IX.
RITORNO
IN ITALIA
E
FACCIO MOSTRA DEL MIO SPLENDORE
E
DELLA MIA GENEROSITA'IN QUELLA NAZIONE
Come erano cambiati per me i
tempi, adesso! Quando avevo lasciato il mio paese ero un povero
ragazzo senza un soldo, soldato semplice in un miserabile reggimento
di marcia. E tornavo uomo, con un patrimonio di circa cinquecentomila
euro in mio possesso, uno splendido guardaroba e una cassetta di
gioielli, orologi e accessori che ne valevano altri ventimila, dopo
essermi mescolato a tutte le scene della vita e aver agito in esse da
attore protagonista, dopo aver fatto la mia parte in guerra e in
amore, dopo essermi fatto strada con il mio genio e la mia energia
dalla povertà e dall'oscurità all'agiatezza e allo splendore.
Nel guardare fuori dal finestrino
oscurato della mia Audì “A8” blu, che rotolava pesantemente
lungo le nude e squallide strade, presso le miserabili casupole dei
contadini, che venivano fuori avvolti nei loro stracci spalancando
gli occhi sullo splendido mezzo che passava loro davanti e
scervellandosi nel tentare di indovinare chi potesse scortare il mio
gigantesco bodyguard Tonio, dritto al posto di guida, con le
sue treccine curate, gli occhiali scuri e la cravatta ben stretta al
collo, non potevo fare a meno di pensare che dovevo ringraziare il
destino che mi aveva dotato di tante buone occasioni. Se non fosse
stato per i miei meriti, sarei rimasto un rozzo borghesuccio di
campagna di stampo chianino, simile a quelli che vedevo vagare per le
miserabili città attraverso le quali passava la mia macchina
percorrendo la strada verso Firenze; avrei potuto essere ormai padre
di dieci figli, o fattore per conto mio o amministratore delegato di
qualche fabbrica da due soldi, o avvocato di campagna; ed eccomi,
invece, arrivare come uno dei più famosi gentiluomini d'Europa.
A Chiusi pregai Tonio di
accompagnarmi nell'affittacamere che undici anni prima mi aveva
ospitato durante la mia fuga. Come ricordo bene ogni istante della
scena. Il padrone di allora non c'era più e il locale, che all'epoca
mi era apparso tanto comodo, appariva come diroccato e miserabile; ma
il vino rosso era buono come ai vecchi tempi e io invitai
l'albergatore a portarmene un bicchiere.
Avevo ricevuto da mia madre
numerose mail che mi informavano delle vicende della famiglia di
Fontasciano. Mio nonno era morto e Gabriele, il nipote più grande,
lo aveva seguito nella tomba. Le ragazze del podere si erano
allontanate dal tetto paterno appena l'altro mio cugino ne aveva
preso la direzione. Alcune si erano sposate, altre erano andate a
stabilirsi in luoghi fuorimano, chi in Garfagnana, chi in Maremma,
chi sugli Appennini. Daniele, benchè fosse successo al nonno nella
proprietà, aveva fatto bancarotta con la sua azienda olearia e ora
Fontasciano era abitato soltanto dai pipistrelli, dai gufi e dal
vecchio guardiacaccia Mario.
Giunsi a Fontasciano verso sera,
ma non ripartii immediatamente; scesi dall'auto e iniziai a muovermi
intorno alla mia vecchia casa. I cancelli del parco c'erano ancora,
ma nel viale i vecchi alberi erano stati abbattuti; nel terreno
dietro la chiesa c'erano incisi sulla pietra altri due nomi sulla
tomba di famiglia dei Bacherozzi: erano quelli di mio cugino, di cui
mi importava ben poco, e di mio nonno, al quale avevo sempre voluto
bene. Qua e là sporgeva un vecchio moncone, che gettava lunghe ombre
mentre io passavo alla luce del tramonto sul vecchio sentiero
abbandonato e invaso dall'erba. Alcune vacche rientravano dal
pascolo, all'orizzonte, e i campi, un tempo tutti coltivati, erano
ora un ammasso di roghi e di sterpaglia inselvatichita. Nel giardino
rividi me e Laila, e poi il litigio col capitano Tobino, e fui sul
punto di mettermi a piangere. Penso che un uomo non possa dimenticare
nulla: ho visto un fiore, ho sentito una parola, che hanno
risvegliato ricordi che erano rimasti addormentati per molti anni. E
quando entrai nella casa diroccata, tutto a un tratto mi tornò la
memoria della mia infanzia, della mia vera infanzia: ricordai mio
padre col suo loden verde, che mi sollevava per farmi vedere
qualche aereo in cielo, e mia madre accanto a lui, con un abito a
fiori. Mi domando se un giorno tutto ciò che abbiamo visto e pensato
attraverserà la nostra mente in questo modo. Preferirei di no.
A Siena fui ospite del conte X,
che avevo conosciuto due anni prima durante una mia scappatella
parigina. La sera in cui arrivai al suo splendido palazzo del centro,
si sarebbe svolto un gala a scopo benefico e io ebbi giusto il tempo
di farmi una doccia bollente e di mettere in ordine le valigie, per
poi passare ai complessi preparativi per quella esclusiva occasione
mondana. Da vero gentiluomo amante del gioco e della bella vita ed
esperto di tutti gli aspetti che concernevano tali meraviglie, decisi
di indossare lo smoking. Esso è un capo di abbigliamento da
indossare solo la sera, cioè dopo le diciotto, ed è indicato per la
notte di San Silvestro, le prime teatrali, i casinò e, appunto, le
serate di gala; non è, nella maniera più assoluta, un abito da
cerimonia. Il mio, gentilmente regalato da Luca Pisano e frutto del
lavoro di una prestigiosa sartoria di Regent Street, era il classico
monopetto nero, con risvolti e bottone rigorosamente in seta. Il Duca
di Windsor aveva ammesso, verso la metà del Novecento, che l'unico
colore alternativo al nero era il blue midnight, ma solo pochi
arditi osavano indossarlo. Ho visto più volte, soprattutto in
Germania e in Olanda, abbinare alla giacca un papillon colorato, e in
ogni occasione ho considerato tale scelta di basso livello; per non
parlare poi di chi lo mette bianco, ignorando che il farfallino di
questo colore è stato pensato per il frac. La camicia bianca che
scelsi quella sera era di cotone misto a lino, con bottoni di
madreperla cuciti a mano e polsini doppi che non mancai di risvoltare
verso l'esterno per poi chiuderli con gemelli d'oro bianco a forma di
cavallo. In questi casi, il galateo contempla sia il gilet che la
fusciacca, ossia una fascia da girare attorno alla vita: ho sempre
optato per la prima soluzione, ritenendo la fascia un oggetto carico
di volgarità. Scelsi con grande attenzione i pantaloni, che dovevano
essere sprovvisti dei passanti della cintura (un accessorio in questo
caso bandito) e di colore nero, come le calze in filo di Scozia e le
scarpe, scollate e lucide (le mie, nella fattispecie, presentavano un
simpatico, piccolo fiocco di seta al posto delle stringhe). Giusto
gli esibizionisti ricorrono a mezzucci come il fazzoletto da taschino
o ancora peggio il fiore all'occhiello (oggetti il cui solo pensiero
mi fa rabbrividire), così conclusi il mio lavoro mettendo un
orologio da taschino quattordici carati nel gilet. Considerai l'idea
di un cappello, ma decisi che sarebbe stato troppo; misi il cappotto
lungo e uscii.
I cittadini di Siena hanno un
così grande e lodevole desiderio di conoscere gli affari dei loro
vicini quanto ne ha la gente di campagna; ed è impossibile, per una
persona di un certo livello, entrare in questa meravigliosa città
senza che il suo nome venga stampato su tutti i giornali e riportato
in tutti i luoghi di ritrovo più alla moda. Il mio nome e i miei
titoli si sparsero per tutta la città non appena arrivato. Tonio mi
scortò con la sua consueta discrezione fino alla Piazza del Mercato,
dove ci salutammo; da lì mi incamminai in via del Sole. Il conte
volle ricevermi personalmente e decise di presentarmi a quella che
lui definì la sua “grande famiglia”. Nel giro di un'ora, il
marchese Bini Porciatti fu in grado di offrirmi casse di buon vino a
prezzi stracciati con cui riempire le cantine delle mie proprietà
per i successivi dodici anni; il dottor Corsini fu così gentile da
invitarmi la mattina successiva a colazione da lui; e infine il
barone Gonzi Marrocchi mi invitò sul suo palchetto per il Palio
dell'Assunta. C'era, in quella nobiltà senese, una semplicità che
mi divertì e mi meravigliò allo stesso tempo, condita da un pizzico
di provincialismo e da una copiosa porzione di ingenuità: infatti,
in una sola serata a Siena, io mi feci una reputazione che ad
acquistarsela a Roma o a Milano ci sarebbero voluti dieci anni e un
mucchio di soldi.
Non volli approfittare, tuttavia,
di una situazione che avrebbe potuto fruttarmi chissà quali ingenti
guadagni; è vero, l'intera città era ai miei piedi, ma io ero
tornato in Italia per altri motivi, che andavano oltre tutti i
piaceri consentiti da quelle parti. Il Circolo dei Rozzi e le case
dei nobili mi furono ben presto aperti, così come tutte le società
delle contrade e le bische, frequentate quasi esclusivamente da
piccola borghesia e plebaglia assortita. Mi fu subito fatto notare
l'errore nel quale ero incappato presentandomi, in una sala poker,
come un individuo pronto a giocare con chiunque, qualsiasi somma, a
qualsiasi gioco. Ad autentici gentiluomini come il sottoscritto, i
senesi non dovevano essere abituati. Il gioco, alla lunga, non mi
interessava, e decisi di concentrarmi su quella che per me era
destinata a tramutarsi in un'ossessione: Clelia.
Mandai una e-mail a Pardo, che
per mia fortuna si trovava proprio nel Granducato, e chiesi tutti i
possibili particolari sullo stato d'animo e di salute della contessa
di Monteverde, alla quale inviai un sms di sei pagine, in cui le
presentavo le mie condoglianze e la pregavo di ricordarsi delle belle
giornate estive trascorse assieme. La risposta che ricevetti da lei
fu estremamente poco soddisfacente e poco esplicita; quella di Don
Pardo abbastanza esplicita, ma niente affatto soddisfacente come
contenuto. Il notaio Catella, figlio minore del celebre giurista
romano, rendeva omaggi molto evidenti alla vedova (sfruttando,
ridicolmente, le pagine di alcuni rotocalchi); era legato alla
famiglia da lontani vicoli parentali ed era stato chiamato a
Pontassieve quale esecutore testamentario del defunto Sor Filippo.
Dopo una settimana di permanenza
senese, mi imbattei in mio cugino Daniele, divenuto molto grasso e
molto povero, perseguitato dai creditori e dal suo commercialista,
rifugiato in ogni sorta di affittacamere di periferia, da cui usciva
al tramonto per recarsi in centro, a giocare alle carte in una bisca
di Piazza del Sale; il coraggio era l'unica cosa che gli avvocati,
gli strozzini e i politici locali non gli avevano tolto, e decisi di
fare allusione ai miei sentimenti verso Clelia.
<<La contessa di
Monteverde!>>, disse il povero Daniele.
<<Beh, questa è clamorosa!
Anch'io vorrei tanto riuscire a sposare una ragazzina della famiglia
Bortelli di Castellina, che ha entrate sui diecimila euro l'anno e
che è lontana cugina del vicesindaco di Radicofani. Ma come cazzo fa
un povero scemo, che non ha neanche un giubbotto per coprirsi, fare
proposte ad una a quel modo? Voglio dire, se una sera fossi
particolarmente ubriaco come ultimamente capita, magari, potrei
chiederla anche alla contessina Clelia!>>.
<<Meglio evitare>>,
dissi io, ridendo,<<Chiunque ci provi chiappa delle sonore
rombe!>>.
E così gli spiegai le mie
personali intenzioni nei riguardi di Clelia. L'onesto Daniele, il cui
rispetto per me era divenuto prodigioso da quando aveva visto il mio
splendido aspetto e udito le mie mirabili avventure e la mia grande
esperienza della vita elegante, si perdette nell'ammirazione della
mia energia e del mio coraggio, quando gli confidai il mio proposito
di sposare la più grande ereditiera del momento.
Daniele mi aiutò nell'adescare
il buon Catella, tramite alcune conoscenze, alla famosa bisca, dove
io, aiutato da alcuni amici giocatori (tutti ben pagati, sia chiaro),
provvidi dapprima a ripulire il notaio, e poi feci entrare ben tre
facchini, travestiti da paparazzi, che immortalavano, con belle
reflex digitali noleggiate da un fotografo di Piazza Indipendenza,
l'aristocrazia locale sprofondata nel vizio del gioco. Temendo
l'ondata di vergogna che avrebbe infangato il suo nome e la sua
professione e frugandosi bene in quelle tasche che io stesso avevo
svuotato, il notaio Catella non attese di tornare nella capitale per
togliersi la vita: lo fece nella sua camera dell'Hotel Continental di
Siena, impiccandosi quella stessa notte.
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