritornai,
non andò altrettanto bene; mi fu rifiutato l'ingresso. La signora
non era in casa! Sapevo che non era vero: avevo tenuto d'occhio tutta
la mattina la porta principale da una camera che avevo preso in
affitto nella casa dall'altra parte della strada dove sorgeva il
castello. Mi attaccai al telefono e presi ad urlare:
<<La vostra padrona non è
fuori di casa. Non mi raccontate stronzate!>>, dissi.
La cuoca mi passò, alla quarta
telefonata, il mio amico chaffeur, che mi invitò a
raggiungerlo nella rimessa.
<<Patti chiari, amicizia
lunga>>, iniziò, <<Io so tutto della contessa, signor
Bellini. Se lei vuole sapere, deve pagare>>.
Inizialmente pensai di prendere
un piede di porco e aprire la testa a questo strozzino, ma non mi
sentivo in una posizione pienamente favorevole, così decisi di
mostrarmi accondiscendente e srotolai una mazzetta di pezzi gialli.
Seppi così che Clelia si era recata, incappucciata e vestita come
una donna di servizio (ecco perché non l'avevo notata quella
mattina), da una chiromante che abitava a Rignano sull'Arno.
<<La contessa visita quella
strega due volte a settimana. È l'analista che non ha mai trovato,
il prete confessore che non ha mai voluto avvicinare, un po' per
vergogna, un po' perché non crede tantissimo in queste cose>>.
<<E quando si terrà il
prossimo appuntamento?>>, domandai spazientito.
<<Lunedì prossimo>>,
rispose lo chaffeur.
Aggiungendo altri duecento euro,
ottenni l'indirizzo della chiromante e me ne andai, maledicendo la
servitù di tutto il mondo.
La signora Mara, negromante che
aveva fatto di Rignano il suo impero, era una figura assai nota alle
cronache per alcuni problemi avuti, quando conduceva un noto
programma televisivo, con la giustizia. Da allora aveva cercato di
ripartire da zero, riuscendo perfettamente nei suoi intenti e
ottenendo la fiducia (e le borse) di molte donne toscane, fossero
queste di ceto basso o di ceto alto. Clelia, come molte altre
distintissime nobildonne dell'epoca, si era lasciata invaghire da
questa strega e non era più riuscita a smettere di andare alle
sedute; io, avendo conosciuto nei miei viaggi decine di truffatori e
simili, non mi feci ammaliare. Le chiesi quanto guadagnava con le
otto sedute mensili della contessa e lei rispose senza eccedere; le
offrii due volte quella somma, ma doveva promettermi che avrebbe
fatto il mio nome nel leggere il futuro di Clelia.
Fu così che Mara non mancò di
riconoscere come futuro marito della contessa di Monteverde il suo
perseverante adoratore Sbelluccio Bellini.
Notevolmente infastidita da
questo pronostico, Clelia fu sommersa da dubbi e paure sul mio conto
e decise di ritardare ancora il momento della decisione. Io, da parte
mia, stanco del clima che respiravo forzatamente a Pontassieve,
iniziai a farmi venire idee assai malsane: sapevo che in quelle zone
collinari selvagge e pericolose, si muovevano dei mascalzoni
gentiluomini, i quali, su commissione, convincevano le persone a
sposarsi con o senza il loro consenso o quello dei genitori. Chi
fosse a capo di questa pittoresca organizzazione nessuno sembrava
saperlo e tentare di mettersi in contatto con qualsiasi affiliato
rappresentò, per me, solo una grande perdita di tempo.
La svolta fu quando, finalmente,
la contessa decise di dimettersi da inconsolabile vedova e di
togliere le tende da Pontassieve. Fu per me un sollievo lasciare quei
luoghi tetri e desolati, e l'inverno alle porte avrebbe senz'altro
peggiorato la situazione; inoltre, sganciai gli ultimi duecento euro
al caro chaffeur, che mi descrisse minuziosamente gli
imminenti movimenti della sua padrona.
<<Partirà con la macchina
grande e farà un giro di lontani parenti del Valdarno. Lei deve
calcolare almeno una settimana di giri, cene e ospitalità varie. Poi
andrà sicuramente a Firenze, dove la potrete rintracciare in via del
Proconsolo. Vive lì, in un appartamento appartenuto al marito>>.
E, ovviamente, la prima persona
che Clelia trovò sotto casa in via del Proconsolo meno di otto
giorni dopo fui io. Mi ero mosso con largo anticipo e avevo preso un
bell'appartamento in via Ghibellina, con tanto di servizio di
sorveglianza, che mi era stato fornito grazie ad una vecchia
conoscenza pratese. Visto che la contessa non poteva sapere che il
distinto Walter era ai miei servigi, lo incaricai di recarsi dal
portiere del palazzo della vedova e di rilasciargli, ogni giorno,
laute mance, in cambio di informazioni su ogni novità. La mia
reputazione mi aveva preceduto anche a Firenze, tanto che, al mio
arrivo, una quantità di nobili erano pronti a ricevermi alle loro
riunioni mondane.
Noi non abbiamo idea, in
quest'epoca monotona e volgare, di quanto gaia e splendida fosse
Firenze allora e che passione per la belle vie ci fosse tra
giovani e vecchi, maschi e femmine; quante migliaia di euro girassero
in una notte; quali bellezze ci fossero. Era di moda vivere allo
sbaraglio. Che piacevoli tempi, e felice colui che aveva entusiasmo,
carattere e denaro per poter vivere appieno quel periodo. Io avevo
tutto questo e i vecchi frequentatori di <<Yab>>, <<Colle
Bereto>>, <<Gilli>> e <<Tenax>>
potrebbero raccontare un bel mucchio di storie sul coraggio, lo
spirito e l'eleganza del signor Bellini.
Lo svolgimento di una storia
d'amore è tedioso per tutti coloro che non vi hanno parte e io
lascio questi argomenti ai poveri scrittori di romanzi new epic,
new romantic e alle signorine palazzinare per cui essi li
scrivono. Non è mia intenzione seguire qui passo passo gli incidenti
del mio corteggiamento o narrare tutte le difficoltà che dovetti
affrontare e il mio trionfale modo di superarle. Se un uomo ha
abilità e perseveranza sufficienti, può convertire l'indifferenza e
l'avversione in amore. Mi basterà dunque dire che, poco dopo il mio
arrivo nel capoluogo, avevo trovato il modo per farmi ricevere in
casa della contessa, e le sue amiche, le serve e tutti coloro che
attraversavano ogni giorno via del Proconsolo parlavano continuamente
in mio favore, magnificando la mia reputazione e lodando il mio
stile, il mio successo e la mia popolarità nel mondo.
Un giorno mi recai da Clelia a
prendere il caffè, verso le quattordici, e rimasi meravigliato
dell'assenza delle sue amiche, di Pardo e del piccolo bisconte; un
silenzio irreale regnava su quel maestoso appartamento dai soffitti
altissimi. Lei mi fece accomodare e, senza proferire parola, mi porse
la tazzina. E sorrise. Fu allora che capii che sarebbe stata la donna
della mia vita.
Così, a un anno di distanza dal
nostro primo incontro, io ebbi l'onore di condurre all'altare Clelia,
contessa di Monteverde, vedova del defunto molto onorevole Sor
Filippo Teobaldo di Monteverde. La cerimonia fu celebrata nella
chiesa di Santa Maria de'Servi, a Siena, dal reverendo Luis Pardo,
cappellano della contessa. Furono dati un rinfresco pantagruelico e
una serata a base di musica e gioco in un'antica colonica di Ville di
Corsano e la mattina dopo, alla mia levée, ebbi da incontrare
un duca, quattro conti, tre ufficiali e una folla dei personaggi più
distinti del Granducato e, più in generale, d'Italia. Remigio, un
comico all'epoca molto famoso, compose una satira sul matrimonio
(pubblicata, la settimana seguente, da <<Vanity Fair>>) e
Fonzie non risparmiò arguzie a <<Chi>>. Quanto al
giovane bisconte, era ormai un ragazzino e quando fu invitato dalla
contessa ad abbracciare il suo papà, mi scosse il pugno davanti al
viso e disse: <<Lui mio padre? Chiamerei piuttosto papà
uno dei nostri domestici!>>. Ma io potevo permettermi di ridere
dell'ira del ragazzo (ed è ciò che feci) e di tutti i begli spiriti
dei nostri illustri invitati. Mandai uno scintillante resoconto delle
nostre nozze a mia madre (ella, purtroppo, si era ammalata ed era
stata costretta a letto) e al cugino Luca; quindi, essendo giunto
all'apice della prosperità e avendo raggiunto, a trent'anni, una
delle più alte posizioni sociali che un uomo possa occupare in
Italia, decisi di godermela da uomo di alto rango per tutto il resto
della mia vita.
Un paio di giorni dopo la
cerimonia, io e la mia signora ci recammo a visitare le nostre
proprietà fuori dal Granducato; lasciammo Siena in un Jeep “Grand
Cherokee” nuovo di zecca e due auto di scorta, sulle quali avevo
fatto apporre il simbolo della mia nobile famiglia. Prima di lasciare
Siena, tuttavia, mi procurai da il Cavaliere il grazioso permesso di
aggiungere il nome della mia gentile signora al mio e assunsi quindi
il nome e il titolo di Sbelluccio Bellini di Monteverde.
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