XIII.
CONCLUSIONE
Se
il mondo non fosse composto da una razza di ingrati personaggi, che
condividono la vostra prosperità finchè dura, ma poi, quando si
sono rimpinzati con la vostra tavola e le vostre cantine, oltraggiano
colui che ha generosamente pagato la festa, sono sicuro che avrei
meritato un buon nome e un'elevata reputazione almeno in Toscana,
dove la mia generosità fu senza limiti e lo splendore della mia casa
e dei miei ricevimenti non fu eguagliato da alcun altro nobile
dell'epoca. Fino a che durò la mia magnificenza, tutto il paese fu
libero di parteciparvi; avevo nella rimessa abbastanza automobili da
preparare un team di rally e nelle mie cantine tante botti da
ubriacare per anni interi staterelli europei. Castel Portanova
divenne il quartiere di decine di gentiluomini bisognosi e io non
uscivo mai per una partita di caccia senza avere una dozzina di
giovani del miglior sangue che facevano da scorta al mio fuoristrada.
Mio
figlio dimostrava, in tutto e per tutto, di discendere da due nobili
famiglie, e io nutrivo per lui non poche speranze. Amavo lasciarmi
andare a tenere previsioni sui suoi futuri successi e sulla figura
che avrebbe fatto nel mondo. Ma il crudele destino aveva stabilito
che non avrei lasciato dietro di me nessuno della mia razza, e aveva
decretato che avrei finito la mia carriera, come vedo ora, povero,
abbandonato e senza eredi. Posso aver avuto i miei difetti, ma
nessuno potrebbe dire di me che non sia stato un padre buono e
affettuoso. Amavo con cieca parzialità quel ragazzino, e non
trascorre giorno, da quando l'ho perduto, in cui la sua faccia
ridente e il suo bel sorriso non mi fissino giù dal cielo, dov'è
ora. Quel caro bambino mi fu tolto all'età di nove anni, nel pieno
della bellezza e delle promesse, e la sua memoria mi domina in modo
così potente che non mi è mai riuscito a dimenticarlo.
Accadde
nel mese di ottobre: io ero stato a Siena, allo scopo di vedere un
avvocato e una persona ben provvista di denaro che era venuta sin lì
per consultarsi con me circa la vendita di certe miniere e il taglio
della tenuta di Fontanale, di cui, dato che odiavo quel luogo e avevo
grande necessità di denaro, ero deciso a tagliare fino all'ultimo
fuscello. La questione aveva presentato qualche difficoltà. Era
stato detto che non avevo diritto di toccare quel legname e i rozzi
contadini mi odiavano a tal punto che rifiutavano da settimane di
posare l'ascia sugli alberi; e il mio agente dichiarò che correva
pericolo di vita in mezzo a loro. A quell'epoca, ogni oggetto della
splendida mobilia del castello era stato venduto, non c'è bisogno di
dirlo, e l'argenteria aveva fruttato circa seimila euro, i quadri
trentamila e alcune cianfrusaglie dodicimila. Ad ogni modo, convinsi
Armando Gerondi, costruttore di navi e mercante di legname a Pisa, ad
acquistare il mio legname, e anche da lui ebbi cinquemila euro in
contanti. Lui non ebbe problemi a far abbattere la mia vecchia
tenuta, ve lo assicuro. Si presentò con la sua squadra e in due mesi
Fontanale era nudo di verde come il Sahara. Ma quel dannato denaro mi
portò sfortuna, visto che ne perdetti la maggior parte in due notti
al <<Modigliani>>, sicchè i miei debiti continuarono a
sussistere, e a me non rimasero che poche migliaia di euro in tasca.
Lasciai Siena con una certa fretta, ma lungo la Cassia mi fermai ad
un maneggio perché, mi fosse costato secoli di sacrifici, avevo
promesso a Rolando un pony per il suo decimo compleanno. Era un
grazioso animale e, includendo anche il trasporto fino alla fattoria
che sorgeva lungo la strada di Castel Portanova, mi costò una bella
somma; furono proprio i trasportatori, gente esperta che scarrozzava
cavalli a giro per mezza Europa da trent'anni, a dirmi di stare
attento, perché la bestia era ancora indomita: prese a calci un
garzone di stalla del mio vicino di casa, che tentò per primo di
montarlo, e gli ruppe una gamba, e fu grazie alla mia abilità e alla
mia esperienza se riuscimmo a tenere tranquilla fino al recinto
quella bestiaccia. Il mattino seguente mi svegliai di buon'ora e
ordinai ad uno dei miei contadini di correre a domare il cavallo,
perché, nel giro di alcuni giorni, mio figlio lo avrebbe dovuto
montare. Poi, dopo pranzo, davanti alla mia bottiglia, dissi al
povero Rolando, che mi assediava di noiose domande sul cavallino, che
era arrivato alla fattoria lungo la strada, dove Gigio, il contadino,
lo stava domando.
<<Promettimi,
amoroso>>, gridò la contessa, <<che non cavalcherai quel
cavallo altro che in compagnia del tuo papà>>.
Ma
io dissi soltanto: <<Ma che dici, testa di cazzo?>>,
perchè la sua sciocca timidezza mi fece rabbia, dato che ora ne
dispensava sempre molta in mille spiacevoli modi; e volgendomi al
bimbo dissi: <<Ti prometto che, se lo monti senza permesso, ci
sarà una bella dose di frustate!>>.
Immagino
che al povero bambino non importasse di ricevere questo castigo,
visto che, la mattina dopo, quando mi levai piuttosto tardi, essendo
rimasto alzato a bere fino a tarda ora la sera prima, trovai che il
fanciullo era uscito all'alba, scivolando silenziosamente davanti
alla camera di Sgranato, e non ebbi alcun dubbio che si fosse diretto
alla fattoria.
Afferrai
una lunga frusta, mi vestii velocemente e montai sul nostro
fuoristrada, correndo verso la fattoria e giurando che avrei
mantenuto la mia promessa. Ma smisi di pensarci, quando a trecento
metri da me incontrai una triste processione che mi veniva incontro,
contadini che gemevano e gridavano come usa da quelle parti, il pony
legato ben saldo ad un albero e visibilmente sfiancato, e infine,
sdraiato su un telo, il mio piccino. Il suo viso era bianco come un
panno lavato ed egli sorrise nel porgermi la mano, dicendo a fatica:
<<Non mi frusterai, vero papà?>>. Per tutta risposta
scoppiai in lacrime, afferrai il cellulare e chiamai un'ambulanza.
Avevo visto morire alcuni uomini e i morenti hanno negli occhi uno
sguardo su cui non ci si può ingannare.
Lo
portammo a casa e feci venire i dottori. Ma cosa possono i dottori
contro la cupa, invincibile nemica? Tutti quelli che visitarono il
mio Rolando poterono solo rafforzare la nostra disperazione con le
loro diagnosi sul povero bambino. Rolando era montato coraggiosamente
a cavallo ed era rimasto bravamente in sella mentre l'animale
scalpitava e tirava calci e, avendo il suo primo accesso di
ribellione, si era sentito più rilassato; ma il pony aveva corso
velocemente contro un muro di cinta, girando all'ultimo e facendo
letteralmente volare contro di esso il bambino, che aveva battuto con
tutte le forze la testa e non si era più alzato. Gli versarono
dell'acqua sulle labbra e si risvegliò (un mezzo miracolo che la
botta non gli avesse distrutto l'osso del collo ed egli non fosse
morto sul colpo), ma non poteva muoversi; come dissero da subito
quelli del pronto intervento, era stato offeso alla spina dorsale e
la metà inferiore del corpo era morta sul colpo; anche il resto non
durò a lungo. Rimase con noi per un paio di giorni, e fu una
consolazione ben triste sapere che non soffriva.
Chiese
perdono a me e sua madre per tutti gli atti di disobbedienza di cui
si era reso colpevole verso di noi e diceva spesso che gli sarebbe
piaciuto incontrare suo fratello, il bisconte. <<Lui era meglio
di te, papà>>, mi disse, lasciandomi di sasso, <<Non
bestemmiava e mi diceva e insegnava tante belle cose quando tu non
c'eri>>. Poi prese le mani di noi genitori e ci pregò di non
litigare, di amarci e di promettergli che ci saremmo rivisiti, un
giorno, in cielo. Fummo molto colpiti anche da questi ammonimenti.
Alla fine, dopo due giorni, morì, e lo seppellimmo con ogni
splendore. Ma a cosa valgono le piume del coreggio funebre e
l'orchestra sinfonica?
Mi
trassi in disparte e ammazzai con una fucilata il cavallino nero che
lo aveva fatto morire, proprio alla porta della cappella in cui
avevamo deposto il mio bambino. Ero totalmente impazzito e mi sarei
sparato anch'io, quel giorno. E se non fosse che è una colpa,
sarebbe stato meglio che l'avessi fatto, forse perchè, da quel
momento in poi, la mia vita sarebbe stata solo un seguito di miserie,
di guai, di disastri, di sofferenze mentali e fisiche, quali mai si
riscontrarono nel destino di nessun altro essere vivente dai tempi di
Giobbe in poi.
Clelia,
sempre ipocondriaca, nervosa e depressa, dopo la catastrofe divenne
più agitata che mai e sprofondò in un tipo di devozione che
rasentava il fanatismo, o peggio, la follia. Sosteneva che gli angeli
scendessero a parlarle di Rolando, e che, in realtà, il bisconte era
ancora vivo. I suoi attacchi di nervi erano difficili da
padroneggiare e in paese si cominciò a dire che la contessa fosse
definitivamente impazzita. Alcuni bravi informatori, fecero uscire le
voci dal circuito toscano, e le riportarono -gonfiandole a dismisura-
nei circoli romani dove un tempo mi ero dato un grande da fare.
Ricevetti i nomi di “Carognuccio” e “Diavolini”, e non so
quali altri; i contadini mettevano a giro stranissime dicerie sul mio
conto; i preti, invece, dicevano che in guerra avevo stuprato e
massacrato intere famiglie e che, a Roma, lo spirito del bisconte
infestava Fontanale. Da queste ed altre inenarrabili circostanze,
sorse una vera e propria leggenda sulla mia crudeltà.
Io
sono della vecchia scuola, sono sempre stato libero nelle mie
espressioni e nelle mie abitudini; ma, per lo meno, se dicevo e
facevo quello che mi piaceva, non ero cattivo come tanti bricconi
ipocriti, che ricoprono, insospettati, le loro imperfezioni e i loro
peccati con la maschera della santità. Così, senza peli sulla
lingua, proposi a Clelia di adottare un bambino ancora in fasce e di
spacciarlo per nostro figlio, così che io potessi avere almeno un
erede. Ella si disse disgustata dalla mia richiesta e prese,
finalmente, una posizione netta nei miei confronti, minacciando il
divorzio; la invitai a ritirarsi nelle sue camere, magari
accompagnata da Don Pardo, e di soffocarsi coi suoi libri di pietà.
Fortunatamente,
la mia cara madre era una vera e propria amministratrice, in tutti i
campi. Faceva lavorare le domestiche e teneva tutti i nostri operai
in fila; sorvegliava il vino in cantina e le stalle; sorvegliava la
salatura dei cibi, la preperazione delle conserve, le patate e il
pollame, la macellazione dei maiali e tutte le diecimila minuzie di
una grande azienda come la nostra. Se tutte le massaie toscane
fossero come lei, vi garantisco che oggi, là dove principalmente ci
sono ragnatele, splenderebbero grandiosi focolai domestici, e che
quei desolati pascoli, lasciati a cardi e roghi, sarebbero battuti da
bestiame di ogni sorta. Inoltre, molte e molte sere, quando non ero
neanche in grado di accorgermi della sua presenza, proprio mia mamma
sorvegliava i domestici che mi raccattavano dalla mia poltrona, caldo
di sbornia, e mi portavano a letto; ed era ancora lei a portarmi il
mezzo litro di caffè forte al mattino seguente. Del resto, non erano
tempi di pappe molli, ve lo assicuro. Un gentiluomo non pensava che
fosse vergogna scolarsi sei bottiglie di fila e, quanto ai vostri
caffè e alle tisane di acqua sporca, li lasciavamo alla contessa, al
prete e alle vecchie domestiche di Castel Portanova. Era l'orgoglio
di mia madre che io bevessi più di qualsiasi altro uomo del paese,
superando, a sua detta, anche quella buon'anima di mio padre.
Ma
mia mamma era troppo tranquilla e razionale per toccare i patrimoni
di mia moglie, cosa che mandava Clelia su tutte le furie. Ricevetti,
in un giorno terribile, una mail dal nostro avvocato romano, che mi
invitava a leggere gli allegati: erano oltraggiose copie di lettere
inviate ai nostri legali dove la contessa aveva elencato (non sempre
esagerando, purtroppo) i miei difetti e le vessazioni a cui la
sottoponevo, sia dal punto di vista privato, che da quello pubblico.
Ella aveva parlato, senza tralasciare alcun particolare, delle mie
cattive abitudini, delle mie sgradevoli compagnie e delle mie
origini; apostrofava mia madre come “la mignotta strega avida di
soldi” e mi dava del ladro, farabutto e delinquente, oltre che
dell'irrispettoso, ateo e opportunista. Concludeva una delle tante
missive minacciando il suicidio, quando io, che giravo per casa ogni
giorno, non avevo mai visto un coltello fuori posto o trovato
bicchieri sporchi di veleno per topi sulla tavola, né tantomeno il
gas lasciato aperto.
Ciò
che non riuscivo ancora a capire, era che i nostri avvocati, in
realtà, erano gli avvocati di mia moglie, e, prima di lei, lo erano
stati di Sor Filippo; e quello che davvero mi risultava
impercettibile, era il fatto che questi signori in giacca e cravatta
altro non volevano che liquidarmi, con la sottile complicità della
contessa, la quale nutriva, per me e la mia diletta madre, sentimenti
di astio al limite del sopportabile. Con un certo senso di stupore,
dunque, ricevetti un sms dal mio amministratore delle cave
Guicciardini, il quale pensava di poter recuperare parte di quei due
milioni versati (su sette e mezzo totali) tramite una rispettabile
ditta milanese, che si interessava di marmifere e offriva di
riscattare e concludere un lungo affitto per una nostra proprietà
libera da impegni, chiaramente con la firma della contessa e certe
garanzie. All'epoca i miei debiti erano tanto vasti e complicati che
neppure io stesso li conoscevo per intero ed ero diventato mezzo
pazzo per il loro incalzare. Basti dire che tutto il mio denaro era
sparito e che non avevo più alcun credito. Vivevo grazie alla mia
azienda agricola, che produceva quanto bastava a sfamarci; il resto
della roba se ne andava venduto e con il ricavato pagavo quei pochi
operai alle mie dipendenze. Da anni non mettevo più piede a Roma,
dove creditori di cui non ricordavo neanche i nomi mi aspettavano con
l'ascia alzata, e anche le mie visite senesi o fiorentine divennero
sempre più risicate. La probabilità di un buon debito, dunque, era
per me la più ben accetta di tutte le prospettive possibili e la
salutai con l'entusiasmo che si può immaginare. Le condizioni che ho
già elencato vennero rese ulteriormente più dure dal fatto che fui
invitato a trattare direttamente negli uffici romani della ditta.
Questo fu un vero colpo per me, ma non potevo dettare certe
condizioni e, lasciando perdere mia madre che mi scongiurava di non
andarci, partii con la contessa. La benzina fu pagata da mia mamma,
che tirò fuori da una calza sessanta euro. In che pessime condizioni
mi ero ridotto!
Fu
solo dopo lunghe preghiere, che l'anziano zio vescovo, il quale aveva
mantenuto il suo ruolo di guardiano della tenuta di Palestrina, ci
dette ospitalità per la notte; usufruii di un computer del salotto
per inviare una mail al mio agente, dicendo che mi sarei fatto
trovare all'ufficio la mattina seguente alle ore dieci, pregandolo di
procurarmi il nome di un hotel e di affrettare i preparativi
burocratici del prestito. Quella notte, io e Clelia convenimmo
insieme che ce ne saremmo andati dall'Italia e che ci saremmo
trasferiti in Svizzera, in attesa di tempi migliori; presi a fare
alcuni calcoli e progetti sul nostro futuro, ma non vedevo la mia
signora molto coinvolta.
Alle
nove e trenta del mattino, eravamo a Roma, e un quarto d'ora prima
dell'ora fissata, la mia macchina venne lasciata in una traversa di
via delle Botteghe Oscure, dove entrammo in un elegante palazzo e
pregammo l'ascensorista di portarci al quarto piano; avevo davanti
l'ingresso dello studio legale Zampetti, affiliato alla ditta
interessata alle mie terre. Ci aprì una segretaria sulla trentina,
con uno stiloso tailleur e due tacchi mostruosamente alti.
<<Dite
all'avvocato che Sbelluccio Bellini è qui>>, la pregai.
Il
dottor Zampetti era nella sua stanza, che odorava di chiuso e
mozziconi, circondato da scartoffie e libroni; si alzò in piedi e si
presentò, poi si diresse ad una porta cui dava le spalle e la
spalancò. Rimasi di sasso, quando vidi entrare due agenti di finanza
e il conte Candeli, l'uomo che era stato uno dei più grandi
truffatori nei quali mi ero imbattuto. Giurai a quell'uomo, e chi era
in quella stanza ne è testimone, che qualunque cosa avesse fatto, lo
avrei ucciso con le mie mani; e aggiunsi che gli sarebbe convenuto
morire mentre io sarei stato a marcire in galera, e solo allora venni
interrotto dallo Zampetti:
<<Ma
noi non intendiamo arrestarla! Nessuno la vuole vedere in galera,
caro signore. Vi daremo una bella somma di denaro se lascerete il
paese e soprattutto sua moglie. Così, l'Italia avrà un delinquente
in meno e sua moglie potrà finalmente vivere felice, senza di lei>>.
Replicai
che era una follia forzare un divorzio, ma fui subito zittato
dall'avvocato:
<<Vede,
faccio questo lavoro da molti anni e in gioventù lavoravo nel ramo
matrimonialista. Le posso assicurare che non ho mai obbligato nessuno
a divorziare senza che mi fosse pervenuta una richiesta. E di
richieste, da parte della sua signora, qua in ufficio, ne sono giunte
anche troppe!>>, e additò una cartella da archivio messa in un
angolo della scrivania. Avevo lo spirito disfatto, ero perso nella
ragnatela ed ero in terra da troppo tempo; mi accorsi che in quel
momento, ribellandomi, avrei solo iniziato a scavare.
Una
delle poche letture colte che ho fatto durante la mia permanenza a
Fontanale è quella di Livio, scrittore latino nato a Padova ma
profondamente legato a Roma, alla quale ha dedicato la sua intera
vita artistica scrivendo la Ab urbe condita, di cui mi aveva
colpito la storia delle guerre puniche; in particolare, mi tornò
alla mente di quando Annibale, ormai in Italia, decise di far fermare
le truppe a saccheggiare un paesello prima della capitale; qua i
soldati razziarono e mangiarono e bevvero in quantità, saziandosi
completamente degli agi e dei piaceri della vita, così che nella
prima scaramuccia furono facilmente battuti. Così era per me adesso.
Le mie forze di mente e di fisico non erano più quelle del
coraggioso giovane che aveva colpito il suo primo avversario appena
maggiorenne e aveva preso parte a molte battaglie, pubbliche e
private, uscendone sempre vincitore. I finanzieri se ne andarono e
mia moglie fu portata via dal conte Candeli, mentre l'avvocato
chiamava la sua segretaria e si faceva portare alcuni fascicoli,
contenenti le condizioni che proponevano Clelia e i suoi nuovi amici:
una miserabile somma annua di settemila euro, da pagarsi a condizione
che io restassi all'estero, e da sospendere immediatamente in caso di
un mio ritorno. Aggiunse che, se avessi rimesso piede a Roma, e in
generale in Italia, sarei stato arrestato, e che il mio credito era
così scaduto che nessuno, in tutto il paese, mi avrebbe potuto
fornire un prestito. Se avessi accettato subito, mi avrebbero pagato
il viaggio per qualsiasi destinazione a mia scelta e mi avrebbero
fornito un trimestre della mia annualità. Frustrato e col cuore a
pezzi, cosa potevo fare? Presi la somma e fui dichiarato praticamente
un “fuorilegge fiscale” a partire dalla settimana successiva. Mia
madre si offrì di accompagnarmi nel mio solitario esilio e lasciò
Castel Portanova nel giro di un paio di giorni, e tutto fu silenzio
in quel palazzo che, quando ne ero io il padrone, aveva sfoggiato
tanta ospitalità e tanto splendore. Ora mamma è molto vecchia e
proprio in questo istante è seduta qui, al mio fianco, a lavorare:
ha una stanza per dormire in via De Seta, dall'altra parte della
strada dove sorge il residence, e con la sua rendita di poche
centinaia di euro riusciamo a tirare avanti in una miserabile
esistenza, assolutamente indegna del famoso e tanto elegante
Sbelluccio Bellini.
EPILOGO
Il
racconto personale di Sbelluccio Bellini finisce qui, perchè la mano
della morte interruppe ben presto l'ingegnoso autore, dopo il periodo
in cui le Memorie furono
compilate. Aveva vissuto per diciannove anni ospite della prigione
Ucciardone (da lui chiamata il “residence”), i cui registri
affermano che morì di cirrosi epatica.
Sua
madre raggiunse un'età prodigiosamente avanzata e coloro che
lavoravano al carcere palermitano ricordano chiaramente i litigi
giornalieri che avevano luogo fra madre e figlio; fino a che
quest'ultimo, a causa della sua abitudine di ubriacarsi, cadde in uno
stato di rimbambimento quasi permanente e fu curato, anche in galera,
dalla vecchia madre. Era come un bambino in fasce e piangeva se
privato del bicchiere di grappa che gli era ormai necessario.
La
sua vita in giro per l'Europa non c'è dato di conoscerla in
dettaglio; sembra però che riprendesse la sua antica professione di
giocatore, senza avere però il successo di un tempo. Dopo qualche
tempo, tornò segretamente in Italia e fece un ifruttuoso tentativo
di estorcere del denaro al conte Candeli, con la minaccia di
pubblicare foto che in realtà non esistevano. Sfuggì alla cattura
per un pelo e nonostante i pressanti consigli dei legali, la contessa
di Monteverde non volle sospendergli la pensione, e preferì rompere
i rapporti con lo stesso Candeli.
Per
quanto riguarda la bella Clelia, ormai anziana, si era stabilita
definitivamente a Veio, dove conduceva una vita appartata, sostenuta
dai suoi fidi assistenti, don Pardo e Sgranato, cui spettava il
compito di amministrare con grande attenzione quanto era rimasto del
patrimonio di famiglia. I complicati piani che Sbelluccio aveva in
mente per riottenere in moglie quella donna furono stroncati sul
nascere dalla comparsa di una persona che era stata ritenuta morta
per parecchi anni. Questa altri non era che il bisconte di
Palestrina, che si ripresentò con grande sorpresa di tutti. Egli era
stato coinvolto negli scandali di Wall Street, erroneamente dato per
suicida, finito in galera e poi scarcerato, grazie ad un bravo
avvocato. Saputo della storia del suicidio e avendo notato che
nessuno della sua famiglia si era interessato tanto alla faccenda,
aveva deciso di restare morto per il mondo e, in particolare, per sua
madre.
Fu
proprio il bisconte a riconoscere il suo ex-patrigno in una sala
scommesse del centro, a chiederne la sorveglianza e ad ordinare la
carcerazione immediata. Il processo fu uno dei più brevi della
storia d'Italia, e il distinto signor Bellini passò da Regina Coeli
ai Piombi veneziani, fino ad approdare all'Ucciardone. E finchè
visse la contessa, Sbelluccio godette del suo assegno e fu forse
felice in prigione come non lo era mai stato; ma quando Clelia morì
e le successe il figlio, l'assegno cessò di essere inviato al
prigioniero. Alla morte del bisconte, avvenuta in seguito ad un
impegnativo coca-party torinese, il patrimonio dei Monteverde fu
ereditato dalla famiglia dei Cortina (biscugini della contessa) e il
suo titolo si spense, assorbito dal loro, che era superiore. Non
risulta che il marchese Gianluigi Cortina abbia seguitato a versare
l'assegno a Sbelluccio, né che si fosse interessato a quella
situazione. La proprietà, tuttavia, migliorò considerevolmente
sotto l'attenta amministrazione del marchese.
Gli
alberi di Fontanale hanno tutti quarant'anni, ormai, e le proprietà
toscane sono affittate sotto forma di appezzamenti molto piccoli ai
contadini del luogo, che ancora intrattengono i forestieri coi loro
racconti sull'audacia, le diavolerie, la cattiveria e la caduta
finale di Sbelluccio Bellini.
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