VIII.
ALTRI
GIRI DELLA FORTUNA,
GRAZIE
AI QUALI CONTINUO
LA
MIA CARRIERA DI UOMO DI MONDO
Mentre scrivo ho i reumatismi, la
bronchite e il fegato fuori sesto. Ho due o tre ferite sul corpo che
mi fanno male e ogni tanto mi danno un dolore insopportabile, e cento
altri sintomi di prossima fine. Questi sono gli effetti del tempo,
della malattia e della vita libera su una delle costituzioni più
robuste e dei corpi più belli che si siano mai visti al mondo. Non
soffrivo di nessuna di queste malattie, quando in Europa non vi era
nessuno di spirito più allegro e più splendido di Sbelluccio
Bellini.
All'epoca, io e Luca Pisano
visitavamo i più esclusivi centri di vita notturna del continente,
in particolare quelli degli staterelli dove il gioco era incoraggiato
e i professori di quella scienza erano sempre i benvenuti. Nei
principati di Monaco e del Lichtenstein eravamo particolarmente ben
ricevuti. Non ho mai conosciuto corti più allegre e più belle, dove
avevamo trovato più divertimenti e splendore che a Berlino, e di
gran lunga di più che a Londra, la mia maledetta corte-caserma. I
caratteristici palazzi affacciati sui canali dei Paesi Bassi erano,
parimenti, un luogo ideale per noi marinai del dado e devoti clienti
della traghettatrice Fortuna; d'altro canto, nella assolata Spagna o
nelle micragnose Isole Faer Øer, era impossibile che un galantuomo
si guadagnasse la vita senza venire molestato.
Dopo diciotto mesi di vita
vagabonda, di cambi repentini di disponibilità economiche, di lingue
e, in casi disperati, di identità, trovammo nella ridente Svizzera
un luogo accogliente con noi formidabili giocatori incalliti. Fummo
ospiti del nobile duca Becich, un signore come non ne esistono più
al mondo. Questi aveva fatto fortuna con una sua piccola azienda
tessile in Francia e poi in Italia, dove era riuscito ad acquistare
il titolo di duca e a farlo poi valere in patria; là aveva
ingigantito la sua fortuna in maniera memorabile, fondando uno studio
di consulenze che lo faceva guadagnare in borsa i veri milioni. A
poco più di quarant'anni, aveva preso moglie e si era trasferito dal
centro di Ginevra in una sorta di reggia sull'omonimo lago, attorno
alla quale aveva fatto edificare un piccolo borgo, composto da
palazzine che ospitavano la servitù, i funzionari e i dipendenti del
suo ufficio. Così, saggiamente, egli viveva in una sorta di
splendido isolamento e mostrava di rado il suo volto in città, né
era solito cercare persone fuori dalla sua proprietà. Il suo palazzo
e i giardini erano stati pensati sullo stile settecentesco francese
ed egli organizzava in ogni minimo dettaglio le due cene di alta
società settimanali e le due serate improntate a discoteca mensili.
Per quest'ultime, il duca, grande amante della musica e della danza,
spendeva somme prodigiose. La settimana ducale era così composta: la
prima delle due cene sovracitate si teneva il mercoledì, la seconda
la domenica; il lunedì era giorno di riposo, mentre i restanti
vedevano il tavolo da gioco come principale attrazione. Fu proprio un
martedì quando io e Luca, sistemati a dovere in un palazzo del duca,
fummo ricevuti con tutti gli onori al tavolo verde, con attorno la
nobiltà locale che dichiarava che la nostra reputazione ci aveva
preceduti. La prima notte perdemmo settantaquattromila dei nostri
ottantamila euro, ma la sera seguente, al tavolo con un dentista di
Lugano, io ripresi gli ottantamila e ne vinsi altri milletrecento.
Potete esser sicuri che facemmo in modo che nessuno si accorgesse
quanto eravamo stati vicini alla rovina la sera prima; ma grazie al
mio elegante modo di perdere ero riuscito a guadagnare la simpatia di
tutti, e il Ministro delle Finanze in persona accettò un mio
pagherò,
che potei saldare, con tutta la tranquillità di questo mondo, la
notte successiva. Questa fu grosso modo la mia condotta di gentiluomo
durante la nostra permanenza presso il duca Becich durata ben sei
settimane.
Ma adesso trovo che ho già
riempito decine di pagine, eppure mi ritrovo ancora da raccontare
gran parte del più interessante periodo della mia vita, quando
vivevo fra i più illustri personaggi d'Europa. Allo scopo di rendere
debitamente giustizia a questa parte delle mie Memorie,
dunque, cosa che è più importante di quanto non possano essere le
mie avventure all'estero, taglierò corto con il resoconto dei miei
viaggi e dei miei successi presso i salotti del continente, al fine
di parlare di quello che mi capitò in patria.
Basti dire che non c'è capitale
europea, all'infuori di Londra, in cui il giovane cavaliere Bellini
non sia stato conosciuto e ammirato e dove non abbia fatto parlare di
sé i più valorosi uomini, i più nobili e i più eleganti. Vinsi
altri ottantamila euro ad un galà presso il Palazzo d'Inverno a San
Pietroburgo (e quel brillante ministro X non me li pagò mai); ho
avuto l'onore di vedere sua altezza reale il principe X ubriaco come
qualsiasi barbone a Stoccolma; il cugino Luca fece parecchie partite
a biliardo col celebre barone X a Saint-Tropez, e vi assicuro che non
ne uscì sconfitto. Non tenevo mai dei miserabili libri di conti, a
quei tempi. Non avevo debiti. Pagavo come un re tutto quello che
prendevo e prendevo tutto quello che volevo. Le mie entrate dovevano
essere molto larghe; i miei passatempi e i miei sfizi erano quelli di
tutti i rampolli dell'aristocrazia del tempo: che a nessuno venga in
mente che la moglie (di cui ero in cerca) era per me un solo pretesto
per arricchirmi e sistemarmi, o di chiamarmi avventuriero, o ancora
di dire che ero uno spiantato e che i miei rapporti umani si
sviluppavano comunque tra persone di condizioni molto diverse.
Spiantato! Io avevo tutta la ricchezza d'Europa ai miei ordini.
Avventuriero! Altrettanto può esserlo un abile avvocato o un bel
soldatino, com'è un avventuriero qualsiasi uomo che fa da sé la sua
fortuna. La mia professione era il gioco d'azzardo, in cui allora non
avevo rivali; il mio reddito era altrettanto sicuro quanto quello di
un dirigente che riscuote il suo sessanta per cento, o di qualsiasi
grasso gentiluomo di campagna che trae il reddito dalle sue terre.
Non sto, infine, ad enumerare i
miei successi con l'altra metà del cielo. Quelle ragazze che
conservano qualcosa in mio ricordo e che sono sopravvissute a mezzo
secolo di sventure e guai, ecco, se la tengano stretta. Com'è
cambiato il colore dei miei capelli, dal giorno in cui la marchesina
Sczotarska se ne mise una ciocca in grembo, dopo la mia gara ad un
autodromo privato poco lontano da Varsavia. Nell'evocare il ricordo
di queste belle creature, io provo soltanto piacere. Vorrei poter
dire altrettanto del ricordo di un'altra ragazza, che avrebbe
rappresentato una parte importante nel dramma della mia vita; sto
parlando della contessa di Monteverde, di cui feci la fatale
conoscenza sull'isola di Maiorca, in un periodo di vacanza.
Clelia, contessa di Monteverde,
viscontessa di Palestrina nello Stato della Chiesa, baronessa di
Pontassieve nel Granducato di Toscana, era tanto conosciuta nel gran
mondo ai suoi tempi che non c'è quasi bisogno che io entri nella
storia della sua famiglia, che si può trovare in ogni Almanacco di
Gotha che possa capitare tra le mani dei lettori. Era, non occorre
che io lo dica, contessa, viscontessa e baronessa per diritto
personale. I suoi possedimenti nella capitale e nello Stato della
Chiesa erano tra i più estesi da quelle parti; e le sue proprietà
toscane non erano meno magnifiche. Ella, quando la vidi per la prima
volta nella hall dell'Hotel Hilton di Maiorca, era moglie
dell'onorevole Sor Filippo Teobaldo di Monteverde, cavaliere
dell'ordine del Bagno, ministro degli esteri per l'Onorevole e poi
per il Cavaliere presso parecchi stati minori d'Europa. Questi era
rinomato come uomo di spirito e bon
vivant: aveva scritto
versi d'amore e scambiato satire con alcuni grandi poeti e umoristi
del suo tempo, aveva diretto alcune testate giornalistiche da vero
editore liberale, e, come molti imprenditori nati e cresciuti in
grembo alla capitale, aveva fatto parte del gran giro; in una parola,
era citato come uno dei più eleganti e compiti gentiluomini del suo
tempo. Non si poteva non ammirare lo spirito e il coraggio con cui si
dedicava alla vita mondana; perché, sebbene tormentato dal parkinson
e da una quantità di altri malanni, quel povero storpio, che veniva
portato a giro su una sedia a rotelle e in preda ai suoi terribili
dolori, lo si poteva vedere ogni sera a giro per i locali più
esclusivi e vivaci dell'isola. A me piace un simile spirito indomito
in un uomo: i più grandi successi nella vita sono stati raggiunti
con un'indomabile perseveranza di questo genere.
Io ero a quell'epoca uno dei
personaggi più conosciuti d'Europa e la fama delle mie imprese,
delle mie risorse e del mio coraggio al gioco, faceva affollare la
gente intorno a me tutte le volte che comparivo in società. Feci per
la prima volta la conscenza di Sor Filippo in occasione di una
partita a poker nella quale il molto onorevole cavaliere mi vinse
settecento euro e io le perdetti con molta buona grazia e le pagai
puntualmente, vi assicuro. In realtà, perdere denaro al gioco non mi
ha mai fatto sentire antipatia verso il vincitore, e ogni volta che
ho trovato qualcuno che mi era superiore sono stato sempre pronto a
riconoscerlo e a rendergli omaggio. Il caro Filippo fu molto
orgoglioso di aver sconfitto una persona così celebre e si stabilì
fra noi una specie di intimità, che però, per un certo tempo, non
andò al di là delle gentilezze che ci si scambiava durante i bagni
turchi e delle conversazioni attraverso il tavolo del ristorante
dell'Hilton; questa intimità andò gradatamente aumentando, fino a
che fui ammesso alla sua più privata amicizia. Era una persona dal
linguaggio molto franco e soleva parlarmi nel suo tono romanesco
scorrevole e altero: <<Ma vaffanculo, a Belle'! Nun hai li modi
più raffinati der barbiere sotto casa e er mi'maggiordomo, er negro,
ja n'istruzione troppo mejo d'a'tua! Ma sei'n giovanotto originale e
coraggioso, e me piaci, perchè me pari disposto ad annà a
mori'ammazzato alla maniera tua!>>. Io lo ringraziavo ridendo
del complimento e gli dicevo che, dato che lui sarebbe andato
all'altro mondo molto prima di me, gli sarei stato molto grato se mi
avesse fatto trovare un posticino comodo già preparato laggiù. Di
solito si divertiva immensamente ad ascoltare i miei raconti sugli
splendori della mia famiglia e sulla magnificenza di Agrestone; non
si stancava mai di ascoltarmi o di ridere di quelle storie.
<<Ma tienete attaccato alle
carte, Belle'!>>, mi disse quando gli raccontai della mia
smania di prendere moglie. <<Fai quel che te serve tranne pija
na'moje, contadinotto bello>>. (Mi chiamava con una quantità
di strani appellativi.) <<Coltiva li talenti tuoi ner gioco, ma
occhio, che 'na donna te sconfigge!>>.
Io negavo questa possibilità,
citando numerosi esempi di casi in cui avevo conquistato le più
spocchiose esponenti del gentil sesso. <<Ma tanto te mettono
sotto, caro er'mi provinciale! Appena uno se sposa, è vinto, fidate.
Guarda me: me so'sposato co'na mi'lontana parente, la più nobile e
bona ereditiera de Roma; io me la so'sposata quasi contro voja! È'na
debole, fidate! Lo vedrai quant'è debole, eppure è la mi'padrona.
È'na pazza, 'na stronza, eppure ha avuto la mejo su de me, su 'sta
grande testa de antico ceppo. È 'na riccona, ma in un certo senso,
io nun so'mai stato tanto povero da quanno me la so'sposata. Pensavo
de mijora'la posizione mia e 'sta mignotta ha fatto der sottoscritto
un essere spregevole; m'ha ammazzato! E tanto anche col mio
successore, quanno io nun ce sarò più, sarà 'o stesso>>.
<<Ha un reddito tanto alto,
la contessa?>>, chiesi io. A questa domanda, Sor Filippo
scoppiò in una risata stridula, che mi fece arrossire non poco del
mio cinismo: il fatto è che, vedendolo ridotto in quelle condizioni,
non potevo che fare a meno di riflettere sulle possibilità che un
ragazzo di spirito avrebbe potuto avere con la sua giovane vedova.
<<Ma nun ce prova'! Se ce
tieni alla tranquillità, nun sta'a pensa'a mettite'nelle mie scarpe!
Inoltre, io, nun credo che 'a contessa se sta a prenne'n marito
un...>>.
<<Un che cosa?>>,
dissi io, furioso e totalmente non più curante delle difficili
condizioni di salute che aveva l'uomo di fronte a me.
<<E lascia perde'!Ma l'uomo
che se la pijerà, se ne pentirà! Se nun fosse stato per quello
stronzo de mi'padre e p'a mia ambizione, io potevo mori'n'pace; me
trascinavo le malattie n'a'tomba dopo esse'morto ner'mi palazzo sur
Giancolo ed esse'vissuto da signo'n tutti li salotti de Roma. E'nvece
adesso ho sei palazzi e ognuno de questi me dà rogne e problemi.
Diffida delle grandezze, Belle'. Prendi esempio da me. Da quanno me
so'sposato e so'diventato ricco, so'stato er più meschino e'nfame
uomo der monno! Guardame. Sto a morì, storpio e rattrappito, a
neanche settant'anni. Quanno me presi 'a contessa de sti'cojoni, nun
ce stava uomo della mia età che sembrasse giovane come me.
Che'mbecille! Avevo'n vitalizio, 'na libbertà completa, conoscevo la
mejo società der monno e rinunciai a tutto questo, me maritai e
divenni'n disgraziato. Prendi esempio, Belle', e tienite le carte!>>.
Benchè la mia intimità col
cavaliere fosse divenuta profonda, non chiesi mai in qualche camera
alloggiasse la sua signora, visto che ero venuto a conoscenza,
tramite un facchino, che ella vivesse completamente divisa da lui; e
l'unica cosa che facevano insieme era il viaggio per raggiungere una
determinata meta. La contessa di Monteverde viaggiava, inoltre, con
una piccola corte personale. Nei suoi spostamenti si muoveva con una
mezza dozzina di automobili. Nella propria (una BMW “Serie 7”)
viaggiava con alcune amiche, i suoi cani di razza terrier e Carletto,
il suo chaffeur
di fiducia. In un'altra viaggiavano la sua segretaria e due
cameriere. Sor Filippo aveva la sua Maserati e i domestici che
seguivano la famiglia anche all'estero si organizzavano grazie a
grossi e lussuosi suv di ultima generazione. Occorre far menzione
anche della fuoriserie su cui viaggiava, da solo, il cappellano della
contessa, Don Pardo, un prete spagnolo che fungeva da istitutore di
suo figlio, il piccolo bisconte di Palestrina, un ragazzino
melanconico e abbandonato, del quale il padre non si curava affatto e
che la madre non vedeva mai, salvo un paio di ripassi di latino e
matematica.
<<Nun te preoccupa'>>,
mi disse una sera Sor Filippo, il cui principale soggetto di scherzo
e di conversazione era sua moglie, <<La mi'contessa nun avrà
mai niente a che vede'con te. A lei je piace la parlata nordica, mica
er toscano. Poi va'n giro a di' che te puzzi troppo de stalla per
trovatte'na donna come se deve; e due giorni fa, me dice: “Me
meravijo, Filippo, che un signo'che è stato ambasciatore de du'primi
ministri se possa abbassa'a gioca'e a be'co'gli scrocconi toscani de
bassa nascita!”Nun te'ncazza! Io nun sto mejo de te, so'no storpio,
e mi moje, se sa, è'na stronza!>>.
Questo fatto mi ferì molto e
decisi di fare la conoscenza della contessa di Monteverde solo per
mostrarle che il discendente di quei Bellini, che ella tanto sembrava
andar denigrando, era un compagno non indegno di qualsiasi donna,
fosse pur ella la più nobile e schizzinosa del mondo. Inoltre,
desideravo conquistarla, acquisendo così, grazie a lei, i mezzi per
fare nel mondo quella figura che il mio genio e le mie tendenze
desideravano. Sentivo di essere uguale per sangue e nascita a
qualsiasi Monteverde e decisi di piegare quella superba signora. E
quando io prendo una decisione, considero la cosa come già fatta.
Luca Pisano ed io discutemmo
sulla faccenda e stabilimmo rapidamente un sistema per fare i nostri
approcci con l'altera signora di Monteverde. Don Pardo, l'istitutore
del giovane visconte, andava pazzo per i divertimenti, per un
bicchiere di vino australiano nei ritrovi all'aperto e per un rapido
“pokerino” quando se ne presentava l'occasione; e io ebbi cura di
fare amicizia con questo personaggio, il quale, essendo spagnolo e
precettore, era disposto a mettersi in ginocchio davanti a chiunque
rassomigliasse ad una persona di alto rango. Avendo visto il seguito
di camerieri privati messoci a disposizione dalla direzione
dell'albergo, la nostra Porsche e le automobili prese a noleggio per
muoverci sull'isola, le massaggiatrici, il nostro caddie e i
cavalli avuti in prestito da un ippodromo associato all'Hilton, Pardo
fu lusingato dai miei approcci e fu tutto mio appena alzai il dito.
Non dimenticherò mai lo stupore di quel povero iberico quando lo
invitai a pranzare con due giovani conti miei amici in una saletta
privata del Casinò di Maiorca: fu addirittura felice di vincere
qualche soldo alle slot-machines, cantò alcuni brani del suo paese e
divertì tutta la compagnia raccontandoci, nel suo orribile italiano,
storielle sui tempi del seminario e su tutti i giochi di carte che
mietono vittime in Vaticano. Lo incoraggiai a venirmi a trovare più
spesso nella mia suite e a portare con sé il piccolo visconte di
Palestrina per il quale, benché il ragazzo mi mostrasse antipatia,
ebbi cura di far trovare sempre pronti dolci, balocchi e libri
illustrati quando veniva.
Ottenni così il numero di
cellulare della contessa e poi perfino la sua mail; disponendo,
dunque, di uno smartphone ultimissimo modello che aveva la
possibilità di ospitare due schede sim, corsi ad acquistarne una che
sarebbe stata riservata esclusivamente a quella nobile creatura. Come
negli antichi romances, la nostra corrispondenza amorosa venne
tenuta segreta; il mio estro scrittorio e le reminescenze delle mie
letture romantiche della pubescenza conquistarono nel giro di tre
settimane la contessa di Monteverde, la quale iniziò subito a
volermi vedere nella mia suite. Così, la sera, mi alzavo dal tavolo
verde o lasciavo la pista da ballo mezz'ora prima del solito e
tornavo in camera mia, dove ricevevo la più bella e ricca ereditiera
d'Europa. Ci vollero due mesi prima di farci uscire “allo
scoperto”: passeggiavamo assieme ogni pomeriggio, astenendosi
dall'ostentare qualsiasi tipo di approccio troppo intimo. Non
dimenticherò mai la meraviglia di Sor Filippo quando, al ritorno da
una di queste passeggiate pomeridiane, vide che la sua bella signora
era a braccetto con quel “volgare avventuriero toscano”, ossia il
sottoscritto Sbelluccio Bellini. Salutò entrambi, ma sapevo che egli
era venuto a conoscenza della nostra relazione e dunque dovevo
guardarmi le spalle.
Quella stessa sera, scoprii di
essere nel giusto. Sor Filippo mi ricevette con uno scoppio di risa,
com'era sua abitudine, e mi presentò a tutta la compagnia come
l'interessante giovane contandino convertito in arciduca. Era questo
il suo modo di fare: rideva sguaiatamente e motteggiava su tutto.
<<Signori>>, disse a colui che teneva il banco e a
parecchi gioviali compagni di gioco coi quali soleva discutere su una
bottiglia di Pommery giovane e un paio di tartine al caviale del
Volga dopo la partita, <<Guardateve'sto giovin signore! Sta
turbato da gravi paturnie religiose e mo'è corso dar cappellano mio,
Don Pardo, che nun sa'n cazzo e ha chiesto consijio a mi'moje, 'a
contessa de Monteverde; e mo'tutt'e due loro stanno ad aiuta'r
giovane amico mio nella fede. Ma io me chiedo e, soprattutto, ve
chiedo: avete ma'visto sacerdoti come quelli e'n fedele simile?>>.
Risposi che, per apprendere buoni
principi, era sicuramente meglio rivolgersi a sua moglie o al suo
cappellano che non a lui; ma egli non fu scosso dalla mia replica e
proseguì:
<<Se vole de mette'le mie
scarpe!>>.
<<Io non so di cosa stia
parlando. E le sue scarpe saranno sicuramente piene di sassi!>>,
dissi alzando il tono di voce.
<<Ah signori, nun vedete
che piacere? Sto a'n passo dalla fossa e me devo senti' fortunato a
sta'in una casa felice, co'na moje che sta talmente'nnamorata de me
che già sta a pensa'de nominarme'n successore? Nun me vojo
rivolge'solo a te, Sbellu, visto che sei solo uno de'dieci, venti
stronzi che da ormai cinque anni ronzano attorno a casa mia e me
rompono li cojoni! Nun è consolante vede'sta bella signora che, da
brava mignotta qual'è, sta a prepara'tutto pe'lla dipartita mia?>>
<<Spero che non voglia
lasciarci tanto presto, Sor Filippo!>> dissi io, con grande
sincerità; in fondo, mi piaceva quel simpaticone romano.
<<Nun così presto come
t'emmagini. O te metti d'accordo col'mi dottore o dici ar cuoco de
condimme cor veleno l'insalata co'lli broccoli. E poi nun è detto
che nun viva abbastanza da vedette d'anna'n galera. Aoh, 'o sai
quante volte m'hanno dato pe'mmorto nej'ultimi quattro anni e ce
stava sempre un paio de candidati alla porta de casa mia, pronti a
entra'e fassi moje e casa? Ma forse nun te lo immagini neanche!>>,
e scoppiò in una risata fragorosa e quasi fastidiosa.
In effetti, conoscevo bene questa
storia. Quattro anni prima, ai tempi del suo secondo ictus, il Sor
Filippo sembrava essere già proiettato verso il mondo dei morti,
tant'è che la contessa aveva fatto dare l'estrema unzione al marito,
ma poi, per un mezzo miracolo, i medici riuscirono a riportarlo in
vita e quei pretendenti, sparsi per mezza Roma, dovettero tornare
alle loro case, sconfitti da quel vecchio pazzo. Ma io non volevo
entrare in quel circolo di gentiluomini, così non mi detti per vinto
e dissi:
<<Signore, lasci che rida
chi vince>>, e presi congedo dalla sala.
La settimana successiva, la
seconda del mese di settembre, la contessa di Monteverde lasciò
l'Hotel Hilton di Maiorca con tutto il suo seguito e fece ritorno in
patria. Le vacanze erano finite. Piansi molto quella partenza e il
cugino Luca mi fu di grande sostegno morale. Tuttavia, il brutto
momento fu attraversato quando mi fu recapitata, quattro giorni dopo,
la mia copia del “Corriere della Sera” sulla quale lessi il
seguente annuncio:
E' morto a
Pontassieve (FI), nel Granducato, il molto onorevole Sor Filippo
Teobaldo di Monteverde, cavaliere dell'ordine del Bagno, membro del
Parlamento per l'Onorevole e per molti anni rappresentante del
Cavaliere presso diversi stati europei. Lascia dietro di sé un nome
caro a tutti i suoi amici.
Il necrologio si
concludeva con una scritta quasi minuscola, riguardante il funerale:
La vedova contessa
di Monteverde era a Roma quando l'ha raggiunta la terribile notizia e
si è affrettata a partire per la Toscana, dove si terrà il funerale
in forma privata, presso la cappella di famiglia.
Quella sera stessa
saldai il conto dell'albergo, ordinai che fosse messo il pieno alla
Porsche e partii per Son Sant Joan, dove lasciai l'auto dicendo che
mio cugino sarebbe passato a prenderla e si sarebbe imbarcato qualche
tempo dopo, acquistai il primo biglietto aereo disponibile e
raggiunsi l'aereoporto di Ciampino; da lì noleggiai una Mercedes
“CLS” con conducente e in poco più di tre ore raggiunsi, dopo
undici anni di assenza, il mio paese natale.
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