XI
FACCIO
LA MIA COMPARSA
COME
FIORE ALL'OCCHIELLO
DELLA
SOCIETA'ITALICA
I primi giorni di matrimonio sono
abitualmente molto difficili e ho conosciuto coppie che hanno vissuto
insieme come colombi per tutto il resto della loro vita, ma che sono
state sul punto di cavarsi gli occhi durante la luna di miele. Io non
sfuggii alla sorte comune; nel nostro viaggio verso Roma la contessa
Clelia riuscì a bisticciare con me perchè tirai fuori una sigaretta
(avevo preso l'abitudine di fumare durante la guerra in Iraq, e non
ho mai potuto liberarmene) e mi misi a fumare in macchina; e la sposa
decise di prendersela a male tanto ad Acquapendente che a Grotte di
Castro, perchè la sera, quando ci fermammo, io volli invitare gli
albergatori a stappare una bottiglia con me. Clelia era una donna
altera e io invece odio la superbia: ma vi assicuro che in tutti e
due i casi domai questo suo difetto. Nel terzo giorno del nostro
viaggio mi feci accendere una sigaretta dalle sue stesse mani, e,
giunti a Palestrina, l'avevo sottomessa così completamente che ella
mi chiese umilmente se non volevo invitare anche alcuni domestici a
festeggiare con noi. Io non avrei avuto obiezioni a questa proposta,
ma il vescovo Picarri, che era lo zio di Clelia (con lei condivideva
l'enorme tenuta di Palestrina), e il buon costume non permettevano di
appagare la richiesta di mia moglie. Feci la mia comparsa con lei al
servizio della sera, per porgere i complimenti al vescovo zio, e
volli donare milleventicinque euro per contribuire alla fabbricazione
di un nuovo organo per la cappella di famiglia. Questo modo di
comportarmi, proprio all'alba della mia carriera in quella provincia,
mi rese non poco popolare presso chiunque.
Prima di arrivare a Roma, dovemmo
attraversare per venti chilometri le proprietà dei Monteverde sparse
lungo la via Cassia, dove la gente usciva fuori per vederci, il prete
passava a benedirci e i fittavoli ci lasciavano un rapido resoconto
delle ultime entrate. Io gettavo spiccioli a quelle brave persone, mi
fermavo a baciare il parroco e a fare due chiacchiere con i fittavoli
e, se trovavo che le ragazze della Cassia erano tra le più carine
dello Stato, è forse colpa mia? Queste osservazioni fecero adirare
Clelia oltre ogni immaginazione. Pensai alla gelosia di mia moglie, e
riflettei, non senza un profondo dispiacere, con quanta leggerezza si
era comportata quando era vivo il suo primo marito, e che i più
gelosi sono proprio quelli che danno agli altri maggior motivo di
gelosia.
Attorno a Veio la scena
dell'accoglienza fu particolarmente bizzarra: i fotografi ci
aspettavano e, appena scesi dalla macchina per salutare, mi parve si
essere finito ad una conferenza stampa dell'ONU, solo senza archi,
bandiere e quant'altro. I flash mi colsero alla sprovvista, e
il mattino seguente la mia nobile espressione di gentiluomo
meravigliato era in ogni quotidiano romano degno di rispetto. Rimasi
inoltre colpito, all'altezza delle Mura Serviane, dove la Cassia si
unisce alla via Flaminia, poiché Clelia mi indicò un grande parco e
poi un cancello, a partire dal quale si snodava un viale di nobili
olmi fino al Fontanale. Avrei voluto che fossero state querce, quando
tagliai quegli alberi, perché avrebbero fruttato tre volte tanto;
non conosco niente di più biasimevole della trascuratezza degli
antenati nel piantare nei loro terreni legname di scarso valore,
quando avrebbero potuto piantare altrettanto facilmente delle querce.
Sicchè ho sempre detto che il baciapile Monteverde di
Fontanale, che piantò quegli olmi ai tempi dei Borgia, mi frodò di
diecimila euro.
Per i primi giorni dopo il nostro
arrivo, il mio tempo fu speso piacevolmente nel ricevere le visite
della nobiltà e delle persone più distinte che venivano a porgere i
loro omaggi alla nobile coppia di novelli sposi e a passare in
rassegna i tesori, la mobilia e le numerose camere della villa. È
questa una vasta e antica villa rinascimentale, che si eleva nel
mezzo di una bella riserva di caccia, che era magnificamente popolata
di cervi, e non posso fare a meno di ammettere che da principio la
mia soddisfazione era grande, quando sedevo nel salotto dalle pareti
di mogano, nelle sere d'estate, con le finestre aperte, i piatti
d'oro e d'argento splendenti di cento magnifici colori sulle
credenze, una dozzina di amici allegri attorno alla tavola, e
guardavo fuori nel vasto parco verdeggiante e negli ondeggianti
boschi e vedevo il sole tramontare sulla città o udivo le campane
richiamarsi l'un l'altra. L'esterno era, quando vi arrivai la prima
volta, una singolare composizione di tutti i generi d'architettura:
un paio di torrette medievali, muri rustici tirati su dopo il secolo
buio seicentesco e un giardino all'italiana che forse era il vero
fiore all'occhiello di tutta la tenuta. Ma non c'è bisogno che mi
soffermi a parlarne ancora, dato che avevo deciso io lo stile da dare
a tutto il castello, impiegando ingenti risorse economiche per
contattare un architetto alla moda. Feci togliere erbacce e sterpame
e volli una lunga scalinata che conducesse dalla strada alla porta di
ingresso e che iniziasse di fronte alla rimessa.
Il portone di ingresso del piano
terra presentava un atrio molto elegante, dal quale due rampe di
scale conducevano al primo piano; una porta sulla destra portava ad
un piccolo corrodio lungo il quale si trovavano la stanza di
divinazione (come ho già accennato con l'episodio della chiromante
nel precedente capitolo, Clelia era un'appassionata di questa
disciplina) e una sala degli specchi; invece, una porta parallela a
quella d'entrata permetteva di accedere ad un corrodio ben più
ampio, lungo il quale si trovavano ben undici vani: una lavanderia,
confinante con la stanza del nostro maggiordomo; la moderna sala da
ballo, che conteneva a sua volta la porta del nostro magazzino (pieno
di oggetti utili nell'organizzazione di feste); una sontuosa sala da
pranzo e la cucina adiacente (questa si affacciava su un piccolo
giardinetto destinato ai cani di Fontanale, che era diviso tramite un
muro di cinta alto quasi tre metri dal cimitero familiare); e poi la
sala proiezioni (un vecchio prozio adorava il cinema), la sala
biliardo (dove ho trascorso serate fra uomini veramente piacevoli) e
la stanza degli strumenti musicali, tanto desiderata dalla mia
signora nel corso del suo precedente matrimonio; in fondo a questo
splendido corridoio, si trovavano un bagno (posto sulla sinistra) e
la porta che conduceva nel parco. Attraversato il giardino,
curatissimo dal nostro giardiniere (per il quale avevo fatto
edificare un capanno in legno proprio nel giardino) e abbellito dalla
presenza di un pozzo medievale, si arrivava alla palestra, che avevo
reso completa e professionale, tramutandola nell'invidia di molti
aristocratici romani.
Ho già descritto le due rampe di
scale che conducevano al primo piano della nostra villa, un piano che
nulla aveva da invidiare ai lussi di quello inferiore; qui, infatti,
io e Clelia avevamo la nostra camera matrimoniale da sogno, messa un
po' più in disparte, per rispetto alla privacy di cui ero
accanito sostenitore sin dall'infanzia; un primo corridoio sulla
sinistra costeggiava l'enorme biblioteca (dove trovavano posto quasi
trentamila tomi), una stanza adibita a nursery, la cameretta
del bisconte e un'ulteriore camera per due bambini ospiti (poteva
capitare che qualche nobile si presentasse con famiglia a seguito e
non potevamo farci trovare impreparati); la stanza da tè era invece
stata studiata quasi esclusivamente dalla contessa, essendo ella una
cultrice delle ore diciassette e di quella calda bevanda; da questa
si poteva giungere in un'anticamera, che non aveva uno scopo preciso,
se non quello di portare, a sua volta, al nostro ingente guardaroba,
che occupava da solo un vano di pochi metri quadrati e che terminava
con un balconcino; per la mia cara mamma, che sapevo per certo
sarebbe venuta a trovarci sovente, feci approntare dal nostro geniale
architetto una camera del cucito, dove poter praticare il suo
passatempo preferito, e la stessa attenzione la dedicai allo studio
della sala da cena, visto che vi avrei condotto i nostri illustri
ospiti in centinaia di occasioni; più in disparte, ma non per questo
meno affascinanti, stavano un magazzino vuoto (che per dimensioni era
analogo a quello del piano terra) e una stanza delle scienze celesti,
voluta dal momento che il bisconte era un piccolo appassionato di
quella disciplina; non vedendolo particolarmente soddisfatto, decisi
di ampliarla e di adibire un vano di poco più piccolo ad
osservatorio (con tanto di telescopio professionale fabbricato a
Venezia, e un balcone, dove recarsi nelle notte stellate).
Il secondo piano fungeva un po'
più da zona appartata e disordinata della casa, tant'è che decisi
di non toccarlo o quasi; il Sor Filippo lo aveva dedicato solo a se
stesso e alle sue strampalate collezioni di gentiluomo annoiato,
tant'è che questo presentava un'illuminazione più scarsa e spazi
notevolmente ridotti rispetto agli altri due; la stanza dei trofei di
caccia riusciva comunque ad affascinarmi, così come il grande
atelier dell'artista (quel vecchio nobile era stato, in vita, un
discreto pittore) e la camera delle armature; non potevo dire
altrettanto della polverosa stanza dei telefoni, di quella delle
ceramiche e dei vasi o di quella dei giocattoli; la più assurda,
infine, risultava quella degli orologi (circa seimila pezzi, che io
volli fermare), da cui però feci partire un piccolo ascensore che
permettesse di recarsi con grande agilità sul tetto della villa; un
enorme terrazzo, coronato da grandi vetrate settecentesche e
affacciato su tutta la città, concludeva in bellezza questo secondo
piano antico e lasciato un po' a morire.
Sin dall'antichità, è risaputo
che le case dei signori presentassero qualche piccolo segreto, e io
non volevo essere da meno dei duchi di Windsor: così, dopo un mese
dall'inizio dei lavori, presentai il mio progetto per rendere
infinitamente più misteriosa e aristocratica la nostra dimora; tutto
consisteva nel rivalutare il piano sotterraneo della villa, che al
mio arrivo comprendeva una rampa di scale in legno, un vano
interruttore e una cantina che poteva risultare curata quanto un
salone dell'Hermitage; dalla cantina, una porta in metallo conduceva
in un vecchio condotto fognario, lungo il quale feci erigere una
cella frigorifera (destinata alle nostre pietanze più prestigiose) e
un vano tubature; infine, tenendo per me e l'architetto il segreto,
feci prolungare quel budello e, giunto al pari del giardino, detti
ordini di allargare smisuratamente il terreno, permettendo la
costruzione di una stanza segreta dotata di ogni svago e comfort; per
renderla praticamente introvabile, feci mettere due porte lungo il
corridoio, di cui solo il sottoscritto avrebbe posseduto la chiave.
Tolsi
buona parte dei quadri e inviai un mio uomo a comprarne altri, a giro
per le aste; peccato che, per motivi di gusto o di delinquenza, i
trecentomila euro che il mio agente spese in opere pittoriche quel
giorno, ne avrebbero fruttati trentamila anni dopo, quando fui
costretto a rivenderle frettolosamente. Al di là della villa, il
nostro intrapendente architetto voleva mettere le mani anche sulla
chiesa, ma don Pardo glielo impedì con tutte le sue forze ed io fui
costretto a mettere un freno alle sue idee, che pure mi rimanevano
simpatiche. Gli permisi, d'altro canto, di potersi sbizzarrire sulla
colonica della servitù, il garage e il bosco; e riguardo a
quest'ultimo voglio narrare un aneddoto. I contadini della Cassia
chiamavano quella che ora era la mia riserva cornicularum
saltus,
cioè il “bosco delle cornacchie” e sin dall'antichità era stato
messo in giro un inquietante proverbio: <<Cum
ceciderit lignum ad cornicularum, tunc ille cadet Fontanales>>,
che vorrebbe dire <<Quando cadrà il bosco delle cornacchie,
cadrà anche il Fontanale>>.
Ho
già parlato della cantina della nostra villa e di come fosse ben
fornita e curata, oltre che della nostra spaziosa cucina adiacente
alla sala da pranzo; ma oltre alle strutture adeguate, avevamo
bisogno anche del personale giusto, un aspetto che io decisi di
riformare completamente. Chiamai così il mio amico Gianni Mughini,
che mi mandò un cuoco dalla Mansion
House di
Londra esperto in cacciagione e volatili di ogni sorta; e poi mi feci
venire anche uno chef
parigino
con un paio di aides
a
seguito, un pasticcere veronese e alcuni officiers
de bouche.
Tutti accessori naturali per un uomo di un certo stile. E nessuno dei
nostri vicini se ne andava da un pranzo senza una sufficiente dose di
entusiasmo, neanche il più modesto parroco senza pretese del
quartiere. Ma la nobiltà di cui parlo sapevo come conciliarmela
anche in altri modi. Nella zona c'era stata, da sempre, solo una muta
comune di cani e poche miserevoli coppie di vili bracchi destinati
alla caccia (talvolta, da quelle parti, i gentiluomini partivano per
battute fuori porta che potevano addirittura farli sconfinare in
Toscana o in Umbria); io costruii un canile e delle stalle che
costarono sessantamila euro e li riempii in modo degno dei miei
antenati toscani. Avevo due mute di cani e nella stagione uscivo
quattro volte la settimana, seguito da almeno tre compagni.
Questi
mutamenti e questo stile di vita richiedevano, come si può
immaginare, non poca spesa e debbo confessare che in me c'è ben poco
di quello spirito d'economia che taluni praticano e ammirano. Bisogna
tener presente che avevo sulle proprietà di Monteverde un interesse
che non oltrepassava la probabile durata della mia vita, che avevo
sempre avuto una certa facilità a trattare con gli strozzini e che
dovevo spendere un bel po' anche per assicurare un degno andamento di
vita alla contessa.
Dopo
un anno di matrimonio, Clelia mi fece dono di un figlio: lo chiamai
Rolando, come l'eroe della Chanson,
ma che cosa potevo mai lascargli, all'infuori di un nobile nome? Non
erano forse le proprietà della madre destinate tutte a quell'odioso
bisconte, che pure viveva a Fontanale con il suo paziente istruttore?
L'insubordinazione di quel ragazzo era spaventosa. Faceva adirare la
madre nelle maniere più assurde, ma devo ammettere che non era
dedito al gioco, alle donne o alle droghe; anzi, a scuola riusciva
bene e godeva di un bel cervello. Una volta -ero di ritorno da una
cavalcata- presi una frusta a nove code per castigarlo e lui tornò
con un coltellaccio e credo mi avrebbe accoltellato, così lasciai il
mio strumento di tortura e gli tesi la mano, chiedendo solo pace e
amicizia; così ci riconciliammo, quella volta, e anche la seguente,
e la seguente ancora; ma non c'era affetto fra di noi e il suo odio
per me sembrava crescere a vista d'occhio.
Decisi
allora di dotare il mio Rolando di una proprietà e, a questo scopo,
feci tagliare dodicimila euro di legname sulle proprietà di Castel
Portanova e Poggio Bonizio della mia bella Clelia; i miei
commercialisti iniziarono ad urlare e a dire che non avevo neanche il
diritto di pensare ad uno solo di quei fuscelli, ma io feci abbattere
gli alberi lo stesso e permisi a mia madre di ricomprare quelle terre
che, in un tempo lontano, avevano fatto parte delle immense proprietà
della mia casata. Ella le ricomprò con grande avvedutezza e con
profonda gioia, perchè il suo cuore si rallegrava all'idea che mi
era nato un figlio e al pensiero delle mie meravigliose fortune. A
dire la verità, avevo un certo timore, ora che vivevo in un ambiente
così diverso da quello in cui ella era abituata a muoversi, che
venisse a farmi una visita, facendo stupire i miei amici romani con
le sue millanterie, col suo modo di esprimersi sempliciotto, col suo
rossetto e le sue sottane di trentacinque anni prima, che le si
addicevano molto all'epoca della sua gioventù, ma che era
appassionatamente convinta essere ancora all'ultima moda. Così,
quando le telefonavo, cercavo di rimandare la sua visita, pregandola
di venirci a trovare quando fosse stata ultimata l'ala sinistra della
villa o ultimato il giardino e così via.
<<A
me basta uno squillo, Sbellu>>, rispondeva la vecchia signora.
<<Non verrò a disturbarti tra i tuoi altolocati amici romani
con le mie maniere da toscanaccia fuori moda. È un sollievo sapere
che il mio ragazzo ha raggiunto la posizione che ho sempre pensato
gli fosse dovuta e per prepararlo alla quale ho fatto tanti
sacrifici. Però, un giorno, devi portarmi il piccolo Rolando. Fai
gli auguri alla contessa da parte mia, e dille che ha un tesoro
accanto che non avrebbe trovato neanche sposando un duca, visto che
il tuo sangue, o il mio, sono i migliori che possano scorrere nelle
vene. Non mi darò pace finché non vedrò te conte di Castel
Portanova, e mio nipote bisconte>>.
Va
detto che per la mente di mia madre e per la mia passavano le stesse
idee. Avevo già fatto stampare delle carte da visita con su scritto
“Conte Sbelluccio Bellini di Monteverde” e, con la mia abituale
impetuosità, avevo deciso di conseguire il mio scopo. Mia madre andò
a stabilirsi proprio a Castel Portanova, e io, potete esserne certi,
feci correr voce che era un posto di non poca importanza. Tenevo nel
mio studio una pianta della proprietà e i progetti per l'ampliamento
della storica dimora della nostra famiglia, ed essendo stati messi in
vendita ottocento ettari di terreno acquitrinoso, li acquistai a
trecento euro l'ettare, sicché, sulla pianta, il mio castello
sembrava tutt'altro che insignificante. Sempre in quel periodo,
condussi le trattative per l'acquisto delle cave marmifere
Guicciardini dall'omonimo barone, per sette milioni di euro: un
affare imprudente, che mi fu causa di dispute, processi e liti
interminabili. Del resto, i guai del possedere, la bricconeria degli
amministratori, i pasticci degli avvocati sono senza fine. La gente
modesta invidia noi, grandi uomini, e immagina che le nostre vite
siano tutte piaceri. Più d'una volta, durante la mia prosperità, ho
sospirato i giorni della più modesta fortuna e ho invidiato i miei
compagni d'armi di un tempo lontano, i quali vivevano senza neppure
una delle tormentose preoccupazioni e responsabilità che sono i
fastidiosi accessori della proprietà e dell'alto rango.
Nel
natio Granducato di Toscana, feci poco più che una comparsa per
assumere la direzione delle mie proprietà, ricompensando
generosamente coloro che erano stati gentili con me nelle mie
precedenti avversità e prendendo il posto che mi spettava tra
l'aristocrazia del paese. Ma, in verità, avevo pochi allettamenti a
rimanere lì, dopo aver gustato i piaceri più aristocratici e
completi della vita romana; così, passavamo l'estate fra Palestrina,
Roma e Veio, per poi partire verso qualche paese estero.
È
meraviglioso come il possesso della ricchezza faccia venire alla luce
le virtù di un uomo o comunque dia loro vernice o lustro e metta in
evidenza il loro splendore e il loro colore in modo mai conosciuto
quando l'individuo stagnava nella grigia atmosfera della povertà. Vi
assicuro che ci volle assai poco tempo perché diventassi proprio un
personaggio di prim'ordine e facessi una certa sensazione nei caffè
di Piazza Venezia e, in seguito, nel celeberrimo Circolo della
Caccia. Il mio stile, le mie fuoriserie e i miei party erano
sulla bocca di tutti ed erano descritti in tutti i giornali del
mattino. La parte più modesta della mia famiglia cominciò a
comparire all'improvviso ai nostri ricevimenti, e trovai, fra Roma e
dintorni, più cugini di quanti mi fossi mai sognato d'avere, che
proclamavano la loro parentela con me. Straccioni, giocatori
d'azzardo, veterani di guerra, operai e arricchiti si ritrovarono a
passare di fronte alla porta di Sbelluccio Bellini di Monteverde, ma
io potevo solo spendere qualche reale parola, lasciandoli tutti con
un pugno di mosche.
Dopo
un certo tempo, la contessa ed io iniziammo a condurre vite separate,
quando eravamo a Roma. Ella preferiva la quiete, o meglio, a dire il
vero, ero io che la preferivo per lei, poiché ritengo che alla donna
si addica un contegno tranquillo. La incoraggiavo, quindi, a pranzare
in casa, con le sue amiche e don Pardo; permettevo a tre o quattro
persone discrete di accompagnarla all'Auditorium o ai concerti in
occasioni adatte; e declinavo per lei le troppo frequenti visite di
amici e parenti, preferendo accoglierli durante le nostre maestose
cene. Inoltre, ella era madre e le era di grande conforto vestire,
educare e vezzeggiare il nostro piccolo Rolando, per amore del quale
conveniva che rinunciasse ai piaceri e alle frivolezze del mondo.
Adoravo
comportarmi con lei da vero tiranno, quando non volevo rendermi conto
che ero, in realtà, il povero custode severo e diligente di una
donna sciocca, di cattivo carattere e di debole mente. E per fortuna
voleva molto bene al nostro figlioletto, per mezzo del quale avevo su
di lei un dominio effettivo e completo, perché, se pretendeva di
avere la meglio nelle nostre litigate e di affermare la sua autorità
contro la mia, se si rifiutava di firmare delle carte che io potevo
ritenere necessarie per l'amministrazione della nostra vasta e
intricata proprietà, io portavo via Rolando, ad Acquapendente, per
un paio di giorni; e vi garantisco che la sua mammina non riusciva a
tenere duro a lungo e finiva per essere d'accordo con tutto ciò che
mi veniva in mente di proporre. Invece della consueta servitù, mi
vidi costretto a dover scegliere minuziosamente, fra le tante
cameriere che venivano a casa con i loro curriculum, le più
sgualdrine; peccato che, nel giro di poche settimane, la mia signora
moglie le cacciasse di casa adducendo scuse totalmente infondate e
impedendo al sottoscritto di divertirsi a dovere.
Anche
da milionario, non abbandonai mai il gioco; addirittura, in alcuni
mesi dell'anno, organizzai, coi miei conoscenti altolocati, dei
viaggi presso i più prestigiosi casinò d'Europa; ebbi così modo di
rivedere vecchie facce e riprendere la mano in un'attività nella
quale, almeno una volta, non avrei avuto rivali. Certo è che per due
anni a fila, fra la capitale e l'estero, perdetti molto denaro ad
ogni gioco di carte e alla roulette, e mi vidi costretto a far fronte
alle mie perdite attingendo numerosi prestiti sulle rendite annuali
di mia moglie, sull'assicurazione sulla vita della contessa, e così
via. Le condizioni a cui presi a prestito queste somme erano molto
onerose e intaccavano notevolmente la proprietà; e furono proprio
queste carte che Clelia (taccagna, ristretta e timida) rifiutò
occasionalmente di firmare, fino a che io non la persuasi, nel
modo che ho esposto precedentemente.
Dovrei
qui accennare anche al rapporto con le scomesse sulle corse dei
cavalli, dato che fanno parte della mia storia di quei tempi; ma, in
verità, non mi fa particolarmente piacere ricordare le mie imprese
all'ippodromo delle Capannelle. Venivo imbrogliato e frodato in modi
assurdi in quasi tutti gli affari che facevo, benché mi intendessi
di cavalli tanto bene quanto qualsiasi altra persona in Italia.
Quindici anni dopo che il mio cavallo, Big Boy, di Campiglia
d'Orcia, discendente di Giunone, aveva perso le corse alle
Capannelle, in cui era il primo favorito, seppi che un nobile conte,
che non nominerò qui, era entrato nella sua stalla la mattina, prima
che corresse; e la conseguenza fu che vinse un cavallo forestiero e
che il sottoscritto rimase fuori per la somma di quindicimila euro.
Gli ignoranti direbbero che lì, in un luogo frequentato dalla più
elegante ed antica nobiltà italiana, uno avrebbe potuto sentirsi
sicuro di giocare correttamente e di essere non poco orgoglioso della
compagnia in cui si trovava; eppure, vi assicuro che non c'era
raccolta di uomini che sapesse come rubare, imbrogliare, corrompere,
propinare droghe a un cavallo o manipolare un libro di scommesse in
modo più distinto di tutti quei signori.
Ora
che ero arrivato al colmo delle mie ambizioni, sembrava che tanto la
mia abilità quanto la mia fortuna mi avessero abbandonato. Tutto ciò
che toccavo andava in briciole fra le mie mani; tutte le speculazioni
che facevo andavano male; tutti i professionisti di cui mi circondavo
(e ai quali relegavo la mia totale e sincera fiducia) mi ingannavano.
La verità, è che io sono uno di quegli uomini nati per fare, e non
per mantenere, le fortune, perchè le qualità e l'energia che
portano un uomo a farsi largo nel primo caso sono spesso proprio la
causa della sua rovina nel secondo; e davvero non riesco a vedere
altre ragioni alla sfortuna che piombò su di me.
Introdotto
tramite alcuni amici, in un circolo letterario, proposi la fondazione
di una rivista di lettere (disciplina per la quale, sin da bambino,
avevo sempre stravisto) da me finanziata. La risposta più garbata
che ottenni la dette un certo Gasparri, mediocre ritrattista
proveniente dai Parioli, il quale, gentilmente, mi invitò a pensare
ai miei cavalli e ai miei sarti e di non impicciarmi con la
letteratura. Poi, fu la volta in cui volli provare ad entrare in
società con i fratelli Zampetti, famosi a Roma per possedere
ristoranti e discoteche di gran moda: con questi due distinti
delinquenti, riuscii ad aprire un locale costato due milioni e mezzo,
ossia il <<Piccolo Teatro>>, un luogo simpatico e vivace,
che sorgeva a due passi dal Tempietto della Pace. Io ne scrivo ora,
nella mia gottosa vecchiaia, quando la gente è diventata enormemente
moralista e attenta di quando il mondo era giovane con me. A quei
tempi, c'era una grane differenza fra un gentiluomo e un individuo
qualunque. Noi allora portavamo abiti che nessuno, all'infuori di
noi, poteva indossare; oggi, invece, stento a vedere le differenze
fra un autista e il signore che viene scortato dentro l'auto. Un uomo
era capace di bere quattro volte più di quanto riescano a mandar giù
gli smidollati di oggi; ma è inutile insistere sull'argomento. I
veri nobili sono morti per sempre. La moda adesso è favorevole ai
bottegai, ai soldati e ai muratori, e io divento malinconico e di
pessimo umore quando penso a che vita si faceva ai bei tempi.
Poiché
il bisconte di Palestrina, a quell'epoca, era diventato troppo alto
di statura e non la smetteva con le sue insolenze, decisi di
lasciarlo affidato alle cure del collegio di Poggio Imperiale a
Firenze, con alcune parenti del mio defunto padre a prendersi la
briga di sfamarlo e accudirlo. Quando si diceva stanco di Firenze,
era pienamente libero di andare a risiedere a Castel Portanova con la
mia mamma; ma tra di loro non c'era simpatia, anzi, credo che ella lo
odiasse tanto cordialmente quanto avrei potuto farlo io. Da parte
mia, speravo che, al momento in cui quel turbolento ragazzo avesse
concluso i suoi studi liceali, sarebbe tornato a casa con la matura
convinzione di accettarmi e di avviare gli studi in Scienze
Politiche; ero interessato soprattutto a questo secondo punto, visto
che a Roma è usanza che le famiglie più aristocratiche indirizzino
i propri figli (o figliastri, a seconda) verso la politica, giacchè
è questa un utile strumento per portare la nobiltà in parlamento. E
i Monteverde, in parlamento, erano assenti da ben due generazioni,
mentre i nostri antipatici vicini, i Muratti, contavano da soli ben
quattro membri all'interno del maggiore organo di stato. Destra o
sinistra mi erano del tutto indifferenti: bastava che quel
ragazzaccio diventasse parlamentare entro il mio cinquantesimo
compleanno.
Nell'attesa,
tenevo in gran conto il sindaco e il consiglio comunale; mandai della
cacciagione ai loro pranzi e li invitai ai miei; mi feci un punto
d'onore di assistere alle loro riunioni e di compiere ogni atto di
cortesia facesse loro piacere. E fu proprio il sindaco, una sera,
attorno al mio tavolo da biliardo, ad avvicinarmi:
<<Vede,
caro conte, io sono totalmente convinto che, essendo fra
gentiluomini, lei potrà capire al volo il discorso che sto per
farle>>.
<<Sono
tutto orecchie, signor sindaco>>, risposi.
<<Persone
vicine al ministro della difesa, parlano di un'altra guerra in Libia,
dove l'Italia potrà finalmente ottenere una buona fetta di torta.
Dovremo compiere, assieme ai nostri alleati, delle azioni mirate a
distruggere i ribelli che, a suo tempo, aiutammo nel combattere
Gheddafi>>.
<<Io
sono un veterano>>, risposi senza aver ancora capito dove
andasse a parare il sindaco, <<E non rimpiango la mia carriera
militare, per quanto questa possa essere stata gloriosa e
brillante>>.
Il
buon uomo scoppiò a ridere, poi si ricompose e proseguì:
<<Oh,
ma lei ha capito male! Io sono qui per chiederle di finanziare una
guarnigione, visto che le casse dello stato languono e le nostre
caserme romane sono in condizioni pietose. In cambio, alla fine di un
conflitto pulito e praticamente già vinto, lei avrà un pezzo della
famosa torta. Petrolio, gas, carbone, tutto ciò che desidera. La
scelta spetterà esclusivamente a lei>>.
Immaginai
per un attimo Sbelluccio Bellini che visita le sue proprietà
libiche, i suoi pozzi di petrolio e le sterminate ricchezze che
questi avrebbero arrecato al mio casato; immaginai i miei debiti
saldati, le difficoltà finanziarie mie e di mia moglie svanite; poi,
senza dire una parola, estrassi dalla tasca il mio libretto degli
assegni e domandai:
<<Quanto
le serve?>>.
La
cifra era mostruosamente alta, e non mi bastava un pozzo di petrolio
come garanzia; così, con una mezz'ora di conversazione in più,
decisi che sarebbe stato meglio per tutti che una di quelle poltrone
vuote in parlamento fosse data a me. E così fu. Con indicibile
furore di molti miei vicini di casa, fui eletto di lì a poco membro
del parlamento, dove mi recai, appena mi fu data l'occasione, a
compiere i miei doveri.
Fu
allora che decisi seriamente di acquistare per me un titolo nobiliare
italiano, di cui godesse, dopo di me, il mio adorato bambino ed
erede.
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