III.
NEL QUALE FACCIO UNA
FALSA PARTENZA NEL BEL MONDO
E HO UNA VISIONE NUOVA
DELLA GLORIA MILITARE
Per riprendermi un po'
dallo stress della giornata, mi fermai a cena ad una locanda alle
porte di Chiusi; non avevo scelto a caso quel posto, dal momento che
da lì potevo tranquillamente proseguire sia per Arezzo che per Roma.
Solo che non resistetti di fronte alla splendida cantina del luogo e
finii con lo scolarmi due bottiglie del miglior Brunello; essendo
totalmente incapace di guidare e avendo finalmente una discreta
quantità di denaro, decisi di fermarmi là per la notte, e quando
l'albergatore mi chiese i documenti non ebbi di che preoccuparmi,
visto che gli raccontai che ero diretto nella capitale, dove avrei
completato i miei studi in Lettere. Vedendo il mio bell'aspetto, la
mia camicia pulita di fresco e la valigia che mi portavo appresso, il
padrone si prese la libertà di darmi la camera migliore dell'albergo
e di spedirmi un'ulteriore bottiglia in camera. Da quelle parti,
nessun gentiluomo andava a letto senza una generosa dose di buon
liquore sullo stomaco, e vi assicuro che recitai la mia parte alla
perfezione. Non sognai la morte di Tobino, come avrebbero fatto molti
giovani delinquenti di qualche chiosca mafiosa da due soldi, e del
resto non ho mai avuto sciocchi rimorsi dopo qualsiasi partita
d'onore.
La mattina, bevvi un
caffè senza zucchero, accompagnato da una brioche, e chiesi alla
cuoca di prepararmi un panino arrostito, tanto per avere qualcosa da
spiluzzicare durante il viaggio; cambiai una delle due banconote da
cento che avevo in tasca per pagare il conto, senza dimenticare di
dare laute mance a tutti i camerieri, come deve fare un perfetto
gentiluomo. Cominciai così il primo giorno della mia vita nel mondo,
e così ho continuato. Nessuno è mai stato in ristrettezze peggiori
delle mie, e io ho conosciuto talvolta la miseria più nera e la
povertà più dura, ma nessuno può dire di me che, se avevo un euro,
non fossi generoso e non lo spendessi con la prodigalità di un Lord.
Non temevo il futuro: pensavo che un ragazzo delle mie qualità,
talento e coraggio, si sarebbe fatto strada ovunque. E poi avevo in
tasca un centinaio di euro, somma che (in questo mi sbagliavo)
calcolavo sarebbe durata almeno altri tre, quattro giorni; nel
frattempo, pensavo a come agire per raggiungere la fortuna. Allo
svincolo della superstrada, decisi se riavvicinarmi ad Arezzo e
dunque rimanere in Toscana, oppure se dirigermi a sud, verso la
capitale. Per scrupolo, contai nuovamente i quattrini, detti un morso
al panino arrostito e lo trovai ottimo; ero impavido, ma non
incosciente: conoscevo i costi di Roma e sapevo che con le mie
risorse sarei sopravissuto forse un paio di giorni. Perciò, decisi
di rimanere nel Granducato, fino a quando non avessi trovato una
fonte di reddito che mi avrebbe permesso di allontanarmi.
Avevo attraversato ormai
tutta la Val di Chiana e mi trovavo nei pressi di Cortona, quando
notai una paletta dei carabinieri che mi faceva cenno di accostare.
Obbedii e rimasi calmo, spensi la macchina e abbassai il finestrino.
L'agente Barbucci (notai subito il nome inciso sulla placchetta di
metallo posta sul petto) mi invitò cortesemente ad esibire i miei
documenti; seppure andassi di fretta, avevo controllato attentamente
che assicurazione e bollo fossero in perfetto ordine. <<Dei
ladri hanno assalito un autoblindo sulla strada>>, mi spiegò
il carabiniere, <<E dobbiamo aspettare che questa riapra. Lei
dov'è diretto?>>.
Avevo bisogno di una
grande idea e decisi di sfruttare il delicato momento di politica
estera che l'Italia e un po'tutta l'Europa stavano vivendo; spiegai
che dovevo sconfinare in Umbria e raggiungere Foligno, dove mi sarei
voluto arruolare nella fanteria. Il mio tono convinto e patriottico
toccò il cuore del povero Barbucci, che porgendomi i documenti
disse: <<E che c'è bisogno di arrivare fino a Foligno? Qui
sopra, a Cortona, presso la nostra caserma, ci sono proprio oggi i
reclutatori>>.
Ero con le spalle al
muro, e ricevetti il colpo di grazia quando l'agente chiamò il suo
collega e lo pregò di scortarmi con la moto fino alla caserma del
piccolo e bellissimo paese. Ringraziai entrambi i carabinieri e feci
il mio ingresso nell'anonima caserma, pensando che, alla fine, poteva
andare peggio e che avevo finalmente l'occasione di servire il mio
paese e di coronare quel sogno di gioventù che tanto mi aveva fatto
invidiare i cari cugini.
Il reclutatore richiese
le mie generalità e domandò cosa mi portava ad arruolarmi a
Cortona. Gli dissi che, francamente, ero uno studente che, a causa di
pesanti perdite economiche, si era visto costretto ad abbandonare gli
studi universitari e che riteneva preferibile servire il paese che
tornare a casa. Dieci minuti dopo ero arruolato al servizio dello
stato italiano e del ministro della Difesa. A nessuno poteva venire
in mente che un volontario fosse là per sfuggire alla legge dopo
aver ucciso in duello un ufficiale pugliese. Inoltre, il Cavaliere
aveva troppo bisogno di uomini per badare alla loro provenienza, e un
individuo della mia statura, disse il sergente, era sempre il
benvenuto. Una camionetta portò me e i miei commilitoni fino alla
stazione ferroviaria più vicina, e da lì un treno speciale ci
condusse al campo di addestramento di Caserta, in Campania.
Non ho mai provato altro
piacere al di fuori di quello di una buona compagnia e odio tutte le
descrizioni di una vita mediocre. In conseguenza, il racconto
relativo all'ambiente in cui ero venuto a trovarmi allora deve essere
breve; e il suo stesso ricordo mi è profondamente sgradevole. Il
pensiero di quell'orribile buco nero in cui eravamo confinati
noialtri soldati, delle disgraziate creature di cui ero costretto a
subire la compagnia, dei villani, dei vagabondi, dei delinquenti che
avevano cercato nel servizio militare un rifugio contro la miseria e
la legge (come, in sostanza, avevo fatto anch'io), è sufficiente a
farmi vergognare di me stesso anche ora, e mi sale il rossore sulle
guance quando penso che sono stato costretto a restare non poco tempo
in una simile compagnia. Mi sarei dato alla disperazione, se non che,
per fortuna, accaddero alcuni eventi che mi sollevarono lo spirito e
mi consolarono, in un certo modo, delle mie sventure.
La prima delle
consolazioni che provai fu una bella lite, avvenuta il giorno dopo il
mio arrivo a Caserta, con un grosso individuo dai capelli rossi, un
vero mostro siculo, un bagnino di San Vito Lo Capo ora arruolatosi
per sfuggire ad una moglie litigiosa, la quale, per quanto egli fosse
un pugile, era sempre stata per lui un avversario difficile. Non
appena questo individuo -mi ricordo che si chiamava Russo- era
sfuggito dalle mani della lavandaia sua consorte, gli si erano
risvegliati il coraggio e l'orgoglio tipici di ogni “picciotto”,
ed era divenuto il tiranno di tutti coloro che gli stavano attorno.
Tutte le reclute, specialmente, erano oggetto dei suoi insulti
brutali e dei suoi maltrattamenti. Io non avevo soldi, come ho detto,
e stavo seduto con aria molto sconsolata davanti ad un piatto di
prosciutto rancido e di pane secco, che ci era stato distribuito alla
mensa, quando venne il mio turno di servirmi da bere, e mi venne
messo davanti, come agli altri del resto, un bicchiere ancora sporco
di sapone, che conteneva un po'di vino rosso allungato con acqua
frizzante. Il recipiente era tanto unto che non potei fare a meno di
rivolgermi all'uomo che distribuiva il pranzo e dirgli: <<Scusa,
posso avere un altro bicchiere? Questo qui è sporco...>>.
A queste parole tutti i
mascalzoni che mi stavano attorno diedero uno scoppio di risa,
scambiandosi battute in dialetto (cosa ancor più fastidiosa e
disprezzabile), ma più forte di tutti sghignazzava, naturalmente, il
signor Russo. <<Portate al picciotto un tovagliolo per le mani
e una scodella di zuppa di tartaruga!>>, gridava quel barile di
passito di Pantelleria, che stava semisdraiato sulla panca di fronte
a me; e mentre diceva questo, si alzò, prese il mio bicchiere e lo
vuotò in un solo sorso, fra gli applausi degli altri.
<<Se lo vuoi far
arrabbiare, sfottilo a proposito di sua moglie, che lo tratta male>>,
bisbigliò senza dare nell'occhio il mio compagno di tavolo, un
commerciante di Udine costretto ad arruolarsi e, come me, infastidito
da quella sovrabbondanza di esuberanti meridionali.
<<E'un tovagliolo
lavato da tua moglie, signor Russo? Dicono che spesso ti asciuga la
faccia con uno di quelli!>>, dissi marcando moltissimo il mio
accento da toscanaccio.
<<Sfottilo anche
perché non ha voluto vederla ieri, quando è venuta al campo>>,
aggiunse il mio commilitone, e così feci, aggiungendo particolari
sbellicanti fino a che Russo non balzò in piedi e, afferrata una
sedia, non minacciò di tirarmela addosso. Un paio di sottoufficiali
arrivò a fermarci, ma fu il sergente maggiore D'Angelo, nostro capo
istruttore, a dichiarare amabilmente che, se lo preferivamo, potevamo
batterci a pugni, da veri uomini. Ma l'uso della lotta libera
sembrava non essere contemplato nel profondo sud, e così venne
stabilito, cause di forza maggiore, che ci saremmo battuti con un
paio di pesanti bastoni di olivo, imitando e volgarizzando ciò che
nella terra del Sol Levante risulta essere il millenario sport del
kendo; sebbene per me fosse una completa novità, con una di queste
rustiche armi finii quel prepotente e losco bagnino in quattro
minuti, poiché gli diedi su quella testa malata un colpo tale che lo
lasciò privo di sensi sul cortile del campo di addestramento, senza
che io ricevessi in cambio neanche un livido.
Questa vittoria sul
“picciotto” mi fece guadagnare il rispetto di quella compagnia di
malavitosi di cui ormai anch'io facevo parte, ma la mia posizione
nell'ambiente militare divenne presto più sopportabile in
conseguenza dell'arrivo di un vecchio amico. Questi non era altri che
il mio padrino nel fatale duello che mi aveva lanciato tanto presto
nel mondo: il capitano Magnini.
Quando arrivò l'Iveco
con a bordo il nostro capitano, cercai di apparire nella migliore
delle forme al momento del saluto militare, e sobbalzai arrossendo,
quando egli riconobbe me -un discendente dei Bellini- in quella
umiliante posizione; e io vi posso assicurare che la comparsa del
volto di Magnini mi fu molto gradita, perchè ero sicuro che avevo
vicino a me un amico.
Il capitano con
un'occhiata mostrò di avermi riconosciuto, ma non dette di questo
fatto alcuna dimostrazione pubblica; solo due giorni dopo, quando un
aereo ci stava trasportando verso l'Iraq, mi chiamò nella cabina di
pilotaggio, e dopo avermi stretto la mano con grande cordialità, di
fronte ai taciturni piloti, mi diede notizie della mia famiglia, che
molto desideravo. <<Ho cercato di sapere di te ad Arezzo>>,
mi disse, <<E, in fede mia, non hai avuto tutti i torti a
cambiare destinazione di viaggio. Anzi, credo che non avresti potuto
fare di meglio di quello che hai fatto. Ma perché non hai mai
scritto o telefonato a casa, alla tua povera mamma? Ti ha mandato non
so quanti sms, credendoti ad Arezzo e dintorni>>.
Gli dissi che avevo perso
il cellulare giocandolo a carte (in realtà, lo avevo smarrito appena
arrivato a Cortona) e tagliai corto.
<<Possiamo
scriverle adesso, grazie al nostro pilota>>, proseguì, <<Tra
due ore sarai in Iraq e magari a tua madre farà piacere saperti
salvo e sotto le armi>>. Non mi andava di parlare di mia mamma
e cambiai bruscamente argomento.
<<Laila sta
bene?>>, chiesi con un lieve tremolio di voce.
<<La povera
Laila...>>sospirò Magnini, al che io pensai che fosse morta
per il dolore della mia fuga e per la nostalgia provata nei miei
confronti.
<<Oddio! Che le è
successo, capitano?>>.
<<Era così
addolorata dalla tua rocambolesca partenza, che trovò consolazione
in un marito. Adesso Laila è la moglie di Eugenio Tobino>>.
<<Come Tobino?
Esisteva un altro Eugenio Tobino?>>, chiesi io,
sbalordito per la notizia.
<<No, caro mio, è
lo stesso. La pistola con la quale gli hai sparato era caricata a
salve. Credevi che Remo, ma anche i cittadini di Agrestone, si
volessero far sfuggire una rendita di centocinquantamila euro
l'anno?>>.
E quindi Magnini mi disse
che per mandarmi fuori dai piedi- poiché il vile capitano pugliese
non avrebbe mai consentito al matrimonio per paura del sottoscritto
–avevano combinato il piano del finto duello. <<<Ma tu
l’hai colpito in pieno, Sbellu, con bel proiettile a salve, e quel
ficoso si è cacato tanto in mano che ci è voluta un’ora prima che
si riprendesse!>>.
Confesso che fui molto
sollevato al pensiero di non averlo ucciso, ma ciò non bastava a
togliermi dalla testa la codardia di quell’uomo e il subdolo
tranello messo in atto per me. <<<E la famiglia di Remo, una
delle più antiche e onorevoli al mondo, ha acconsentito a prendersi
in casa un vigliacco simile?>>.
Magnini rise, dette un
sorso ad una bottiglietta di acqua minerale e scosse la testa. <<Hai
bisogno di qualche soldo, caro? Ho un centinaio di euro vinto a carte
stamani, e finché camperò non sarai mai al verde>>.
Benché sia stato
chiamato capitano Bellini per molti anni della mia vita e sia stato
conosciuto con tale titolo dalle maggiori personalità d’Europa,
debbo confessare che non ho più diritto a tale qualifica dalla
maggior parte dei gentiluomini che l’assumono, e che non ho mai
avuto diritto ad alcun grado militare più elevato che quello dei
galloni del più modesto caporale. Venni nominato caporale da Magnini
durante il nostro viaggio verso l’altopiano iracheno e il mio grado
venne confermato anche al campo base dei nostri alleati. Mi era stato
promesso il grado di sergente e forse anche quello di tenente, se mi
fossi distinto, ma il destino non volle che restassi un soldato
italiano a lungo, come si vedrà presto. Incoraggiato ed esortato dal
mio buon amico capitano, facevo il mio servizio con grande zelo; ma
benché fossi gentile e mi mostrassi di buon carattere con i miei
commilitoni, non potei mai consentire a fare amicizia con simili
volgari individui, e del resto venivo di solito chiamato da loro il
Principe. Credo che tale soprannome l’avesse trovato un
traduttore e interprete di Velletri, un farabutto che per primo mi
aveva dato questo titolo; e io sentii, guarda caso, di meritare
quella distinzione con lo stesso diritto di un qualunque Principe del
regno.
Ci vorrebbe un grande
storico e filosofo per esporre le cause della Guerra in Iraq in cui
erano impegnati gli Stati Uniti e diverse nazioni d’Europa; del
resto, la sua origine mi è sembrata sempre molto complicata, e i
libri scritti su tale argomento tanto difficili e oscuri che di rado
ho capito qualche cosa di più dei titoli degli stessi capitoli; in
conseguenza, farò grazia al lettore di ogni disquisizione mia
personale sull’argomento.
A Falluja presi parte
alla mia prima battaglia; sinceramente, vi fu ben poco di eroico quel
giorno ed entrambe le parti ne dettero e ne presero. Non posso,
tuttavia, fare a meno di dire che feci una conoscenza molto intima
col colonnello Ibn-Amar, perché gli ficcai nello stomaco un
proiettile, e feci fuori anche un giovanissimo magrebino, neanche
maggiorenne. Uccisi, oltre a questi, altri quattro ribelli, e nella
tasca di un barbuto soldato trovai una borsa con quattrocento dollari
e un pacchetto di sigarette francesi; il primo di questi regali mi fu
molto gradito. Tutto quello che so della battaglia di Falluja (salvo
quello che ho imparato dai libri di storia e dalla cronaca
giornalistica) è detto qui sopra. Le sigarette del barbuto e la sua
borsa piena di dollari; la faccia livida del povero Ibn-Amar mentre
mi cadeva davanti; le grida dei miei compagni mentre sparavo nel
mucchio; le loro grida e le loro bestemmie quando il fuoco si fece
più intenso e il numero di ribelli sembrava superare non di poco il
nostro; sono, in realtà, ricordi molto poco degni, su cui è meglio
sorvolare rapidamente. Quando il mio buon amico Magnini cadde,
colpito dalle schegge di un mortaio, un suo collega capitano e caro
amico si volse verso il tenente Moratti e disse: <<Magnini è
andato; ecco la tua compagnia, Moratti!>>.
Fu questo l’epitaffio
per quel grand’uomo di Magnini, mio amico e protettore. <<Avrei
voluto lasciarti quei cento euro famosi, Sbellu>>, mi disse,
<<Ma ho avuto sfiga ieri sera a carte e ho perso tutto>>.
Furono le ultime parole che mi rivolse.
Quando tornai, neanche
cinque minuti dopo, con il medico del reggimento, era già morto e
qualcuno (dei nostri, si intende) gli aveva rubato i gradi e il
portafogli, oltre ad un anello di scarso valore che portava
all’indice della mano sinistra. Come divengono mascalzoni e cattivi
gli uomini in guerra! È bello per i gentiluomini parlare dell’età
della cavalleria, ma pensate ai contadini, agli ignoranti, ai ladri,
agli assassini: è con uomini dediti solo alla sbornia, all’omicidio
e al saccheggio che i grandi politici e i re hanno fatto il loro
sporco lavoro nel mondo.
Nessun commento:
Posta un commento