venerdì 10 maggio 2013

Le memorie di Sbelluccio Bellini (Capitolo VIII) [Trame]


VIII.
ALTRI GIRI DELLA FORTUNA,
GRAZIE AI QUALI CONTINUO
LA MIA CARRIERA DI UOMO DI MONDO

Mentre scrivo ho i reumatismi, la bronchite e il fegato fuori sesto. Ho due o tre ferite sul corpo che mi fanno male e ogni tanto mi danno un dolore insopportabile, e cento altri sintomi di prossima fine. Questi sono gli effetti del tempo, della malattia e della vita libera su una delle costituzioni più robuste e dei corpi più belli che si siano mai visti al mondo. Non soffrivo di nessuna di queste malattie, quando in Europa non vi era nessuno di spirito più allegro e più splendido di Sbelluccio Bellini.
All'epoca, io e Luca Pisano visitavamo i più esclusivi centri di vita notturna del continente, in particolare quelli degli staterelli dove il gioco era incoraggiato e i professori di quella scienza erano sempre i benvenuti. Nei principati di Monaco e del Lichtenstein eravamo particolarmente ben ricevuti. Non ho mai conosciuto corti più allegre e più belle, dove avevamo trovato più divertimenti e splendore che a Berlino, e di gran lunga di più che a Londra, la mia maledetta corte-caserma. I caratteristici palazzi affacciati sui canali dei Paesi Bassi erano, parimenti, un luogo ideale per noi marinai del dado e devoti clienti della traghettatrice Fortuna; d'altro canto, nella assolata Spagna o nelle micragnose Isole Faer Øer, era impossibile che un galantuomo si guadagnasse la vita senza venire molestato.
Dopo diciotto mesi di vita vagabonda, di cambi repentini di disponibilità economiche, di lingue e, in casi disperati, di identità, trovammo nella ridente Svizzera un luogo accogliente con noi formidabili giocatori incalliti. Fummo ospiti del nobile duca Becich, un signore come non ne esistono più al mondo. Questi aveva fatto fortuna con una sua piccola azienda tessile in Francia e poi in Italia, dove era riuscito ad acquistare il titolo di duca e a farlo poi valere in patria; là aveva ingigantito la sua fortuna in maniera memorabile, fondando uno studio di consulenze che lo faceva guadagnare in borsa i veri milioni. A poco più di quarant'anni, aveva preso moglie e si era trasferito dal centro di Ginevra in una sorta di reggia sull'omonimo lago, attorno alla quale aveva fatto edificare un piccolo borgo, composto da palazzine che ospitavano la servitù, i funzionari e i dipendenti del suo ufficio. Così, saggiamente, egli viveva in una sorta di splendido isolamento e mostrava di rado il suo volto in città, né era solito cercare persone fuori dalla sua proprietà. Il suo palazzo e i giardini erano stati pensati sullo stile settecentesco francese ed egli organizzava in ogni minimo dettaglio le due cene di alta società settimanali e le due serate improntate a discoteca mensili. Per quest'ultime, il duca, grande amante della musica e della danza, spendeva somme prodigiose. La settimana ducale era così composta: la prima delle due cene sovracitate si teneva il mercoledì, la seconda la domenica; il lunedì era giorno di riposo, mentre i restanti vedevano il tavolo da gioco come principale attrazione. Fu proprio un martedì quando io e Luca, sistemati a dovere in un palazzo del duca, fummo ricevuti con tutti gli onori al tavolo verde, con attorno la nobiltà locale che dichiarava che la nostra reputazione ci aveva preceduti. La prima notte perdemmo settantaquattromila dei nostri ottantamila euro, ma la sera seguente, al tavolo con un dentista di Lugano, io ripresi gli ottantamila e ne vinsi altri milletrecento. Potete esser sicuri che facemmo in modo che nessuno si accorgesse quanto eravamo stati vicini alla rovina la sera prima; ma grazie al mio elegante modo di perdere ero riuscito a guadagnare la simpatia di tutti, e il Ministro delle Finanze in persona accettò un mio pagherò, che potei saldare, con tutta la tranquillità di questo mondo, la notte successiva. Questa fu grosso modo la mia condotta di gentiluomo durante la nostra permanenza presso il duca Becich durata ben sei settimane.
Ma adesso trovo che ho già riempito decine di pagine, eppure mi ritrovo ancora da raccontare gran parte del più interessante periodo della mia vita, quando vivevo fra i più illustri personaggi d'Europa. Allo scopo di rendere debitamente giustizia a questa parte delle mie Memorie, dunque, cosa che è più importante di quanto non possano essere le mie avventure all'estero, taglierò corto con il resoconto dei miei viaggi e dei miei successi presso i salotti del continente, al fine di parlare di quello che mi capitò in patria.
Basti dire che non c'è capitale europea, all'infuori di Londra, in cui il giovane cavaliere Bellini non sia stato conosciuto e ammirato e dove non abbia fatto parlare di sé i più valorosi uomini, i più nobili e i più eleganti. Vinsi altri ottantamila euro ad un galà presso il Palazzo d'Inverno a San Pietroburgo (e quel brillante ministro X non me li pagò mai); ho avuto l'onore di vedere sua altezza reale il principe X ubriaco come qualsiasi barbone a Stoccolma; il cugino Luca fece parecchie partite a biliardo col celebre barone X a Saint-Tropez, e vi assicuro che non ne uscì sconfitto. Non tenevo mai dei miserabili libri di conti, a quei tempi. Non avevo debiti. Pagavo come un re tutto quello che prendevo e prendevo tutto quello che volevo. Le mie entrate dovevano essere molto larghe; i miei passatempi e i miei sfizi erano quelli di tutti i rampolli dell'aristocrazia del tempo: che a nessuno venga in mente che la moglie (di cui ero in cerca) era per me un solo pretesto per arricchirmi e sistemarmi, o di chiamarmi avventuriero, o ancora di dire che ero uno spiantato e che i miei rapporti umani si sviluppavano comunque tra persone di condizioni molto diverse. Spiantato! Io avevo tutta la ricchezza d'Europa ai miei ordini. Avventuriero! Altrettanto può esserlo un abile avvocato o un bel soldatino, com'è un avventuriero qualsiasi uomo che fa da sé la sua fortuna. La mia professione era il gioco d'azzardo, in cui allora non avevo rivali; il mio reddito era altrettanto sicuro quanto quello di un dirigente che riscuote il suo sessanta per cento, o di qualsiasi grasso gentiluomo di campagna che trae il reddito dalle sue terre.
Non sto, infine, ad enumerare i miei successi con l'altra metà del cielo. Quelle ragazze che conservano qualcosa in mio ricordo e che sono sopravvissute a mezzo secolo di sventure e guai, ecco, se la tengano stretta. Com'è cambiato il colore dei miei capelli, dal giorno in cui la marchesina Sczotarska se ne mise una ciocca in grembo, dopo la mia gara ad un autodromo privato poco lontano da Varsavia. Nell'evocare il ricordo di queste belle creature, io provo soltanto piacere. Vorrei poter dire altrettanto del ricordo di un'altra ragazza, che avrebbe rappresentato una parte importante nel dramma della mia vita; sto parlando della contessa di Monteverde, di cui feci la fatale conoscenza sull'isola di Maiorca, in un periodo di vacanza.
Clelia, contessa di Monteverde, viscontessa di Palestrina nello Stato della Chiesa, baronessa di Pontassieve nel Granducato di Toscana, era tanto conosciuta nel gran mondo ai suoi tempi che non c'è quasi bisogno che io entri nella storia della sua famiglia, che si può trovare in ogni Almanacco di Gotha che possa capitare tra le mani dei lettori. Era, non occorre che io lo dica, contessa, viscontessa e baronessa per diritto personale. I suoi possedimenti nella capitale e nello Stato della Chiesa erano tra i più estesi da quelle parti; e le sue proprietà toscane non erano meno magnifiche. Ella, quando la vidi per la prima volta nella hall dell'Hotel Hilton di Maiorca, era moglie dell'onorevole Sor Filippo Teobaldo di Monteverde, cavaliere dell'ordine del Bagno, ministro degli esteri per l'Onorevole e poi per il Cavaliere presso parecchi stati minori d'Europa. Questi era rinomato come uomo di spirito e bon vivant: aveva scritto versi d'amore e scambiato satire con alcuni grandi poeti e umoristi del suo tempo, aveva diretto alcune testate giornalistiche da vero editore liberale, e, come molti imprenditori nati e cresciuti in grembo alla capitale, aveva fatto parte del gran giro; in una parola, era citato come uno dei più eleganti e compiti gentiluomini del suo tempo. Non si poteva non ammirare lo spirito e il coraggio con cui si dedicava alla vita mondana; perché, sebbene tormentato dal parkinson e da una quantità di altri malanni, quel povero storpio, che veniva portato a giro su una sedia a rotelle e in preda ai suoi terribili dolori, lo si poteva vedere ogni sera a giro per i locali più esclusivi e vivaci dell'isola. A me piace un simile spirito indomito in un uomo: i più grandi successi nella vita sono stati raggiunti con un'indomabile perseveranza di questo genere.
Io ero a quell'epoca uno dei personaggi più conosciuti d'Europa e la fama delle mie imprese, delle mie risorse e del mio coraggio al gioco, faceva affollare la gente intorno a me tutte le volte che comparivo in società. Feci per la prima volta la conscenza di Sor Filippo in occasione di una partita a poker nella quale il molto onorevole cavaliere mi vinse settecento euro e io le perdetti con molta buona grazia e le pagai puntualmente, vi assicuro. In realtà, perdere denaro al gioco non mi ha mai fatto sentire antipatia verso il vincitore, e ogni volta che ho trovato qualcuno che mi era superiore sono stato sempre pronto a riconoscerlo e a rendergli omaggio. Il caro Filippo fu molto orgoglioso di aver sconfitto una persona così celebre e si stabilì fra noi una specie di intimità, che però, per un certo tempo, non andò al di là delle gentilezze che ci si scambiava durante i bagni turchi e delle conversazioni attraverso il tavolo del ristorante dell'Hilton; questa intimità andò gradatamente aumentando, fino a che fui ammesso alla sua più privata amicizia. Era una persona dal linguaggio molto franco e soleva parlarmi nel suo tono romanesco scorrevole e altero: <<Ma vaffanculo, a Belle'! Nun hai li modi più raffinati der barbiere sotto casa e er mi'maggiordomo, er negro, ja n'istruzione troppo mejo d'a'tua! Ma sei'n giovanotto originale e coraggioso, e me piaci, perchè me pari disposto ad annà a mori'ammazzato alla maniera tua!>>. Io lo ringraziavo ridendo del complimento e gli dicevo che, dato che lui sarebbe andato all'altro mondo molto prima di me, gli sarei stato molto grato se mi avesse fatto trovare un posticino comodo già preparato laggiù. Di solito si divertiva immensamente ad ascoltare i miei raconti sugli splendori della mia famiglia e sulla magnificenza di Agrestone; non si stancava mai di ascoltarmi o di ridere di quelle storie.
<<Ma tienete attaccato alle carte, Belle'!>>, mi disse quando gli raccontai della mia smania di prendere moglie. <<Fai quel che te serve tranne pija na'moje, contadinotto bello>>. (Mi chiamava con una quantità di strani appellativi.) <<Coltiva li talenti tuoi ner gioco, ma occhio, che 'na donna te sconfigge!>>.
Io negavo questa possibilità, citando numerosi esempi di casi in cui avevo conquistato le più spocchiose esponenti del gentil sesso. <<Ma tanto te mettono sotto, caro er'mi provinciale! Appena uno se sposa, è vinto, fidate. Guarda me: me so'sposato co'na mi'lontana parente, la più nobile e bona ereditiera de Roma; io me la so'sposata quasi contro voja! È'na debole, fidate! Lo vedrai quant'è debole, eppure è la mi'padrona. È'na pazza, 'na stronza, eppure ha avuto la mejo su de me, su 'sta grande testa de antico ceppo. È 'na riccona, ma in un certo senso, io nun so'mai stato tanto povero da quanno me la so'sposata. Pensavo de mijora'la posizione mia e 'sta mignotta ha fatto der sottoscritto un essere spregevole; m'ha ammazzato! E tanto anche col mio successore, quanno io nun ce sarò più, sarà 'o stesso>>.
<<Ha un reddito tanto alto, la contessa?>>, chiesi io. A questa domanda, Sor Filippo scoppiò in una risata stridula, che mi fece arrossire non poco del mio cinismo: il fatto è che, vedendolo ridotto in quelle condizioni, non potevo che fare a meno di riflettere sulle possibilità che un ragazzo di spirito avrebbe potuto avere con la sua giovane vedova.
<<Ma nun ce prova'! Se ce tieni alla tranquillità, nun sta'a pensa'a mettite'nelle mie scarpe! Inoltre, io, nun credo che 'a contessa se sta a prenne'n marito un...>>.
<<Un che cosa?>>, dissi io, furioso e totalmente non più curante delle difficili condizioni di salute che aveva l'uomo di fronte a me.
<<E lascia perde'!Ma l'uomo che se la pijerà, se ne pentirà! Se nun fosse stato per quello stronzo de mi'padre e p'a mia ambizione, io potevo mori'n'pace; me trascinavo le malattie n'a'tomba dopo esse'morto ner'mi palazzo sur Giancolo ed esse'vissuto da signo'n tutti li salotti de Roma. E'nvece adesso ho sei palazzi e ognuno de questi me dà rogne e problemi. Diffida delle grandezze, Belle'. Prendi esempio da me. Da quanno me so'sposato e so'diventato ricco, so'stato er più meschino e'nfame uomo der monno! Guardame. Sto a morì, storpio e rattrappito, a neanche settant'anni. Quanno me presi 'a contessa de sti'cojoni, nun ce stava uomo della mia età che sembrasse giovane come me. Che'mbecille! Avevo'n vitalizio, 'na libbertà completa, conoscevo la mejo società der monno e rinunciai a tutto questo, me maritai e divenni'n disgraziato. Prendi esempio, Belle', e tienite le carte!>>.
Benchè la mia intimità col cavaliere fosse divenuta profonda, non chiesi mai in qualche camera alloggiasse la sua signora, visto che ero venuto a conoscenza, tramite un facchino, che ella vivesse completamente divisa da lui; e l'unica cosa che facevano insieme era il viaggio per raggiungere una determinata meta. La contessa di Monteverde viaggiava, inoltre, con una piccola corte personale. Nei suoi spostamenti si muoveva con una mezza dozzina di automobili. Nella propria (una BMW “Serie 7”) viaggiava con alcune amiche, i suoi cani di razza terrier e Carletto, il suo chaffeur di fiducia. In un'altra viaggiavano la sua segretaria e due cameriere. Sor Filippo aveva la sua Maserati e i domestici che seguivano la famiglia anche all'estero si organizzavano grazie a grossi e lussuosi suv di ultima generazione. Occorre far menzione anche della fuoriserie su cui viaggiava, da solo, il cappellano della contessa, Don Pardo, un prete spagnolo che fungeva da istitutore di suo figlio, il piccolo bisconte di Palestrina, un ragazzino melanconico e abbandonato, del quale il padre non si curava affatto e che la madre non vedeva mai, salvo un paio di ripassi di latino e matematica.
<<Nun te preoccupa'>>, mi disse una sera Sor Filippo, il cui principale soggetto di scherzo e di conversazione era sua moglie, <<La mi'contessa nun avrà mai niente a che vede'con te. A lei je piace la parlata nordica, mica er toscano. Poi va'n giro a di' che te puzzi troppo de stalla per trovatte'na donna come se deve; e due giorni fa, me dice: “Me meravijo, Filippo, che un signo'che è stato ambasciatore de du'primi ministri se possa abbassa'a gioca'e a be'co'gli scrocconi toscani de bassa nascita!”Nun te'ncazza! Io nun sto mejo de te, so'no storpio, e mi moje, se sa, è'na stronza!>>.
Questo fatto mi ferì molto e decisi di fare la conoscenza della contessa di Monteverde solo per mostrarle che il discendente di quei Bellini, che ella tanto sembrava andar denigrando, era un compagno non indegno di qualsiasi donna, fosse pur ella la più nobile e schizzinosa del mondo. Inoltre, desideravo conquistarla, acquisendo così, grazie a lei, i mezzi per fare nel mondo quella figura che il mio genio e le mie tendenze desideravano. Sentivo di essere uguale per sangue e nascita a qualsiasi Monteverde e decisi di piegare quella superba signora. E quando io prendo una decisione, considero la cosa come già fatta.
Luca Pisano ed io discutemmo sulla faccenda e stabilimmo rapidamente un sistema per fare i nostri approcci con l'altera signora di Monteverde. Don Pardo, l'istitutore del giovane visconte, andava pazzo per i divertimenti, per un bicchiere di vino australiano nei ritrovi all'aperto e per un rapido “pokerino” quando se ne presentava l'occasione; e io ebbi cura di fare amicizia con questo personaggio, il quale, essendo spagnolo e precettore, era disposto a mettersi in ginocchio davanti a chiunque rassomigliasse ad una persona di alto rango. Avendo visto il seguito di camerieri privati messoci a disposizione dalla direzione dell'albergo, la nostra Porsche e le automobili prese a noleggio per muoverci sull'isola, le massaggiatrici, il nostro caddie e i cavalli avuti in prestito da un ippodromo associato all'Hilton, Pardo fu lusingato dai miei approcci e fu tutto mio appena alzai il dito. Non dimenticherò mai lo stupore di quel povero iberico quando lo invitai a pranzare con due giovani conti miei amici in una saletta privata del Casinò di Maiorca: fu addirittura felice di vincere qualche soldo alle slot-machines, cantò alcuni brani del suo paese e divertì tutta la compagnia raccontandoci, nel suo orribile italiano, storielle sui tempi del seminario e su tutti i giochi di carte che mietono vittime in Vaticano. Lo incoraggiai a venirmi a trovare più spesso nella mia suite e a portare con sé il piccolo visconte di Palestrina per il quale, benché il ragazzo mi mostrasse antipatia, ebbi cura di far trovare sempre pronti dolci, balocchi e libri illustrati quando veniva.
Ottenni così il numero di cellulare della contessa e poi perfino la sua mail; disponendo, dunque, di uno smartphone ultimissimo modello che aveva la possibilità di ospitare due schede sim, corsi ad acquistarne una che sarebbe stata riservata esclusivamente a quella nobile creatura. Come negli antichi romances, la nostra corrispondenza amorosa venne tenuta segreta; il mio estro scrittorio e le reminescenze delle mie letture romantiche della pubescenza conquistarono nel giro di tre settimane la contessa di Monteverde, la quale iniziò subito a volermi vedere nella mia suite. Così, la sera, mi alzavo dal tavolo verde o lasciavo la pista da ballo mezz'ora prima del solito e tornavo in camera mia, dove ricevevo la più bella e ricca ereditiera d'Europa. Ci vollero due mesi prima di farci uscire “allo scoperto”: passeggiavamo assieme ogni pomeriggio, astenendosi dall'ostentare qualsiasi tipo di approccio troppo intimo. Non dimenticherò mai la meraviglia di Sor Filippo quando, al ritorno da una di queste passeggiate pomeridiane, vide che la sua bella signora era a braccetto con quel “volgare avventuriero toscano”, ossia il sottoscritto Sbelluccio Bellini. Salutò entrambi, ma sapevo che egli era venuto a conoscenza della nostra relazione e dunque dovevo guardarmi le spalle.
Quella stessa sera, scoprii di essere nel giusto. Sor Filippo mi ricevette con uno scoppio di risa, com'era sua abitudine, e mi presentò a tutta la compagnia come l'interessante giovane contandino convertito in arciduca. Era questo il suo modo di fare: rideva sguaiatamente e motteggiava su tutto. <<Signori>>, disse a colui che teneva il banco e a parecchi gioviali compagni di gioco coi quali soleva discutere su una bottiglia di Pommery giovane e un paio di tartine al caviale del Volga dopo la partita, <<Guardateve'sto giovin signore! Sta turbato da gravi paturnie religiose e mo'è corso dar cappellano mio, Don Pardo, che nun sa'n cazzo e ha chiesto consijio a mi'moje, 'a contessa de Monteverde; e mo'tutt'e due loro stanno ad aiuta'r giovane amico mio nella fede. Ma io me chiedo e, soprattutto, ve chiedo: avete ma'visto sacerdoti come quelli e'n fedele simile?>>.
Risposi che, per apprendere buoni principi, era sicuramente meglio rivolgersi a sua moglie o al suo cappellano che non a lui; ma egli non fu scosso dalla mia replica e proseguì:
<<Se vole de mette'le mie scarpe!>>.
<<Io non so di cosa stia parlando. E le sue scarpe saranno sicuramente piene di sassi!>>, dissi alzando il tono di voce.
<<Ah signori, nun vedete che piacere? Sto a'n passo dalla fossa e me devo senti' fortunato a sta'in una casa felice, co'na moje che sta talmente'nnamorata de me che già sta a pensa'de nominarme'n successore? Nun me vojo rivolge'solo a te, Sbellu, visto che sei solo uno de'dieci, venti stronzi che da ormai cinque anni ronzano attorno a casa mia e me rompono li cojoni! Nun è consolante vede'sta bella signora che, da brava mignotta qual'è, sta a prepara'tutto pe'lla dipartita mia?>>
<<Spero che non voglia lasciarci tanto presto, Sor Filippo!>> dissi io, con grande sincerità; in fondo, mi piaceva quel simpaticone romano.
<<Nun così presto come t'emmagini. O te metti d'accordo col'mi dottore o dici ar cuoco de condimme cor veleno l'insalata co'lli broccoli. E poi nun è detto che nun viva abbastanza da vedette d'anna'n galera. Aoh, 'o sai quante volte m'hanno dato pe'mmorto nej'ultimi quattro anni e ce stava sempre un paio de candidati alla porta de casa mia, pronti a entra'e fassi moje e casa? Ma forse nun te lo immagini neanche!>>, e scoppiò in una risata fragorosa e quasi fastidiosa.
In effetti, conoscevo bene questa storia. Quattro anni prima, ai tempi del suo secondo ictus, il Sor Filippo sembrava essere già proiettato verso il mondo dei morti, tant'è che la contessa aveva fatto dare l'estrema unzione al marito, ma poi, per un mezzo miracolo, i medici riuscirono a riportarlo in vita e quei pretendenti, sparsi per mezza Roma, dovettero tornare alle loro case, sconfitti da quel vecchio pazzo. Ma io non volevo entrare in quel circolo di gentiluomini, così non mi detti per vinto e dissi:
<<Signore, lasci che rida chi vince>>, e presi congedo dalla sala.
La settimana successiva, la seconda del mese di settembre, la contessa di Monteverde lasciò l'Hotel Hilton di Maiorca con tutto il suo seguito e fece ritorno in patria. Le vacanze erano finite. Piansi molto quella partenza e il cugino Luca mi fu di grande sostegno morale. Tuttavia, il brutto momento fu attraversato quando mi fu recapitata, quattro giorni dopo, la mia copia del “Corriere della Sera” sulla quale lessi il seguente annuncio:

E' morto a Pontassieve (FI), nel Granducato, il molto onorevole Sor Filippo Teobaldo di Monteverde, cavaliere dell'ordine del Bagno, membro del Parlamento per l'Onorevole e per molti anni rappresentante del Cavaliere presso diversi stati europei. Lascia dietro di sé un nome caro a tutti i suoi amici.

Il necrologio si concludeva con una scritta quasi minuscola, riguardante il funerale:

La vedova contessa di Monteverde era a Roma quando l'ha raggiunta la terribile notizia e si è affrettata a partire per la Toscana, dove si terrà il funerale in forma privata, presso la cappella di famiglia.

Quella sera stessa saldai il conto dell'albergo, ordinai che fosse messo il pieno alla Porsche e partii per Son Sant Joan, dove lasciai l'auto dicendo che mio cugino sarebbe passato a prenderla e si sarebbe imbarcato qualche tempo dopo, acquistai il primo biglietto aereo disponibile e raggiunsi l'aereoporto di Ciampino; da lì noleggiai una Mercedes “CLS” con conducente e in poco più di tre ore raggiunsi, dopo undici anni di assenza, il mio paese natale.


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