XII.
IN
CUI LA MIA BUONA FORTUNA
COMINCIA
A VACILLARE
E
ora, se qualcuno fosse disposto a pensare che la mia storia è
immorale, pregherò uno di questi individui che trovano sempre da
ridire di farmi il favore di leggere la conclusione delle mie
avventure, in cui vedranno che non era un premio tanto grande quello
che avevo vinto e che ricchezza, splendori e un seggio in parlamento
sono spesso pagati troppo a caro prezzo, quando si debbono acquistare
questi piaceri tramite la propria libertà personale, rincarando la
dose col peso di una moglie fastidiosissima.
Clelia
non era una borbottona, né una spilorcia, come molte mogli; avrei
trovato il modo di curarla di queste malattie; ma era di carattere
timido, piagnucoloso, melanconico, ipersensibile, cosa che è per me
ancora più odiosa: qualunque cosa si facesse per farla contenta, non
era mai di buon umore. Dopo un po' lasciai perdere, cercando fuori
dalla casa divertimenti e compagnia femminile; in seguito a ciò,
ella aggiunse a tutti i suoi difetti una bassa e detestabile gelosia.
Per qualche tempo dovetti fare tutto alla zitta, sennò la contessa
si torceva di dolore, piangeva e minacciava di suicidarsi. Certo è
che la sua morte non sarebbe stata un problema a priori, ma essendo
il bisconte l'unico designato all'eredità, io sarei rimasto più
povero di quando l'avevo sposata; e questo perchè spendevo tutto,
fino all'ultimo centesimo. E basti pensare che, indipendentemente
dalle ipoteche e dagli investimenti, ho contratto debiti per almeno
dodici milioni di euro negli anni della mia permanenza a Fontanale.
Il
nostro bambino, dunque, era la creatura che formava l'unico legame
fra me e mia moglie, e non c'era piano ambizioso che io proponessi a
cui ella non si unisse a vantaggio di Rolando. E poi, se non era
accondiscendente in misura sufficiente sulle cifre che prelevavo dal
conto, passavo direttamente alla strategia che ho già descritto nei
particolari nel capitolo precedente. Posso giurarvi che furono
dispensate regalie a persone di grado così elevato che, se facessi i
loro nomi, ne restereste stupefatti. Pagai profumatamente grandi
società araldiche perché ricostruissero l'albero genealogico della
mia famiglia e chiesi di venire reintegrato nei titoli dei miei
antenati e di essere insignito della contea di Monteverde, oltre che
della viscontea di Castel Portanova. La lotta per ottenere questo
titolo di Conte ritengo sia stata una delle più sfortunate tra tutte
le sfortunate iniziative di quel periodo. Feci ingenti sacrifici per
portarla avanti. Prodigai denaro qua e diamanti là. Comperai terreni
a dieci volte il loro valore; acquistai quadri ed oggetti d'arte a
prezzi rovinosi. Diedi numerosi ricevimenti a tutti quei sostenitori
della mia richiesta che, essendo vicini al Cavaliere o al Presidente,
potevano favorirla.
Gustavo
Maria, tredicesimo conte di Candeli e senatore a vita, era un fido
consigliere del Cavaliere e una delle persone con cui il nostro
riverito Presidente era in termini di notevole intimità. Lui e il
Cavaliere giocavano a squash da giovani, quando Milano era
stata eletta loro territorio di caccia esclusivo; là avevano trovato
fortuna come imprenditori e là sarebbero rimasti, se gli studi in
diritto internazionale del buon Gustavo non lo avessero allontanato
da quella tetra città non appena laureato. Egli visse a lungo in
Russia, come ambasciatore, ma tornò subito dopo la caduta del muro
di Berlino, e si trasferì a Roma, con una seggiola già pronta per
lui nel primo governo del Cavaliere. Su di lui mi erano giunte voci
perlopiù negative, dovute, a mio avviso, all'invidia che molti
ricchi signori, politici e non, provavano verso la sua grande
amicizia con i potenti. Inizialmente, non volli dare ascolto a chi me
ne sconsigliò la compagnia, ma col senno di poi ammetto che avrei
dovuto tenere alta la guardia, almeno in quel caso. Ero nuovo di
quell'ambiente (nonostante il mio posto in parlamento) e bisognoso di
quel titolo, così non mi detti pace fino a che i nostri segretari
non riuscirono a mettermi in contatto con lui. Ricordo ancora quando
il mio cellulare squillò, in un pomeriggio di aprile:
<<Bellini?
Sono Gustavo Maria Candeli. So che mi sta cercando, ma io, come lei
ben sa, sono un uomo molto impegnato e non potrò dedicarle tanto
tempo. Vogliamo fare questo venerdì a colazione da me?>>.
Ero
stupefatto dalla nobiltà che traspariva già dal timbro della voce,
da quell'italiano impeccabile che oggi nessuno parla più e che già
allora era in via di estinzione; infine, ero curioso di provare il
piacere della sua compagnia e di coltivare l'amicizia di un
gentiluomo così vicino ai vertici del potere.
Dei
fiori tropicali e una cassa del migliore champagne mi anticiparono,
quando mi presentai a villa Candeli, lungo l'Appia Antica. Il conte
era un milanese in carne, con folti capelli bianchi, due profondi
occhi verdi e un colorito rossastro; mi ricevette in Lacoste, jeans e
scarpe da corsa Mizuno, lasciandomi di stucco. Io avevo un completo
chiaro e la cravatta, e, pur risultando notevolmente più elegante
del mio ospite, riuscii a sentirmi a disagio. Mi fece accomodare
frettolosamente sotto un gazebo che sorgeva di fianco alla piscina;
era uno spazio alla americana, pieno di vetrate, luce e interni
minimalisti. Ci accomodammo a tavola e fummo serviti all'istante:
gamberoni, insalata e vino bianco. Tentai di parlare della sua villa
e delle sue fortune, di quanto erano buoni quei gamberoni e di come
profumavano le piante della sua piscina, ma egli tagliò corto e andò
subito sugli affari, chiedendomi cosa volessi da lui.
<<E'su
di lei, conte, che faccio assegnamento per appoggiare la mia
richiesta della contea di Monteverde e della viscontea di Castel
Portanova, che da troppo tempo mi propongo di ottenere, fallendo
miseramente>>.
A
quel punto, il distinto ambasciatore si calmò, sorrise e buttò giù
un sorso di vino; poi iniziò a parlare, senza sosta. Mi descrisse la
politica oltre il parlamento, dicendosi perfettamente informato su
tutto ciò che sarebbe accaduto (il povero Mauro Volpi sarebbe stato
rimosso la mattina dopo, e lui già lo sapeva; così come seppe
prevedere la data esatta del rientro di una delegazione di agenti
segreti inviati in Libia, azzeccandola), e mi parlò delle condizioni
della nobiltà. Io tentai di spiegargli che le conoscevo bene e che
il mio titolo sarebbe stato una semplice formalità da sbrigare. Lui
scoppiò a ridere e disse che un “signor nessuno” sommerso dai
debiti e malvisto un po' ovunque non doveva conoscere alcun tipo di
formalità da sbrigare e che niente c'era di semplice nel mio caso;
aggiunse che conosceva benissimo la mia situazione e che avrebbe
potuto recitare a memoria i libri di conti di casa mia, neanche
fossero stati i Salmi.
<<L'unica
cosa veramente valida che avete fatto dal vostro arrivo a Roma, caro
Bellini, è stata armare quella compagnia da mandare in Libia. Vi
consiglierei di armarne un'altra e aggregarvi ad essa>>.
Ma
questo, come il lettore può immaginare, non era affatto il mio
sogno. Anzi, le mie intenzioni, inizialmente, erano di aggregare alla
compagnia qualcun altro, cioè il mio borioso figliastro, che, avendo
compiuto da poco diciotto anni, manifestava la volontà di andare in
Libia, e io sarei stato ben contento di acconsentire per togliermelo
dai piedi; ma il suo tutore, don Pardo, che da alcuni mesi mi si
opponeva in tutto, rifiutò il permesso e contrastò fortemente le
tendenze militariste del ragazzo.
Salutai
cordialmente e ringraziai il conte di Candeli, che, lasciando in
disparte i suoi toni aggressivi e sarcastici, promise di darmi una
mano, se non altro in memoria del suo vecchio amico e collega Sor
Filippo, del quale, come non mancò di sottolineare, avrebbe cercato
di preservare quel minimo di proprietà sufficienti a non far
scomparire completamente il nome e il casato. Non occorrerà che io
sottolinei il profondo stato di pessimismo in cui ero caduto dopo
quell'incontro.
Mentre
il mio autista mi riportava verso Fontanale, mi misi ad architettare
un piano tramite il quale liquidare definitivamente il bisconte di
Palestrina. Era un ragazzo goffo e disordinato, ribelle e selvaggio,
senza alcun riguardo per me, mia madre e il suo fratellastro. Dopo
che era tornato da Firenze, avevo lasciato perdere la sua istruzione
e non volevo neanche che comparisse al nostro fianco; feci in modo
che la tenuta di Veio fosse intestata a lui e cercai di farcelo
trasferire quante più volte mi era possibile. Che differenza fra
questo sgraziato adolescente e il sangue del mio sangue, Rolando, un
bambino che già a cinque anni era un modello di eleganza, bellezza e
buona salute.
Aiutato
da una bambinaia, a quattro anni già parlava il francese, e i nostri
tutori riuscirono a fargli imparare le nozioni base di greco e
latino; imparò, da solo, a fare simpatiche caricature con i
pennarelli e si sedeva come un adulto a tavola con noi, col suo
bicchiere di champagne. Fui sempre io ad educarlo all'avversare le
signore impellicciate che si presentavano a prendere il tè con la
contessa: insieme le facevamo fuggire dalla nostra proprietà,
danzando, cantando ed esclamando sconcerie e parolacce varie. Grazie
a questo sistema, cacciammo da Fontanale nobili, ministri e
imprenditori famosissimi in tutta Italia; non ne vado fiero, ma
dovete capire che una persona del mio livello, non in un periodo
prosperoso, riteneva insopportabili certi atteggiamenti sociali; e
credo che i lettori che hanno vissuto quel periodo come l'ho vissuto
io non potranno spendere solo parole di dissenso riguardo ai miei
comportamenti.
Decisi
poi di licenziare i tutori del bambino (a parte quella faina di don
Pardo, ovvio) e mi detti alla ricerca di un insegnante più serio:
scelsi Domenico Sgranato, un siciliano assistente della Sapienza, che
fu incaricato di insegnargli latino, italiano, storia e geografia.
Questi fu una preziosa aggiunta alla nostra compagnia di Fontanale,
perchè era il bersaglio delle mie burle e le sopportava con la
pazienza di un martire. Gettavo i suoi vestiti nel fuoco davanti a
tutti i nostri commensali, e lui rideva per lo scherzo che gli avevo
tirato. Il fine settimana, uscivamo a caccia e caricavamo- senza che
lui ci vedesse -i nostri fucili a salve; poi iniziavamo a sparare
nella sua direzione; so che quel poveraccio, una volta, dalla paura,
corse dai boschi che confinano con Cinecittà fino a San Pietro per
ringraziare il Signore di averlo risparmiato dalla traettoria mortale
delle pallottole.
Ad
attingere ulteriormente dalle casse già difficoltose di casa
Monteverde, arrivò una coppia di cui mi ero quasi dimenticato
l'esistenza: il signore e la signora Tobino, che avevano dissipato
quasi tutto il loro patrimonio. Laila aveva un'aria molto vecchia,
grassa e malmessa, con due sudici marmocchi al fianco. Pianse molto
nel vedermi, mi chiamò <<conte>> e <<signor
Monteverde>>, cosa che non mi dispiacque, e mi pregò di
aiutare suo marito; cosa che io feci, ottenendogli, per mezzo del mio
amico Candeli, un posto alla dogana di Chiasso e pagando il viaggio
fin lì a lui e a tutti la sua famiglia. Trovai che era diventato un
sudicio, volgare e piagniucoloso ubriacone, e, guardando di nuovo
Laila, non potei fare a meno di pensare con stupore ai tempi in cui
l'avevo considerata come una divinità. Ma, se mai ho degnato della
mia attenzione una donna, io le rimango amico per tutta la vita, e
potrei citare un migliaio di esempi delle mie generose e fedeli
disposizioni. Mentre io e Clelia, ci intrattenivamo in conversazione
con questi due relitti sociali, fece il suo ingresso il bisconte di
Palestrina, che salutò cordialmente il capitano Tobino e baciò le
mani sia a Laila che alla contessa; io tesi la mia, ma egli la
rifiutò e, alzando la testa disse:
<<Il
signor Sbelluccio Bellini, credo?>>, poi voltò i tacchi e
uscì.
A
mia moglie dispiacque questo contegno insolente, e quando furono soli
lo rimproverò aspramente di non avere stretto la mano a suo padre.
<<Mio
padre, signora?>>, ribattè lui, <<Mio padre era il molto
onorevole Sor Filippo Teobaldo di Monteverde. Se lo hanno dimenticato
gli altri, io almeno non l'ho dimenticato>>.
Era
una dichiarazione di guerra contro di me, come compresi
immediatamente, e decisi di mettere da parte la buona volontà nei
confronti del giovinastro, e che, da quel momento in poi, avrei
punito senza pentimento ogni insolenza del bisconte; io tratto le
persone come loro trattano me. Fu lui che perdette la pazienza e non
io, e le dannose conseguenze che ne derivarono dipesero interamente
da lui.
Non
erano passate che dodici ore da che il bisconte aveva pronunciato
quell'oltraggioso discorso, che io lo volli ricevere nel mio studio,
dove lo frustai sonoramente; non avevo mai frustato un futuro conte,
prima di allora, ma la sua schiena e la mia frusta fecero una così
intima conoscenza che vi garantisco che dopo un po', tra noi, si
fecero ben poco cerimonie. Accadde, infatti, un paio di settimane
dopo, che questi entrasse facendo una gran caciara nella sala
proiezioni, dove io e un paio di amici stavamo vedendo una partita di
calcio; e si dà il caso che uno di questi miei ospiti fosse un
prete, al quale chiesi il permesso di malmenare il giovane reprobo
davanti a tutti. Il parroco accondiscese e io potei dargliele quanto
mi pareva, mentre quei signori crepavano dalle risate.
Ordinai
a Sgranato di poter colpire il ragazzo quando meglio credeva, ma non
fu una buona idea: il bisconte, infatti, stese al suolo il
professorino e lo colpì con una sedia, con gran divertimento di
Rolando, che gridava <<Picchialo forte!>>. E questi lo
fece davvero, con profonda indignazione mia e del precettore, che in
seguito non volle più infliggere punizioni a nessuno.
Effettivamente, il bisconte e il mio bambino si stavano molto
simpatici e nutrivano, l'un l'altro, un grande affetto. Inoltre,
capitò più di una volta che fra me e quel ragazzaccio si
intromettesse quell'angelo di Rolando pregandomi:
<<No,
papà, non frustarlo oggi!>>, al che io mi trattenevo e gli
risparmiavo una dose di quelle frustate che avrebbe ampiamente
meritato.
Tra
me e Clelia, come ho già avuto modo di raccontare, c'erano dispute
frequenti in cui qualche volta aveva torto lei, qualche volta io e
che salivano molto di tono, dato che nessuno dei due aveva un
carattere troppo pacato. Io ero spesso un po' alticcio e non riuscivo
a padroneggiarmi bene in quello stato; e forse allora trattavo la
contessa peggio e più ruvidamente di sempre: le tiravo qualche
bicchiere e la chiamavo con nomi non troppo complimentosi. Posso
anche averla minacciata di ammazzarla e averla spaventata molto. Fu
dopo una di queste liti, quando lei correva per i corrodi del primo
piano e io, ubriaco, le correvo dietro barcollando, che il bisconte
uscì dalle sue stanze attratto dal rumore e, siccome stavo per
raggiungerla, quell'ardito briccone mi fece sgambetto, approfittando
della mia ebrezza; caddi svenuto per terra e furono i domestici a
recuperarmi e a mettermi a letto. Questa triste vicenda mi è stata
narrata per telefono dalla contessa molti anni dopo, perché io,
altrimenti, non avrei ricordato nulla di quella nottata d'inferno.
Oltre a peggiorare le cose fra me e il giovane, questa storia fu
utile a deteriorare ancora il nostro matrimonio e a unire per un poco
quella madre e quel figlio così distanti e freddi.
Man
mano che il bisconte cresceva e si faceva uomo, il suo odio verso di
me raggiungeva un'intensità addirittura scandalosa a pensarci. Due
anni dopo quel vergognoso sgambetto, alle porte delle vacanze estive,
tornai dal Parlamento e, posata la mia valigia nella biblioteca,
afferrai un bastone e mi proposi di bastonare il bisconte come al
solito, ma egli mi fece comprendere che non si sarebbe più
sottoposto ad alcun castigo da parte mia e disse, digrignando i
denti, che mi avrebbe sparato se gli mettevo ancora le mani addosso.
Lo lasciai andare: era quasi riuscito a mettermi paura.
Quelli
erano per Sbelluccio Bellini giorni duri, dove varie battaglie si
incrociavano nell'arco della giornata; ma il bisconte non rispettava
i miei problemi, e non mancava di sbeffeggiarmi di fronte a chiunque.
Persone ricche e potenti ridevano come non mai a sentire quel
maledetto offendermi, schernirmi e massacrarmi, col suo humor
sardonico e le sue frecciatine. Queste pesanti vessazioni
raggiungerso il loro apice il giorno del compleanno di Rolando,
quando, di fronte ad una quarantina di invitati provenienti da mezza
Italia, balzai addosso al bisconte e gli somministrai calci e pugni
in quantità, rompendoli il naso e varie costole, oltre a procurargli
ferite marginali e tagli un po' ovunque. In cinque dovettero
togliermelo di dosso, altrimenti avrei finito con l'ammazzarlo come
una bestia.
Passò
tre giorni a letto, malato, dolorante e frustrato dalla rabbia
repressa e dall'umiliazione che gli avevo causato castigandolo di
fronte alla créme de la créme italica. La mattina del quarto
giorno mi svegliai ancora imbottito di calmanti (abusavo pesantemente
di farmaci da ormai due anni) e pregai il nostro maggiordomo di
andare a chiamare il bisconte, pregandolo di venire a tavola con noi.
Ma la stanza era vuota e fredda e la finestra aperta; era riuscito a
scendere nel giardinetto e da lì era scappato, non si sa diretto
dove. La mia signora scoppiò in lacrime, e Rolando la seguì
immediatamente. Un paio di giorni dopo, Clelia mi inviò in
biblioteca una mail che aveva ricevuto dal bisconte, che aveva
riparato a Palestrina, ospite dello zio vescovo. Diceva di stare
meglio e concludeva la missiva parlando del sottoscritto:
Ho
sopportato per quanto era possibile i maltrattamenti di quel villano
ignorante e arricchito che hai accolto nella nostra casa, mamma. Non
sono soltanto la bassezza della sua nascita e la brutalità dei suoi
modi a disgustarmi e farmelo odiare, ma la vergognosa natura della
sua condotta verso di te; il suo contegno bovaro e indegno di un
gentiluomo, la sua sfacciata infedeltà, le sue abitudini di vizi e
ubriachezza, le sue truffe e ruberie sulle nostre proprietà, lo
rendono, a mio avviso, indegno del nostro cognome, Monteverde. Mi
auguro con tutto il cuore che egli non riesca a mettere le mani su
quel titolo di “conte” che tanto pare allettarlo. Siccome rinunci
alla soluzione di un divorzio e sembri a volte schierata dalla parte
del tuo bel marito, e siccome io non posso punire personalmente
questo fetente bastardo, ho deciso di lasciare la mia città, almeno
che possa privarmi della compagnia di questo schifo d'uomo, una
compagnia che personalmente aborrisco manco fosse la peste. Cercherò
di sfruttare la nostra tenuta di Pontassieve, aiutato da quei pochi
banchieri e amministratori che ancora sembrano guardare con rispetto
il nostro non più cospicuo patrimonio; non mi stupirei, tuttavia, se
mi negassero anche questa possibilità, sapendo che il nostro conto è
nelle mani di un ladruncolo che non si farebbe scrupolo di raccattare
monete dal mezzo di strada. Sperando di trovare il modo di farmi
nella vita un percorso più onorevole di quella per la quale
quell'avventuriero toscano squattrinato è giunto a privarmi dei miei
diritti e della mia casa, ti porgo i miei più sinceri e affettuosi
saluti.
Passò
parecchio tempo prima che sentissimo parlare di quel che era avvenuto
a quel giovane vagabondo; ma dopo poco più di un anno che se l'era
svignata, ebbi il piacere di apprendere che si era trasferito davvero
in Libia, dove aveva trovato lavoro come consulente e dove la mia
compagnia si comportava nel modo più glorioso. A guerra finita, si
era spostato verso New York, per aprire uno studio di consulenze
assieme ad alcuni amici conosciuti all'università, e dove avrebbe
avuto modo di farsi fotografare da svariati paparazzi italiani. A
Roma non cessava di circolare la voce che io lo avevo obbligato ad
andare in Libia sperando che rimanesse ucciso, e ogni mio tentativo
di sedare queste calunnie fu vano. In città si diceva che avrei, nel
giro di poco, avvelenato mia moglie, o anche peggio che avrei ucciso
il bambino e la contessa per poi fuggire con il denaro; alcuni
settimanali mi candidarono come uno dei prossimi politici vicini al
fallimento e alla galera. I contadini delle nostre tenute, al mio
passaggio, toccavano ferro, e ai nostri ricevimenti iniziarono a
comparire un po' troppo spesso farmacisti, mercanti di vino, avvocati
e gentaglia qual'è quella che vedevamo ogni giorno facendo due passi
in centro. Lo zio vescovo non ci invitava più a Palestrina da prima
della fuga del bisconte, e a me furono inflitti, in poche parole,
tutti gli oltraggi che si possono riversare su un innocente e
onorevole gentiluomo.
Fummo
invitati -non so grazie a chi- ad un maestoso ed esclusivo
ricevimento a Palazzo Grazioli, durante il quale io speravo che il
Cavaliere in persona mi avvicinasse e mi fregiasse del titolo di
conte; e, in effetti, il Cavaliere si presentò e mi strinse la mano,
per poi però voltarsi e darmi le spalle, senza neanche voler sentire
il mio nome per intero. Anche a mia moglie non andò tanto meglio:
una sua vecchia compagna di classe, ora ministro delle pari
opportunità, la rimproverò non poco, facendole una lista
dettagliata di quanto veniva raccontato per i corridoio del
parlamento sul nostro conto. Mi risultò impossibile restare
indifferente di fronte a tutto questo, e decisi che saremmo partiti
la mattina seguente per qualche capitale estera.
All'alba,
decollammo per Parigi, una città che ci avrebbe permesso di vivere
tranquillamente e come preferivamo; ma i soldi finirono alla svelta
e, nel giro di quarantotto ore, per colpa del mio vizio al gioco,
eravamo nuovamente a Roma. E fu proprio durante quel triste volo di
ritorno che Clelia ed io parlammo del mio tentativo di acquisire il
titolo di conte, e che capii di come il Candeli mi avesse
grossolanamente ingannato, tenendosi un mucchio di soldi, entrando
nella mia casa, spiando la mia vita privata e riportandola, a suo
piacimento, ai media nazionali. Scrissi, in quelle due ore di volo,
una lettera per il Presidente, dove raccontavo delle sventure che si
erano abbattute sulla mia famiglia e dei gravi inganni in cui, a
causa di cattivi consiglieri, ero incappato.
La
massima carica dello stato mi rispose sinteticamente che non avrei
avuto più motivo di seccarlo, poiché non avrebbe mai favorito la
mia nomina a conte, ma che anzi l'avrebbe ostacolata fin quando gli
fosse stato possibile; e tutto questo perchè mi considerava uno
screditato, un disonore per mia moglie e per il mio paese, oltre che
un pessimo padre, un mediocre politico e un cattivo esempio per
l'intera comunità europea.
In
parlamento avevo conosciuto l'avvocato Sermonti, duca di Ocopoli e da
poco ministro della giustizia; con questo signore un po' viscido e
pigro ero solito trattenermi al bar di Montecitorio. Decisi di
confessargli la mia situazione e chiesi un suo parere a riguardo.
Egli rispose sorridendo:
<<Bene,
caro Bellini, ti risponderò punto per punto. Allora, per prima cosa,
il presidente è estremamente contrario a creare dei nobili, come
dovresti sapere. Gli saranno state sicuramente presentate le tue
rivendicazioni, come le chiami, ma lui ti ha mandato a fanculo. Il
Cavaliere, in secondo luogo, è una figura potente, ma il suo
migliore amico, che è Candeli, ti ha descritto a lui come un pollo
da spennare per un paio di anni, e ormai ti hanno fregato. A mio
avviso, sei fottuto. A neanche cinquant'anni ti sei già bruciato
tutto, quindi è anche difficile che tu possa ripartire da qualche
altra cosa. E ora scusami, ma ho delle pratiche da sbrigare>>.
Tornai
a casa in preda ad un accesso di collera indescrivibile; poi ragionai
un attimo e decisi di invitare il caro Candeli a cena da me, quella
stessa sera. Lo aggredii nell'atrio e lo trascinai prima nella sala
degli specchi, dove gliene infransi un paio in testa, graffiandogli
buona parte del volto e stordendolo; poi, aiutato dai miei servi, lo
portai nel piano sotterraneo e lo feci rinchiudere nel vano tubature,
in compagnia di ratti, gelo e ragni. Uscì solo la mattina seguente e
corse a denunciarmi, mentre la notizia non smetteva di fare il giro
d'Italia; io ne uscii, stranamente, come un personaggio popolare, fui
intervistato da radio, giornali e televisioni e la prigionia di
Candeli a casa Bellini fu oggetto di critiche da parte di destra e
sinistra. Speravo di riuscire a sfruttare la situazione a mio favore
e di risanare un minimo le nostre casse domestiche, ma mi sbagliavo
di nuovo. Di fatti, in parlamento fui stroncato a destra e a
sinistra, tant'è che il presidente della camera rifiutò di
ascoltarmi (in effetti, ero un pessimo oratore) e, al momento del
cambio di governo, fui costretto a prendere a prestito altro denaro,
a tassi rovinosissimi, per affrontare i miei nemici. I media
lottarono contro di me in ogni modo gli fosse concesso: fui dipinto
come un pastore maremmano (non il cane, si intende), un lustrascarpe
fiorentino, un bagnino di Forte dei Marmi e un mendicante
dell'Appennino. Fu riversato su di me un torrente di calunnie, da cui
qualunque uomo dotato di spirito meno pronto sarebbe stato sommerso.
Benchè
affrontassi arditamente i miei oppositori, benchè profondessi
nell'elezione grandi somme di denaro, benchè spalancassi le porte di
Fontanale e facessi scorrere champagne e Chianti a fiumi, proprio
come l'acqua, tanto lì che in tutti i bar della città, l'elezione
mi fu sfavorevole. Quei mascalzoni della nobiltà, quelli della
borghesia e quelli del proletariato si erano rivoltati tutti contro
di me e si erano uniti all'opposizione. Nonostante potesse uscire
liberamente e avesse come usanza di visitare la moglie del sindaco,
alcuni giornaletti misero in giro la voce che tenessi rinchiusa
forzatamente mia moglie in casa. Una signorina venne ad intervistarmi
a casa e mi domandò se mia moglie, per cena, apprezzasse di più i
maccheroni o le frustate.
Oltre
che dal mio fallimento di uomo politico (fui espulso dal parlamento
nel giro di due giorni, senza alcuna speranza di venire rieletto),
fui sconvolto dalla pioggia di conti che infuriò sulla mia persona:
gli impegni che avevo firmato per anni dal mio matrimonio furono
mandati tutti insieme dai miei creditori, fino a ricoprire il tavolo
della biblioteca. Il loro ammontare era spaventoso. I miei
amministratori e i miei avvocati peggiorarono la situazione. Ero
stretto in un'inestricabile tela di cambiali, debiti, ipoteche e
assicurazioni, con tutti gli orribili guai che ne derivavano. Gli
avvocati volevano denunciarmi e le entrate di Clelia venivano
totalmente incamerate per sfamare quegli avvoltoi. Quando il peso di
tutto questo iniziò ad essere insostenibile, mi decisi per l'unica
soluzione che ci era rimasta, cioè ritirarci in Toscana a fare
economia, versando la maggior parte delle rendite ai creditori fino a
che le loro richieste non fossero state soddisfatte. La contessa fu
lietissima all'idea di andare e disse che, se ce ne fossimo stati
tranquilli, tutto sarebbe andato per il verso giusto.
Partimmo
quasi improvvisamente per Chiusi, lasciando quegli odiosi e ingrati
mascalzoni romani a vilipenderci; i miei cani, le mie automobili e i
miei cavalli furono venduti immediatamente. Lasciai la villa e tutte
le cianfrusaglie al suo interno così come erano, essendo di
proprietà degli eredi di casa Monteverde, e sconfinammo in Toscana
(i nostri bagagli sarebbero stati spediti a parte, per motivi di
privacy). Presi dimora a Castel Portanova per qualche tempo,
mentre tutti (media compresi) immaginavano che fossi un uomo
irreversibilmente rovinato e che il famoso e brillante Sbelluccio
Bellini non sarebbe mai più riapparso nei circoli di cui era stato
l'ornamento.
Ma
non fu così, perchè, nel bel mezzo dei miei imbarazzi, la fortuna
volle riservarmi una consolazione. Dall'America giunse una mail che
annunciava il crollo di Wall Street e il conseguente suicidio del mio
figliastro, il bisconte, che aveva partecipato a quella caduta in
qualità di consulente. Cessò di interessarmi di possedere un
miserabile titolo nobiliare, e dedicai le mie attenzioni a Rolando,
che si ritrovava erede di una contea toscana e di una romana e fu
semplicissimo fargli assumere il titolo di bisconte di Castel
Portanova, oltre che di conte di Monteverde, ovviamente. Mia madre
uscì pazza dalla gioia e io sentii che tutte le mie sofferenze e le
mie privazioni erano ricompensate dal fatto di vedere quel caro
fanciullo giunto ad una simile posizione.
Nessun commento:
Posta un commento