V.
CONDUCO VITA DI
GUARNIGIONE E VI TROVO MOLTI AMICI
Dopo
la guerra, il nostro reggimento fu uno dei primi a tornare in
Inghilterra e fu accantonato nella capitale, la meno noiosa, forse,
di tutte le città Europee. Il nostro servizio, sempre duro, ci
lasciava ogni giorno poche ore libere in cui potevamo prendere
qualche svago, se avevamo i mezzi per pagarcelo. Molti dei nostri
andavano a lavorare in mestieri manuali, ma a me non capitò nessuna
occasione del genere e per di più il mio onore me lo avrebbe
impedito, perché, essendo un gentiluomo, non avrei potuto sporcarmi
le mani con un'occupazione servile. Così divenni il man of honour
del capitano Walport, il suo gentiluomo militare di fiducia.
Avevo
respinto quest'offerta quattro anni prima, quando mi era stata fatta
mentre ero al servizio dell'Italia, ma in un paese straniero come il
Regno Unito è tutt'altra cosa. Venni subito a sapere che Walport era
nipote ed erede del ministro della Difesa, Sir Maurice Ridley
Walport, parentela che senza dubbio aveva favorito la promozione di
quel maturo gentiluomo. Anche fuori dall'Iraq, il capitano Walport
era un ufficiale severo, specie in caserma, ma era persona molto
suscettibile all'adulazione. Me lo accattivai inizialmente per il
modo in cui preparavo il caffè e, in seguito, ottenni la sua fiducia
con mille piccole astuzie e complimenti che, per un personaggio del
mio rango, sapevo sempre come impiegare. Egli era un buontempone, si
dava alla bella vita assai più apertamente di molti altri nobili
vicini alla regina; era generoso e non badava a spese; tutte qualità
che sinceramente condividevo, e dalle quali, naturalmente, traevo
profitto.
Non
era molto amato al reggimento, perchè si riteneva che avesse
relazioni troppo intime con lo zio ministro, a cui, correva voce,
riferiva tutte le notizie dei militari all'opera a Londra. Ma io ero
troppo occupato ad entrare definitivamente nelle grazie
dell'ufficiale per badare a questi affari. Dopo tre mesi di soggiorno
londinese, mi furono infatti evitate numerose esercitazioni, ronde di
sorveglianza e parate militari, e ottenni, d'altra parte, numerosi
guadagni occasionali che mi permisero di fare buona figura e di
comparire con un certo éclat nella non poco umile società
aristocratica di Londra. Ero sempre uno speciale favorito delle
signore e il mio modo di fare con loro era tanto cortese che non si
capacitavano come uno spiantato militare italiano fosse rifinito nei
loro prestigiosi salotti.
Riuscii
sempre in quel periodo a procurarmi un cellulare e a poter telefonare
a mia madre, in Italia, per dirle che stavo bene, che non contavo di
tornare in patria a causa delle follie che avevano anticipato (e
causato) la mia partenza e che ero agli ordini della più illuminata
monarchia d'Europa.
Una
sera io e Walport stavamo attraversando l'elegante quartiere di
Chelsea e l'ufficiale cominciò a farmi domande sulla mia famiglia,
alle quali risposi con sufficiente chiarezza. Ero il discendente di
una grande famiglia toscana, ma mia madre era quasi in rovina, mentre
io mi trovavo a studiare legge a Roma, dove mi ero ingolfato di
debiti e nelle cattive compagnie, avevo ucciso un uomo e sarei finito
in galera se fossi ritornato. Mi ero arruolato in fretta e furia
nell'Esercito Italiano, finché mi si era presentata un'occasione di
fuga a cui non avevo saputo resistere. Il seguito già lo conosceva,
visto che entrambi ricordavamo benissimo la vicenda di al-Najaf, dove
ci eravamo incontrati. Walport disse che avrebbe avuto cura che
restassi dov'ero, e io gli giurai eterna gratitudine; poi domandai
perché, nonostante l'ottimo servizio offerto sotto la corona
britannica, nessuno mi avesse promosso. <<Dopo che mi hai
salvato la vita, Sbelluccio, ho parlato con mio zio, il ministro
della Difesa, personalmente, ma chi ti aveva messo gli occhi addosso
aveva già avuto modo di raccontare della tua pigrizia, dei tuoi vizi
e della tua totale assenza di principi; aggiunse che era venuto a
sapere delle tue risse con gli altri camerati e che, nonostante il
tuo valore e la tua intelligenza, non avresti mai combinato nulla di
buono>>.
La
mattina seguente, ero di fronte al ministro a giustificare la mia
condotta in un inglese impeccabile: <<Sir, spero che lei si sia
sbagliato a proposito del mio carattere. Sono capitato in una cattiva
compagnia, questo è vero, ma ho fatto soltanto quello che fanno
altri soldati e, soprattutto, non ho mai avuto, prima d'ora, un buon
amico e un protettore a cui far capire che meritavo una sorte
migliore. Il ministro può dire che sono un cattivo soldato e
mandarmi all'inferno, ma stia pur sicuro che io ci andrei
all'inferno, pur di servire un reggimento>>.
Non
ne potevo più della schiavitù delle armi e sapevo di dovermi
ingegnare per raggiungere la libertà. Il mio piano era questo:
dovevo rendermi utile ai Walport fin quando lo avessero ritenuto
necessario, così che mi avrebbero dato ogni permesso di tornare da
dove ero venuto. Una volta libero, in grazia della mia elegante
persona e della mia buona famiglia, avrei fatto ciò che avevano
fatto prima di me diecimila gentiluomini italiani: avrei sposato una
signora, con un buon patrimonio e una buona posizione.
La
fortuna era dalla mia parte, e il mio intervento, nell'ufficio del
ministro, non era stato vano: infatti, il capitano Walport mi
raggiunse alla caserma in una mattinata di fine marzo, per darmi una
grande notizia.
<<Sbelluccio,
ho parlato al ministro mio zio a proposito dei tuoi servizi e la tua
fortuna è fatta. Ti faremo uscire dall'esercito, ti daremo un
incarico nell'ufficio dei Servizi Segreti a Londra e, in conclusione,
ti faremo muovere in un ambiente migliore di quello in cui la sorte
ti ha messo da qualche tempo>>.
Il
mio primo incarico fu smascherare un traffico di droga in cui rimase
coinvolto anche il console olandese van Guldensack, e il vecchio
Walport fu talmente contento che mi telefonò personalmente e mi
invitò nel suo ufficio, dove ci raggiunse, poco più tardi, anche il
mio amico capitano.
<<E'
venuto da poco, a Londra, un gentiluomo al servizio della regina, un
tale che si fa chiamare Léon-Luc de Rabelais, porta i simboli delle
grandi logge e la croce dell'ordine dei Cavalieri di Malta. Parla
indifferentemente tedesco, inglese e ovviamente, francese, ma noi
abbiamo motivo di credere che questo monsieur de Rabelais sia nativo
del tuo paese, l'Italia. Non hai mai sentito un nome come de Rabelais
in Italia?>>
<<Rabelais!Rab...>>
Un
lampo improvviso mi traversò la mente. <<No, signore>>,
dissi, <<Non ho mai sentito questo nome>>.
<<Devi
entrare al suo servizio>>, proseguì il ministro sfogliando un
grosso fascicolo, <<Naturalmente non dovrai sapere una parola
di italiano e, se il monsieur ti fa delle domande sul tuo accento
straniero, digli che sei portoghese. Il servo che è venuto con lui
sarà mandato via oggi, e la persona cui si è rivolto per avere un
fedele maggiordomo ti accompagnerà da lui. Sei portoghese e hai
servito nella guerra in Iraq i vostri vicini spagnoli. Hai lasciato
l'esercito a causa della debolezza dei tuoi lombi. Hai fatto servizio
per due anni con Sir Reginald Lancaster nella sua tenuta di
Kensington; ora lui è via per lavoro, ma ha comunque firmato delle
carte che lo proveranno. Poi sei stato con il dottor Floor, che darà
ogni spiegazione in casi ce ne sia bisogno. Quanto al resto della
storia, puoi sistemarla come vuoi, e farla romantica come piccante.
Aggiungo solo che il de Rabelais gioca molto e vince. Conosci
bene le carte?>>.
<<Solo
un po', come tutti i soldati>>
<<Credevo
tu fossi un vero esperto. Devi osservare se il monsieur bara: se bara
lo abbiamo in pugno. Vede di continuo gli inviati dei vari consolati
e soprattutto i giovani pranzano spesso da lui; cerca di non farti
scappare una parola, ovviamente nelle lingue che conosci. Dorme con
le chiavi della cassaforte attaccate al collo con un nastro. Duemila
sterline per te se riesci a portare l'impronta di quella chiave. Ma
ora vai a darti una tagliata ai capelli e una bella sistemata agli
abiti>>.
Non
riuscivo a non pensare al cognome de Rabelais. La parola “Rabelais”
è un composto di “Ra” e “Belais”; la seconda parte, se
pronunciata correttamente, crea la formidabile ed elegante assonanza
francese “Beles” con il mio cognome “Bellini”; a questo
sommavo l'enorme passione del cugino Luca Pisano per il romanzo
Gargantua e Pantagurele, e iniziai a supporre che questo
misterioso gentiluomo francese fosse in realtà il caro cugino di mio
padre, che parlava francese meglio dell'italiano e che, privato dei
suoi possedimenti per motivi politici, aveva riparato a Londra.
Prima
di andare a presentarmi, andai nel cortile del palazzo in cui
abitava, non distante da Buckingham Palace, a dare un'occhiata alla
sua automobile. Un vecchio Mercedes 300 SL targato Parigi,
un'automobile di strabordante bellezza estetica e di impareggiabile
eleganza. Doveva essere proprio lui. Mi sentivo male mentre salivo le
scale. Dovevo presentarmi al cugino di mio padre come un servo!
<<Tu
sei il giovanotto che Monsieur Lancaster ha raccomandato?>>,
chiese de Rabelais in un inglese formidabilmente intriso di accento
francese.
Feci
un inchino e porsi la lettera che mi era stata fornita da Walport.
Mentre la leggeva, ebbi tutto il tempo di esaminarlo. Il cugino Luca
era un uomo sulla sessantina, indossava una vistosa giacca
doppiopetto blu dai bottoni dorati, una camicia di cotone misto a
seta bianca e dei pantaloni chino; attorno al grasso collo gli
passava il nastro di porpora di qualche grande loggia massonica, di
cui riconoscevo alcuni simboli, e sul petto, gli brillava la croce di
Malta. Aveva anelli a tutte le dita, un cronografo Rolex in oro
giallo al polso, e aveva messo un ottimo profumo; infine, portava
calze in lana merino a rombi alte fino al ginocchio e scarpe penny
loafer di un marrone brillante; per leggere la lettera, aveva portato
sul naso eleganti occhiali dalla montatura in osso. Un posacenere in
cristallo e un toscanello aromatizzato al caffè stavano sul tavolo
accanto a lui e completavano il costume di questo splendido
gentiluomo. Come altezza era quasi uguale a me, vale a dire un metro
e ottantatre, ma i lineamenti erano completamente diversi; per peso,
inoltre rischiava abbondantemente di doppiarmi. Una barba folta ma
non per questo poco curata gli nascondeva una bocca che più tardi mi
accorsi avere un'espressione piuttosto sgradevole. Sorrise e potei
notare che i denti superiori, giallastri e intaccati dal tabacco,
sporgevano troppo; il suo volto mostrava sempre quel sorriso fisso,
spettrale, niente affatto piacevole.
Fu
molto imprudente da parte mia, ma quando vidi lo splendido aspetto di
monsieur de Rabelais e la nobiltà dei suoi modi, sentii che mi era
impossibile mantenere davanti a lui la mia falsa identità, e quando
mi disse:
<<Ah,
sei portoghese, vedo!>>, non potei resistere più a lungo e
dissi (nella mia lingua):
<<Monsieur,
sono italiano, e mi chiamo Sbelluccio Bellini, dell'Agrestone>>.
Mentre
parlavo scoppiai in lacrime, non saprei dire perchè, ma non avevo
visto nessuno della mia famiglia e della mia stirpe da sei anni e il
mio cuore desiderava trovarne qualcuno.
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