Quando si arriva a tracciare un albero genealogico dei grandi registi, chissà perchè, ci si dimentica sempre di Walter Hill. Semplice ingiustizia? No. Io parlerei direttamente di "reato culturale". Walter Hill è uno dei grandi maestri del Cinema, campo in cui è attivo dal lontano 1968: inizialmente lavora come sceneggiatore per geni del calibro di Sam Peckinpah, che lo volle con sè per Getaway!, e John Huston (sua la sceneggiatura de L'agente speciale Mackintosh), poi passa alla regia, esordendo con un capolavoro come L'eroe della strada (1975). Da allora, Hill ha diretto oltre venti pellicole, quasi tutte indimenticabili: dal cult assoluto I guerrieri della notte (1979) a western eccellenti come I cavalieri dalle lunghe ombre (1980) e Geronimo (1993), dai primordiali incroci fra poliziesco e comico (bastano i nomi di 48 ore e Danko a mandare a letto i vari Bad Boys di Bay e altra spazzatura) a folli capolavori quali I guerrieri della palude silenziosa (1981), Ricercati: ufficialmente morti (1987) e Ancora vivo (1996). Western, dramma, musical, azione, gangster: è difficile trovare un "troiaio" clamoroso nella carriera di Hill (anche se Supernova un po' imbarazzante era), o- ancora più raro -un film formalmente e tecnicamente brutto. E sapete perchè? Perchè è così. Perchè Walter Hill, con i suoi settantuno anni e un attaccamento ai registri più classici del grande cinema americano (quello che va da Ford e Hawks fino alla generazione di Peckinpah e Aldrich), continua a impartire lezioni sulla Settima Arte, e lo fa con una bravura cui ormai siamo davvero poco abituati, specie se pensiamo al genere di film cui ci troviamo di fronte: un action-movie puro diretto da un vero grande regista, e non una disonesta puttanata da nerd più o meno attempati come I mercenari (tanto per citare l'altra faccia di Stallone, quella che piuttosto siamo abituati a vedere più spesso e che affonda le sue radici in un pattume reaganiano tipo Rambo III).
Il ritorno di Hill sul grande schermo dopo undici anni (da Undisputed) lo dobbiamo alla trasposizione del fumetto francese Du plomb dans la tete (scritto da Alexis Nolent e disegnato dal neozelandese Colin Wilson): co-sceneggiato da Hill col padovano Alessandro Camon, Bullet to the Head racconta la storia del malvivente Jimmy Bobo (uno Stallone in stato di grazia, una volta tanto), che, nel tentativo di vendicare un suo ex-collega, deve mettersi a fianco Taylor Kwoon (Kang), un simpatico poliziotto orientale. Da una parte la dura violenza di strada, dall'altra il senso del dovere. Non mancano sparatorie, pugni dati e presi, belle donne e cattivi veramente cattivi. Così come non mancano i muscoli, i dialoghi brillanti, i ritmi di un montaggio spettacolare, i grandi pezzi della colonna sonora hard blues di Mazzaro, le cartoline notturne di una New Orleans post-Katrina marcia e malfamata. E' un concerto di grande musica classica quello diretto da Walter Hill, autore anarchico che ormai nessuno sembra voler far lavorare e che fa un film ogni morte di papa (infausto destino, analogo a quello di Carpenter). Andate a vedere Jimmy Bobo, regalatevi un'ora e mezza (scarsa) di ottimo cinema, una gran bella storia e un protagonista indimenticabile. Perchè questo è Bobo: un eroe indimenticabile, ma una volta tanto diverso. Bobo non è un buono puro, non è il personaggio dal passato spietato e sanguinario che tuttavia trova la forza di redimersi; Bobo è un figlio di puttana, un uomo senza scrupoli ma con un codice di onore ferreo. E, al contrario di molti coglioni palestrati (alcuni dei quali portati in scena proprio dallo stesso Stallone), riconosce i propri limiti, sa di guardarsi allo specchio e di vedere un volto solcato dalle rughe, conosce la triste verità: la vita è una, e nessuno di noi è eterno. Neanche gli eroi.
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