Ormai le cose vanno talmente tanto male che se qualcuno volesse uscirsene con una citazione, in un discorso parlato come in un testo scritto, dovrebbe prestare molta attenzione all'attingere da una fonte comunemente ritenuta "accettabile": ad esempio, è accettabile citare la frase x di Jim Morrison letta su una pagina Facebook che si fregia dell'elegante nome "Camorra and Love"; non è accettabile, d'altro canto, citare una frase x1 di Morrison estrapolata dalla canzone y contenuta nell'album k. Al di là del fatto che le frasi firmate "Jim Morrison" che ogni tanto fanno capolino sulla mia bacheca di Facebook si rivelano spesso dei falsi clamorosi (non gli sarebbero bastate ventisette vite per scriverle tutte), se la tipologia di citazione adottata appartenesse alla seconda categoria, verremmo immediatamente accusati di "saccenza". "Saccenza" è una brutta parola, creata ad hoc dagli ignoranti che devono attaccare, in qualche modo, chi ne sa più di loro su un determinato argomento: e visto che oggi, complice una serie di fattori, tutti sembrano intendersi di tutto, è largamente diffuso questo tipo di atteggiamento. Sempre di "saccenza" vengono accusate quelle persone che, senza secondi fini, parlano bene o male di qualcosa e la rapportano a qualcos'altro: <<L'Oz di Raimi non mi è piaciuto per questo, questo e quest'altro motivo. Però, se voglio vedermi un bel film di Raimi, guardo per la ventesima volta L'armata delle tenebre e...>>, inizia uno, <<Vabbè, basta, non ti piace...lo abbiamo capito! Non ci devi montare un discorso di due anni sopra!>>, conclude l'altro. Parlare di un libro che non sia di Saviano o Moccia è un comportamento "saccente", parlare di un film che non sia Il principe abusivo o I pirati dei Caraibi 347575935745 è da "saccenti", fare presente che Gassman ha letto Dante alla RAI quarant'anni fa e decisamente meglio di Benigni è da "saccenti". Scrivo tutto questo per introdurre una recensione di un film che mi ha messo in crisi, perchè ne stanno parlando tutti bene, così come tutti avevano parlato bene del libro (che non ho letto) da cui la pellicola è tratta: Bianca come il latte, rossa come il sangue.
Leo (Filippo Scicchitano) ha 16 anni e frequenta il terzo anno di Liceo Classico Cavour di Torino. Parla inspiegabilmente romanesco stretto (Mario Brega era molto più "nordico") ed è il tipico sedicenne che nella realtà non esiste. Qui ci troviamo subito davanti ad un difetto ormai diffusissimo nel nostro cinema: l'invenzione di un'adolescenza che non esiste da nessuna parte in questo paese. Non esistono quelle felpe, non esistono quei colori, non esistono quei tagli di capelli, quel gusto (buono o cattivo, dipende) nell'arredamento di una cameretta, quei modi di vivere e di pensare. Il film è iniziato da dieci minuti, e già non vi è alcuna differenza fra Amore 14 di Moccia e questa farsa sentimentale di Campiotti (che aveva esordito bene, nel 1994, con Come due coccodrilli, ma si era smerdato velocemente con film quali Mai + come prima e Il sorteggio o una serie televisiva come Maria di Nazareth): entrambi hanno in comune la falsità e la patinatura. Se non altro, Moccia lascia fuori temi "pesanti" come la malattia e la morte, risparmiando allo spettatore una sua visione di altri aspetti della vita. Campiotti no. Campiotti vuole dimostrare qualcosa, e fa scendere l'ombra della morte su questa storiella da mentecatti: infatti, Leo si innamora di Beatrice (Gaia Weiss), che purtroppo si ammala di leucemia, ma non prima che un professore-boxeur sognatore bello come il sole (Luca Argentero) inizi a spiegare l'amore di Dante per Beatrice, sfoggiando un prontuario di luoghi comuni che ci martellerà per tutto il film. Leo inizia ad andare a trovare Beatrice, dona il midollo osseo sperando che sia compatibile col suo, le tiene compagnia e cerca di farla ridere. Farò due esempi, tanto per dare un'idea dei livelli di mancanza di rispetto che può raggiungere un film ai giorni d'oggi. Dapprima, Leo le regala tre cd, che lui stesso definisce la colonna sonora della sua vita: si tratta degli album dei Modà (che compaiono sulla locandina come autori della colonna sonora). Se una persona sta morendo, un regalo del genere non può che accellerare il corso della malattia, ma non in questa storia: infatti Beatrice non solo lo ringrazia, ma trova addirittura la forza di ballare Se si potesse non sentire. Il secondo esempio è ancora più grave: visto che le condizioni della ragazza sembrano peggiorare, quale miglior regalo del pallone della Roma autografato da Totti? A questo punto, inizio a darmi gli schiaffi, sperando di stare sognando tutto e di risvegliarmi in una fumeria d'oppio a Chinatown. Dal momento in cui Beatrice, che nel corso della chemioterapia si è avvicinata parecchio a Dio, sembra essere sulla via della guarigione (grazie al midollo di un altro donatore), Leo cambia atteggiamento e scopre che, in realtà, è innamorato di Silvia, la migliore amica che egli aveva precedentemente respinto. La storia va avanti fra siparietti con i genitori che "nun me capiscono", partite rionali di calcetto, pianti nei cessi, tappeti di fragole e pseudo-aforismi indegni perfino di un libro della Mazzantini (<<Ogni cosa è un colore, ogni emozione è un colore...>>). Mi trattengo dal riportare il finale, limitandomi a quella che è la morale del film: Morto un papa, se ne fa un altro.
Non per fare sempre il "Bastian contrario", nè per passare da "saccente" (così mi riallaccio alla mia introduzione), ma io mi sono domandato come un film simile possa trovare non solo un suo pubblico, ma anche delle persone che hanno studiato e che lo definiscono "profondo", "realistico", "coraggioso". Io inizierei a fare una raccolta firme per mandare in rieducazione i critici professionisti che lo stanno elogiando, mentre per quelle pecore che vanno a vederlo, ci ridono e ci piangono ed escono dal cinema felici e contenti basterà mettere un guardiano all'uscita e porre loro una semplice domanda: <<Ti è piaciuto il film?>> oppure <<Ti sei rivisto/a in questo film?>>. Se la risposta è <<Sì>>, non c'è altra soluzione che il linciaggio seduta stante.
Quando stasera sono tornato a casa, sul digitale terrestre, stava finendo L'orgoglio degli Amberson di Orson Welles: non scrivo che consiglio di vedere quello piuttosto che Bianca come il latte, rossa come il sangue, perchè non vorrei apparire troppo "saccente".
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