VII.
FACCIO LA MIA COMPARSA
NEL MONDO
IN MANIERA CONFACENTE
AL MIO NOME E AL MIO LIGNAGGIO
La fortuna sorrise alla partenza del caro Luca Pisano, permettendogli
di vincere una bella somma al suo tavolo da gioco.
Alle dieci della mattina seguente, un rumoroso Land Rover
dell'esercito sostò sotto casa del monsieur de Rabelais, e questi
scese le scale nella sua consueta maniera dignitosa.
<<Dov'è quel mascalzone di Marcos, il maggiordomo?>>,
disse, dandosi un'occhiata intorno e non trovando me che gli aprivo
lo sportello.
<<Aprirò io la portiera per lei, sir>>, disse un
caporale che stava in piedi vicino alla macchina, e non appena egli
fu entrato, la guardia saltò su accanto a lui, mentre un'altra
saliva a destra, vicino al soldato che avrebbe guidato per tutto il
viaggio; quest'ultimo altri non era che io con una barba finta, un
po' di trucco messo a scurirmi la pelle e i capelli notevolmente
accorciati. Mi ero informato abilmente negli ultimi due giorni,
mettendo il naso nelle carte del capitano Walport, e avevo scoperto
che i tre soldati cui affidare la missione non erano ancora stati
scelti; ricordavo che, in questi casi, non è obbligatoria la
presenza di un ufficiale, ma è gradito l'intervento di un
sottufficiale; e con delle tabelle in mano sulle quali stavano
schedati gli uomini di un'altra caserma londinese feci in modo che
venissero contattati tutti e due i militari presenti quella mattina.
Il terzo, come potei spiegare al telefono al colonnello Raider, era
un uomo di fiducia del capitano Newport e si chiamava Wright. Il nome
Wright compariva in un paio di documenti che mi aveva passato mio zio
e la mia fototessera poneva il sigillo di garanzia ad un piano che
risultava, in tutto e per tutto, geniale.
<<Che storia è questa?>>, domandò Luca Pisano al
caporale.
<<Siamo diretti alla frontiera, sir>>.
<<Ma è uno schifo! Una vergogna...chiedo di essere
accompagnato a casa del console di Francia>>.
<<Ho l'ordine di ammanettarla, se grida, sir!>>.
<<Tutta l'Europa sentirà parlare di questa cazzata!>>,
disse il monsieur, infuriato.
Il silenzio non fu più rotto, se non dal mio compagno di viaggio che
mi poneva un sacco di domande sulla mia caserma. Ero ormai un esperto
di ogni tipo di fandonie e mi fu semplice raccontargli un mucchio di
frottole, in particolare quelle sui buoni rapporti che correvano fra
me e Walport, il quale mi aveva affidato questo delicato caso.
Sapendo inoltre che le informazioni strettamente riservate non erano
minimamente state rivelate ai soldati, potei gestire il piano di fuga
come meglio mi parve; infatti, raggiunto il mare, lasciai i miei due
compagni di viaggio in uniforme là, spiegando che io da solo avrei
dovuto condurre il baro oltremanica e che un contingente di stanza a
Brighton sarebbe venuto a prenderli nel giro di un'ora. Oltrepassai
il mare e, dalla Francia, fuggimmo con un'automobile a noleggio verso
la Germania.
Attraverso queste straordinarie vicissitudini fui di nuovo libero e
mi rafforzai nella decisione, che già avevo preso, di non cadere mai
più nelle mani di alcun reclutatore e di essere, da allora in poi,
sempre e solo un gentiluomo.
Con una buona somma di denaro e con un buon giro di fortuna che ci
accompagnò in quel momento, fummo in grado di fare una non indegna
figura. Infatti, potei entrare rapidamente nella migliore società
berlinese, dove posso dire che la mia persona e il mio modo di fare,
oltre alla singolarità delle mie avventure, mi fecero accogliere nel
modo migliore. Non vi era riunione della nobiltà in cui i due
gentiluomini Bellini non venissero invitati. Ebbi l'onore di baciare
la mano del cancelliere Merkel e di essere graziosamente ricevuto al
Bundestag, e scrissi a mia madre una lunga mail sulla mia prosperità.
Che vita, ragazzi! Sapevo di essere nato gentiluomo, per il modo
delicato con cui trattavo ogni tipo di affare, perchè certo si
trattava di affari. Infatti, sebbene possa sembrare strano a dirsi,
la nostra vita non è tutta un piacere, e posso assicurare ad ogni
persona di bassa nascita che abbia l'occasione di leggermi, che noi
dobbiamo lavorare quanto loro. Mi alzavo, è vero, a mezzogiorno. Ma
non ero forse stato al tavolo da gioco fino verso le cinque, sei del
mattino? Spesso tornavo a casa quando alcuni negozi aprivano e mi
faceva bene, ogni tanto, osservare le camionette della polizia e dei
militari spostarsi alle prime luci dell'alba e pensare che non ero
più legato a quella disciplina, ma riportato alla mia situazione
naturale.
Mi ero ambientato subito a Berlino, come se vi avessi sempre vissuto.
Avevo un maggiordomo per seguirmi, un filippino che mi aggiustava i
capelli ogni mattina, conoscevo il gusto del buon caffè quasi per
intuito e sapevo distinguere il vino francese da quello californiano;
portavo anelli per il solo gusto di esibire la mia ricchezza (seppur
momentanea, lo ammetto), polsavo anche due orologi Rolex rimessi su
fusi orari diversi, vestivo solo con le migliori firme proposte dalla
moda dell'epoca ed estraevo portasigarette in oro massiccio ad ogni
occasione. Avevo miglior gusto naturale per cravatte e gemelli di
qualsiasi persona abbia mai conosciuto; sapevo giudicare una macchina
buona quanto un qualsiasi dirigente automobilistico tedesco; ero
senza rivali nel tennis, nel golf e nella caccia; sapevo scrivere e
parlare con abilità anche il francese e il tedesco. Presi a ricevere
lezioni di chitarra e cantavo alla perfezione ogni classico musicale
inglese. Dove era, insomma, un più perfetto gentiluomo di Sbelluccio
Bellini de Rabelais?
Tutti questi lussi, confacenti alla mia situazione, non si potevano
naturalmente ottenere senza soldi, per procurarci i quali Luca Pisano
aprì un casinò a Berlino, a due passi da Potsdamer Platz. Eravamo
in società con un romano, ben noto in tutti gli stati d'Europa, il
conte Filippo Maria della Scala, il più abile giocatore di poker che
io abbia mai visto; egli, alla fine, si rivelò un vero mascalzone e
scoprii che anche la sua contea era tutta un'impostura. Luca aveva un
arto impedito; della Scala, come tutti gli impostori, era un
vigliacco: fu soltanto l'abilità senza pari che avevo nel maneggiare
un coltello e la prontezza con cui lo usavo che mantennero la
reputazione della “ditta” e ridussero al silenzio più di un
giocatore che aveva delle esitazioni sul pagamento delle sue perdite.
Noi giocavamo con tutti, cioè con ogni persona di onore e di nobile
lignaggio; non chiedevamo mai con insistenza le nostre vincite e non
rifiutavamo di ricevere assegni invece di denaro contante. Ma guai a
colui che non faceva fronte all'impegno quando un periodo prefissato
giungeva alla scadenza. Allora Sbelluccio Bellini lo aspettava con il
suo conto e vi assicuro che ci furono pochi debiti inesigibili; per
contro i gentiluomini ci erano grati della nostra correttezza e la
nostra reputazione, sul punto dell'onore, restava immacolata.
Oggi il gioco è stato snaturato ed è una professione solo per quei
pochi buffoni che compaiono in televisione ventiquattro ore al
giorno; quando io e il cugino di mio padre giravamo l'Europa grazie
alle carte, erano altri tempi e il poker non era ancora venuto così
di moda, pur essendo largamente conosciuto anche da persone ben meno
nobili di noi. Ora che l'aristocrazia ha dovuto fondersi e sopratutto
confondersi con la piccola e media borghesia, ora che anziani
politici improfumati di incenso sbraitano sulla pubblica piazza
discorsi più antichi del mio casato e che perfino i ragazzini delle
scuole medie possono provare il brivido del gioco, come sono visti
quei gentiluomini che hanno costruito fortune per merito delle carte?
Come delinquenti, farabutti e profittatori. Eppure mi chiedo cosa
abbia il loro modo di vivere di più onorevole di quello che avevo io
a quei tempi?
L'agente di borsa che specula al rialzo e al ribasso, e compra e
vende, e si impegna in prestiti a lungo termine, e si vale dei
segreti di stato, che cos'è se non un giocatore? Può essere
definito onorevole il mestiere dell'avvocato, in cui un uomo mente
per qualsiasi offerta? Si può chiamare onorevole un dottore che non
crede nelle ricette che prescrive ai pazienti e prende comunque dei
soldi per dire che va tutto bene? Invece, secondo la moderna morale
del mondo, sono disonorevoli quei gentiluomini che si siedono ad un
tavolo verde e giocano il loro denaro. È solo una congiura
delle classi medie contro quelli dei piani alti.
In questo periodo Luca Pisano, da sempre politicamente schierato, non
metteva mai meno di dieci euro nelle sue donazioni sindacali.
Dovunque andassimo, baristi e ristoratori ci ricevevano meglio di
qualche maraja indiano. Avevamo l'abitudine di regalare il cibo
avanzato ai nostri pranzi e alle nostre cene a ventine di barboni e
zingari che albergavano nella ex-zona federale della città. Il
pomeriggio, poi, era il momento della giornata in cui solitamente,
dividendoci le zone del centro di Berlino, passavamo a ritirare i
nostri soldi o a fare credito. Abbiamo messo alle strette personaggi
veramente influenti nel panorama politico e culturale di allora, e
visto che anche adesso mentre scrivo continuo a tenere il senso di
rispetto e riservatezza di allora nei confronti di queste persone, mi
dispenserò dal fornire i loro nomi e cognomi: mi basti dire che
giornali di pettegolezzi come il “Bild” o il nostro “Chi”
avrebbero saputo di che scrivere per un paio di mesi. Molte signore,
che Luca conosceva da quando la città era ancora divisa, tentarono
di ricattarci a loro volta, ma noi avevamo sempre quel qualcosa in
più che le dissuadeva dal portare avanti simili tentativi.
Come si sarà visto, la nostra vita, nonostante gli agi e gli
splendori, era piena di pericoli e difficoltà e richiedeva molto
talento e coraggio per arrivare al successo.
Quando, dopo tre anni, la città di Berlino cominciò a non avere più
segreti per noi, e dopo che tutti i debitori ci ebbero pagato quanto
spettava, io e il cugino Luca decidemmo di riavvicinarci alla nostra
patria. Così, senza perdere un sol minuto e dire una parola (il
carattere del buon cugino di Pisa da questo punto di vista era
ammirevole) o permettere che il segreto della nostra partenza fosse
noto a qualsiasi persona mortale, mettemmo a pegno tre quarti dei
nostri gioielli e del nostro guardaroba, acquistammo una Porsche
“Cayman S” nuova di zecca presso la concessionaria Löwe
di Baden e, col nostro denaro spicciolo, che ammontava in tutto a
poco meno di ottantamila euro, scendemmo di nuovo in campo.
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