PREMESSA
La rubrica Trame è in anticipo di alcuni giorni, è vero. Ma c'è un motivo.
Una finta autobiografia che si ispirasse, anzi che ricalcasse i grandi romanzi di formazione inglesi e tedeschi del Settecento e Ottocento.
Non a caso, è un voluto plagio de Le memorie di Barry Lyndon di Tackeray.
Non a caso, è un voluto plagio de Le memorie di Barry Lyndon di Tackeray.
12 capitoli e un grande divertimento nello scrivere unendo fantasia, realtà, belle copie di vita, brutte copie dell'arte.
Come nella migliore tradizione dei romanzi d'appendice, non pubblicherò questa autobiografia tutta insieme, ma un capitolo alla volta, anche se devo ancora decidere la cadenza. Ci penserò.
Nel frattempo, buona lettura.
LE MEMORIE DI
SBELLUCCIO
BELLINI
GENTILUOMO
DEL REGNO D'ITALIA
IL CUI CONTENUTO CONCERNE:
IL RACCONTO DELLE SUE
AVVENTURE STRAORDINARIE;
LE SVENTURE; LE SOFFERENZE
AL SERVIZIO DI SUA SIGNORIA
IL DEFUNTO CAVALIERE; I
SOGGIORNI IN DIVERSE CORTI EUROPEE;
IN TOSCANA E IN ITALIA; E
LE MOLTE PERSECUZIONI,
COMPLOTTTI E CALUNNIE DI
ESTREMA CRUDELTA' DI CUI FU VITTIMA.
I.
LE MIE ORIGINI E LA MIA
FAMIGLIA.
SUBISCO L'INFLUSSO DI
UNA TENERA PASSIONE
Dai tempi di Adamo in
poi, si può dire che non vi sia mai stato al mondo un guaio in cui
non fosse implicata una donna. E da quando ha avuto origine la nostra
famiglia (e deve essere stato molto vicino ai tempi di Adamo-
tanto antichi, nobili e illustri sono i Bellini, come ognuno sa) le
donne hanno avuto una parte importante nei destini della nostra
razza.
Immagino che non vi sia
in tutta Europa alcun gentiluomo che non abbia sentito nominare la
casata dei Bellini di Toscana, nel regno d'Italia, poiché nessun
nome altrettanto famoso si può trovare nel Triveneto o nel
Mezzogiorno; e benchè da uomo di mondo io abbia imparato a
disprezzare con tutta l'anima i vantati diritti a un'altra nobiltà
di pretendenti che non hanno una genealogia più illustre di quella
del lacchè che mi lucida gli stivali, e benchè derida col maggior
dileggio le spacconate di molti dei miei concittadini, che discendono
tutti dalle signorie del Granducato e parlano di un pezzetto di terra
(su cui potrebbe a malapena vivere un porco) come di un feudo; pure
la verità mi costringe a dichiarare che la mia famiglia era la più
nobile della penisola e forse dell'universo mondo. E d'altra parte i
nostri possedimenti, ora insignificanti, a noi sottratti dalla
guerra, dal tradimento, dal trascorrere del tempo, dalla bizzarria
degli antenati, dalla fedeltà dell'antica fede e all'antico monarca,
una volta erano immensi e abbracciavano molti borghi, in un tempo in
cui l'Italia era molto più ricca e prospera di ora.
Avrei potuto anche porre
la corona medicea sul mio stemma gentilizio, ma troppi sono gli
sciocchi pretendenti a questa distinzione che già la portano e
l'hanno resa comune. Forse, chissà, se non ci fosse stata di mezzo
una donna oggi la corona avrei potuto portarla io. Se vi fosse stato
un condottiero valoroso a guidare i miei concittadini invece di quei
queruli buffoni che piegarono il ginocchio dinanzi ai Savoia, essi
avrebbero potuto rimanere uomini liberi; e se vi fosse stato un capo
risoluto per affrontare quel mascalzone assassino di Benito
Mussolini, avremmo potuto cacciare i forestieri una volta per sempre.
Ma non vi era alcun Bellini in campo contro Vittorio Emanuele e al
tempo del Ventennio era troppo tardi per levare il grido di guerra
contro il Duce.
Non eravamo più principi
della terra; la nostra infelice razza aveva perduto i suoi
possedimenti un secolo prima, in conseguenza del più vergognoso
tradimento. Conosco bene il fatto, poiché mia madre me ne ha spesso
raccontato la storia e per di più ha compilato un albero genealogico
in ricamo di lana che ha appeso nel salone giallo dell'Agrestone,
dove abitiamo. Questo è il solo feudo che i Bellini posseggano ora
in Italia e fu un tempo proprietà dei miei antenati. Lorenzo Bellini
di Castello lo possedeva fin dal tempo di Cosimo de'Medici. I
Bellini, in quel tempo, erano sempre in lotta con i pisani Cappelli e
una donna del mio casato, la figlia del buon Lorenzo, era innamorata
del giovane marchese Cappelli: quest'ultimo, seguito dai suoi
familiari, guidò il massacro e fece a pezzi il mio antenato Lorenzo
Bellini. L'odioso macello ebbe luogo al crocevia della Madonnina di
Coneo, presso Boscona. Il Cappelli sposò la figlia di Lorenzo e
pretese il feudo che egli lasciò; e benchè i discendenti di Lorenzo
fossero vivi e si continuino nella mia persona, nella causa di fronte
ai tribunali del Granducato di Toscana il feudo venne concesso al
pisano, come è sempre avvenuto in tutti i processi in cui fossero
interessati pisani e fiorentini. Così, se non fosse stato per la
debolezza di una donna, sarei fin dalla nascita entrato in possesso
di quei feudi che più tardi dovetti acquistare grazie al mio merito,
come avrete modo di sentire. Ma andiamo avanti con la storia della
mia famiglia.
Mio padre era molto noto
nei circoli del Granducato, e più in generale in quelli d'Italia,
col nome di Mario Floriano Bellini. Si era indirizzato, come altri
figli cadetti di nobili famiglie, alla professione di ingegnere, e
aveva fatto il suo tirocinio in un celebre studio di viale Lavagnini,
a Firenze. Per il suo ingegno superiore e per il suo amore della
logica non vi è dubbio che sarebbe divenuto una figura eminente
nella sua professione, se le sue qualità sociali, la passione per i
divertimenti politici e sportivi e la straordinaria grazia dei suoi
modi, non lo avessero indirizzato verso un tipo di attività di gran
lunga superiore. Sin da quando era studente di Ingegneria, egli
manteneva sette cavalli da corsa e andava a caccia regolarmente con i
cacciatori di Giampiglia e di Onci. Sul suo cavallo grigio, Fanta,
disputò poi quella famosa corsa contro il notaio Birindelli che è
ancora ricordata dagli amanti di quello sport. Per ricordare quella
vittoria fece dipingere uno splendido quadro che ora è appeso sopra
la mensola del mio camino nella sala da pranzo di Castel Portanova.
Un anno dopo ebbe l'onore di cavalcare, a Fosci, lo stesso cavallo
Fanta davanti al defunto arciduca Francesco Salvatore di Toscana,
ricevendone il premio e la benevola attenzione dell'augusto signore.
Benchè fosse l'unico figlio unico della nostra famiglia, il mio caro
padre ereditò naturalmente il feudo (ora ridotto soltanto alla
miserabile rendita di 40.000 euro l'anno), perchè un suo parente più
anziano, il cugino Luca Pisano (così chiamato a causa della
provenienza della madre, originaria di Cascina) rimase fedele alla
vecchia religione in cui la nostra famiglia era stata allevata, e non
solo prestò onorevolmente servizio alla dirigenza delle allora
Ferrovie Statali, ma combattè persino contro la privatizzazione di
queste nell'infelice salita al potere del Cavaliere Silvio
Berlusconi. Riparleremo oltre del cugino Luca Pisano.
Devo essere grato della
conversione di mio padre alla mia cara mamma, Anna Rita Bacherozzi,
figlia del Signore e giudice di pace Marcello Bacherozzi di Asciano,
provincia di Siena. Ella era, ai suoi tempi, la più bella donna
delle crete senesi e veniva chiamata da tutti <<l'Elegante>>.
Vedendola ad un'assemblea, mio padre si innamorò perdutamente di
lei; ma ella non voleva sposare un gentiluomo fiorentino o
l'assistente di qualche ingegnere, e così per amor suo, essendo
ancora in vigore le vecchie leggi, il mio caro babbo prese il posto
del cugino di Pisa ed entrò in possesso del feudo di famiglia. Renzo
Bisconti prestò ai miei genitori il suo yacht, che allora
stava all'ancora a Santa Croce sull'Arno, e la bella Anna Rita venne
indotta a fuggire con Mario Floriano a Poggibonsi, benchè i suoi
genitori fossero contrari al matrimonio e i suoi spasimanti (glielo
ho inteso dire migliaia di volte) fossero i più numerosi e ricchi di
tutta la ex-Repubblica di Siena. Si sposarono a San Gimignano e mio
padre, vista la magnanimità del nonno, potè entrare in possesso dei
beni famigliari e sostenere con dignità il nostro nome a Poggibonsi-
dove sfruttarono una casa lasciata in eredità da un vecchio prozio
-e in molti altri stati d'Europa (su tutti, Francia, Svizzera,
Austria, ex-Jugoslavia e Grecia). Ferì, in una partita di calcetto,
il famoso conte Bandinelli dietro la tenuta di Strozzavolpe, fu
membro della <<San Galgano>> e frequentatore di tutte le
mescite di cioccolata, e mia madre, del pari, fece una vita
brillante. Infine, dopo il giorno del suo grande trionfo di fronte
alla signoria di Francesco Salvatore a Fosci, la fortuna di Mario
Floriano stava ormai per essere fatta, perchè il generoso arciduca
aveva promesso di pensare a lui. Ma, purtroppo, egli venne chiamato
da un'altra signoria, la cui volontà non consente ritardi né
rifiuti, vale a dire dalla Morte, che colse mio padre alle corse di
Pian del Lago, lasciandomi orfano e senza aiuto. Pace alle sue
ceneri! Egli non fu senza colpa e dissipò la maggior parte delle
proprietà della nostra famiglia; ma era valente nel bere un
bicchiere e nello scuotere dadi e nel guidare il suo scooter cromato
da vero uomo alla moda.
Non so se il subentrato
arciduca Guntram, principe di Toscana, fosse molto colpito
dall'improvvisa scomparsa di mio padre, benché mia madre mi abbia
detto che in quell'occasione fu sparsa qualche nobile lacrima. Ma
queste non ci aiutarono in nulla, e tutto ciò che la moglie e i
creditori trovarono in casa fu una borsa con novanta euro, che mia
madre naturalmente prese insieme allo stemma di famiglia, il
guardaroba di mio padre e il suo. Dopo aver caricato tutto su un
camion di traslochi, si diresse verso Colle di Val d'Elsa. Il
funerale fu organizzato agilmente, giacchè il monumento e la
cappella in chiesa erano, purtroppo, tutto quanto rimaneva dei miei
vasti possedimenti; perchè mio padre aveva venduto fino all'ultima
porzione della proprietà a un certo Pacini, un avvocato. Ricevemmo
quindi soltanto un gelido benvenuto nella nostra casa- che era
diventata un luogo miserabile e squallido.
Mia madre decise che la
miglior soluzione sarebbe stata di riparare presso la sua famiglia a
Fontasciano, ed è là che arrivammo con una lussuosa berlina blu che
portava scolpito un immenso stemma di famiglia dei Bellini sul retro:
quindi, nonostante le divergenze passate, la mia mamma venne
considerata subito dai parenti e dal resto del borgo come una persona
di notevole ricchezza e di grande distinzione. Per un certo tempo,
Anna Rita dettò legge a Fontasciano. Dava ordini ai servitori in qua
e in là e insegnava loro ciò di cui avevano molto bisogno, vale a
dire un po' di distinzione fiorentina. E il “Sbelluccio Ferrucci”,
come io venivo chiamato dai parenti più colti, era trattato come un
piccolo Lord; aveva per sé una cameriera e un paggio, e l'onesto
nonno Marcello pagava loro lo stipendio. Mamma sistemò il nuovo
alloggio con grande economia e considerevole gusto e mai, nonostante
la povertà, venne meno la dignità che le era dovuta e che tutto il
vicinato le tributava. D'altra parte, come si poteva rifiutare
rispetto a una gentildonna che aveva vissuto a Poggibonsi, aveva
frequentato la società più elegante ed era stata persino (come ella
stessa dichiarava solennemente) presentata a Palazzo Comunale? Questa
situazione le dava il diritto- che sembra essere largamente
esercitato in Italia da quei nativi che lo posseggono -di guardare
dall'alto in basso con disprezzo tutte le persone che non hanno avuto
occasione di lasciare la penisola e di vivere per qualche tempo a
giro per l'Europa. Inutile soffermarsi sulle malelingue di
Fontasciano riguardanti i motivi che avevano portato la signora
Bellini e il suo diletto figliuolo a ricorrere all'aiuto di quella
famiglia Bacherozzi che anni prima era stata rinnegata: la
televisione e i giornali della domenica non ci forniscono forse ogni
settimana più freschi romanzi e pettegolezzi più interessanti?
Basti dire che l'insopportabilità dei toni e degli argomenti rese
impossibile qualsiasi tipo di convivenza e fu proprio mio nonno a
congedare me e mia madre, non prima di aver donato lei la cospicua
cifra di novantamila euro. Andammo ad abitare ad Agrestone e, tenendo
conto della scarsità della nostra rendita, ci tenevamo su bene.
Della mezza dozzina di famiglie che formavano la congregazione di
Agrestone, non c'era nessuno che avesse un'aria tanto rispettabile
quanto la mamma, la quale, benchè sempre vestita a lutto in memoria
del defunto marito, badava che i suoi abiti fossero fatti in modo da
dare alla sua bella persona il maggior risalto possibile. Ritengo che
passasse almeno sei ore di ogni giorno della settimana a tagliarli,
guarnirli e modificarli perché fossero sempre alla moda. Confesso
che la mia camera all'Agrestone era molto piccola, ma noi ne tirammo
su tutto il profitto possibile. Ho ricordato già l'albero
genealogico della famiglia che era appeso nel salotto, mentre la mia
cameretta ospitava alcuni dipinti sopravvissuti agli sperperi paterni
e la camera da letto di mia madre finiva con l'assumere il ruolo di
grande magazzino della moda del tempo. Al momento del pranzo, Massimo
il domestico suonava regolarmente una grande campana e avevamo per
bere una coppa d'argento per uno, e mia madre affermava, non a torto,
che avevo dinanzi a me una bottiglia di chiaretto degna di qualsiasi
altro signore del Granducato. Infatti, era così: per me e mia madre,
la cantina riserbava sempre e soltanto le bottiglie più prestigiose.
E il nonno Marcello, nonostante le dispute in famiglia, si accorse di
questo fatto un giorno in cui venne per sua disgrazia ad Agrestone
all'ora di pranzo e gustò quel nettare. Bisognava vedere come
tesseva le lodi di quella bevanda e le smorfie che faceva! Era uno
degli individui più simpatici, semplici e di buon carattere che mai
siano vissuti, e passava volentieri qualche ora con mia madre quando
era stanco della nonna Anna Emilia e della casa. Gli piacevo, diceva,
molto più di qualcuno dei suoi tanti nipoti, e alla fine, dopo un
paio d'anni, acconsentì a farmi rientrare a Fontasciano. Quanto a
mia madre, però, mantenne risolutamente il giuramento e non volle
mettervi più piede.
Proprio il giorno in cui
tornai a Fontasciano si può dire, in un certo senso, che
cominciassero i miei guai. Mio cugino, Daniele, un grosso mostro di
diciannove anni (mi odiava e, ve lo posso garantire, lo ricambiavo
con tutto il cuore), mi insultò a pranzo rinfacciandomi la povertà
di mia madre, e fece ridere alle mie spalle tutte le ragazze della
famiglia Bacherozzi e della servitù. Andammo così nelle stalle dove
Daniele era solito accendersi, di nascosto, una sigaretta dopo
pranzo; gli dissi tutto quello che pensavo di lui e ne seguì una
lotta che durò almeno dieci minuti, durante i quali mi comportai da
uomo e gli pestai l'occhio sinistro, benché a quel tempo io avessi
solo dodici anni. Naturalmente egli mi battè, ma una sconfitta fa
poca impressione a un ragazzo in quella giovane età, come io avevo
già provato molte volte nelle mie battaglie con i monellacci di
Agrestone, nessuno dei quali, durante quel periodo della mia vita,
era in grado di starmi alla pari. Mio nonno fu molto soddisfatto
quando seppe della mia prodezza; mia cugina Elvira portò il cotone e
l'alcool per curarmi il naso e quella sera andai a casa con una
bottiglia di vino rosso sullo stomaco, non poco orgoglioso di avere
tenuto duro per tanto tempo contro Daniele. Da allora tornai quasi
ogni giorno a Fontasciano; mio nonno mi comprò un puledro, mi
portava con sé a cacciare lepri e uccelli e mi insegnò a tirare a
volo. E alla fine fui liberato anche dalla persecuzione di Daniele,
poiché suo fratello, Gabriele, ritornò dal Sant'Anna di Pisa e,
siccome odiava il fratello maggiore (cosa che avviene di solito nelle
famiglie del bel mondo), mi prese sotto la sua protezione. Da quel
momento, poiché Gabriele era più grosso e forte di Daniele, io
venni lasciato stare, salvo le volte in cui veniva a Gabriele la
voglia di frustarmi, cosa che faceva ogni volta che lo riteneva
conveniente.
La mia educazione non
venne trascurata neppure nelle parti più superflue, e poiché avevo
una non comune predisposizione per molte cose, presto superai in
finezza la maggior parte delle persone che mi stavano intorno. Avevo
orecchio ed una bella voce, che mia madre coltivava con cura,
insegnandomi anche a ballare il minuetto con grazia e solennità e
gettando così le fondamente del mio futuro successo nella vita.
Imparai anche i balli volgari, e io venivo considerato senza rivali
sia nella danza moderna che nel liscio. Per quanto riguarda la
cultura libresca, ebbi sempre un gusto non comune per leggere
tragedie e romanzi, che sono la parte fondamentale dell'educazione di
un perfetto gentiluomo e mai lasciavo il paese senza aver acquistato
almeno un paio di volumi. Per quanto riguarda, invece, grammatica,
greco, latino e inglese, le feci mie sin dalla prima infanzia e
dichiarai subito francamente che le avrei approfondite più avanti.
Questa mia intenzione la mostrai in maniera abbastanza decisa all'età
di tredici anni, quando mia madre spese quel centinaio di euro di
tasse scolastiche per la mia educazione, decidendo di iscrivermi al
Liceo Classico di Colle di Val d'Elsa, diretto all'epoca dal noto
giurista Otello Pennabianchi. D'altro canto, mentre in italiano,
latino, greco, inglese, storia, filosofia e geografia ero il primo
della scuola, non riuscivo affatto ad eccellere nello studio della
matematica e delle scienze, e dopo essere stato fustigato sette
volte, senza che questo facesse fare il minimo progresso alla mia
algebra, mi rifiutai di sottomettermi di nuovo, trovando la cosa
perfettamente inutile, a un'ottava applicazione della frusta.
<<Cercate qualche altro sistema, prof.>>, dissi al
professore quando stava per scudisciarmi un'altra volta; ma egli non
volle, e allora per difendermi gli tirai in testa la lavagna e lo
colpii con un enorme tomo di geometria euclidea. A questo gesto i
miei compagni si misero a strillare di gioia e da quel giorno il mio
percorso scolastico fu solo in discesa. Non ero decisamente lo
studente modello, una tipologia che ho sempre teso a denigrare con
tutto me stesso. Infatti, ho incontrato nel mondo molti dotti topi di
biblioteca, specialmente un'illustre coetanea, ora commercialista con
gli occhi cisposi, di nome Monechi, che viveva in un cortile presso
le Tre Grazie, a Colle; ebbene l'ho ridotta al silenzio, come sto per
dirvi, nella mia aula scolastica; e in questo e nella poesia, e in
quella che chiamo filosofia naturale, o scienza della vita, e
nell'equitazione, nella musica, nel salto, nel tennis, nella
conoscenza dei motori o nelle scommesse calcistiche, nel modo di fare
di un perfetto gentiluomo e di un uomo di mondo, posso dire che, per
quanto mi riguarda, Sbelluccio Bellini ha di rado trovato un eguale.
<<Elisabetta>>, dissi alla signorina Monechi
nell'occasione cui alludevo, <<credi di saperne molto più di
me perché citi il tuo Aristotele e il tuo Ricardo, ma sai dirmi
quale cavallo vincerà a Bagnaia la settimana prossima? Sai correre
per mezzo chilometro senza ripigliare fiato? Sai mandare in buca sei
palle di fila seguendo la progressione numerica? Se è così, parlami
pure del tuo Aristotele e del tuo Ricardo>>. Ma sto divagando
dalla mia storia e debbo, in conseguenza, tornare a casa, alla cara
vecchia Italia.
Avevo fatto conoscenza,
fin da allora, con la gente più ragguardevole della provincia e i
miei modi, come ho detto, erano tali da poter stare alla pari con
tutti loro. Forse vi meraviglierete che un ragazzo di campagna, quale
io ero, educato tra piccoli proprietari toscani e i loro dipendenti
di fattoria e fabbrichetta, potesse arrivare a possedere quel modo di
fare così elegante che senza discussione mi viene da tutti
riconosciuto. Ma il fatto è che ebbi un valente istruttore nella
persona di uno studente rivoluzionario, che aveva fatto il servizio
militare sulle Alpi assieme ai rampolli dell'aristocrazia francese, e
che mi insegnò il ballo e le belle maniere, nonché un'infarinatura
della lingua di quel paese, insieme con l'uso della carabina. Molte e
molte volte ho camminato, da ragazzo, per un chilometro e mezzo al
suo fianco, mentre egli mi narrava le meravigliose storie delle
manifestazioni in Francia, della sinistra extraparlamentare, del
compagno Fidel e dei gruppi hard rock delle nostre zone. Egli aveva
anche conosciuto il cugino Luca Pisano e alcuni miei parenti e sapeva
mille raffinatezze sulle più illustri famiglie del paese. Non ho mai
conosciuto un ragazzo che potesse stargli a pari nel gioco del
calcio, nel mettere a posto un'automobile, nel guidarla e nel saperla
scegliere. Mi insegnava gli sport virili, a cominciare dalla caccia
dei nidi, così che considererò sempre Pietrino come il miglior
istitutore che abbia mai avuto. Il suo unico difetto era il bere, ma
su questo ho sempre chiuso un occhio; odiava anche mio cugino Daniele
come il veleno, ma anche su questo punto mi era facile scusarlo.
Sotto la guida di Pietrino, all'età di quindici anni, ero un ragazzo
molto meglio educato dei miei cugini, e credo che la Natura fosse
stata anche più benigna verso la mia persona. Alcune ragazze di
Agrestone, come presto racconterò, mi adoravano. Nelle discoteche e
alle corse molte delle ragazze più carine presenti dicevano che mi
avrebbero voluto avere come cavaliere. Eppure, bisogna che lo
confessi, non ero molto popolare. In primo luogo, tutti sapevano che
ero povero in canna; e credo che forse un po' di colpa l'avesse, in
questo, la mia buona madre che mi aveva fatto troppo orgoglioso.
Avevo l'abitudine di vantare, coi miei compagni, la mia nascita e la
magnificenza del mio parco macchine, dei miei giardini, delle mie
cantine, dei miei domestici, e questo davanti a gente che conosceva
perfettamente la mia effettiva situazione. Se c'erano dei ragazzi che
osavano pigliarmi in giro, dovevo picchiarli, a costo di morire.
<<Difendi il tuo nome anche col sangue, Sbellu>>, mi
diceva quella santa donna, con le lacrime agli occhi. Così quando
avevo quindici anni non c'era più ragazzo, si può dire, al di sotto
dei vent'anni in un raggio di dodici chilometri, che non avessi
picchiato per una ragione o per un'altra. Potrei ricordare una
ventina di prodezze da me compiute, se questi ricordi di pugilato non
fossero argomenti troppo futili per parlarne davanti a gentiluomini e
signore.
Fu sempre verso i
quindici anni che presi a frequentare Laila, una volgare civetta
piccolo borghese che da anni orbitava intorno ad Agrestone; ero un
ragazzo ingenuo e passionale e non le nascosi i sentimenti che potevo
provare, a quel tempo; così ella non potè fare a meno di accorgersi
presto delle mie intenzioni e prese a trattarmi talvolta da bambino,
talvolta da uomo. Mi piantava sempre in asso se, nella piazza del
paese, vedeva passare il dottorino o addirittura il figlio del
fattore. <<Dopo tutto>>, mi diceva, <<tu, Sbellu,
hai soltanto quindici anni e non hai un euro al mondo>>. Allora
le giuravo che sarei divenuto il più grande imprenditore che si
fosse mai conosciuto fuori dal Granducato di Toscana e facevo la
scommessa che, prima di aver raggiunto i vent'anni, avrei avuto
abbastanza denaro per comprare un feudo sei volte più grande di
Agrestone. Naturalmente non ho mantenuto nessuna di queste sciocche
promesse; ma non vi è dubbio che esse ebbero molta influenza sui
primi anni della mia vita e mi indussero a compiere quelle grandi
azioni per cui sono divenuto celebre e che verranno ora ordinatamente
narrate.
Voglio riportare, però,
almeno un episodio, così che i lettori possano conoscere che razza
di tipo era Sbelluccio Bellini e quale coraggio e indomita passione
avesse in corpo. Non so se qualcuno dei giovani all'acqua di rose del
giorno d'oggi avrebbe osato fare la metà di ciò che feci io di
fronte al pericolo. Occorre premettere che in quel tempo l'Italia era
in stato di grande eccitazione per la minaccia, che generalmente
trovava credito, di un'invasione islamica. Si diceva che fosse stato
meditato uno sbarco in Sicilia, e i nobili e la gente del popolo che
erano in grado di farlo in tutte le parti del regno mostravano la
loro fedeltà arruolando reggimenti di fanti e paracadutisti per
resistere all'invasione. Fontasciano mandò una compagnia ad unirsi
al reggimento di Siena, in cui era capitano mio cugino Daniele, e
ricevemmo una lettera di Gabriele dal Sant'Anna, che raccontava come
anche l'università avesse formato un reggimento, in cui egli aveva
l'onore di essere caporale. Come li invidiavo entrambi! Soprattutto
quell'odioso di Daniele, quando lo vedevo marciare alla testa dei
suoi uomini nella sua giabba mimetica ricamata, con il basco
amaranto. Lui, quella povera creatura priva di intelligenza, era
capitano, ed io, niente! Io che sentivo di avere tanto coraggio
quanto Giuseppe Garibaldi in persona, e che sapevo, per di più, che
una giubba mimetica mi sarebbe stata tanto bene. Mia madre mi disse
che ero troppo giovane per arruolarmi nel nuovo reggimento dei
paracadutisti, ma il fatto era, in realtà, che lei era troppo povera
e il costo dell'arruolamento avrebbe ingoiato almeno la metà della
sua rendita di un anno, mentre avrebbe voluto che suo figlio facesse
una figura degna della sua nascita, guidasse la migliore delle
fuoriserie, fosse vestito con gli abiti migliori e frequentasse le
compagnie più eleganti. Così dunque, mentre tutto il paese
risuonava di rumori di guerra, le otto provincie rimbombavano di
musiche militari e ogni uomo di merito si recava a rendere omaggio
alle truppe della Difesa, io, perchè povero, ero costretto a
restarmene a casa, in pigiama, a sospirare in segreto la gloria. Una
volta gli ufficiali della Caserma Bandini di Siena diedero un grande
ballo a Casetta, a cui, naturalmente, vennero invitate tutte le
signore di Colle, che formavano il carico completo (e passabilmente
brutto) di un servizio navetta messo a disposizione dal comune. Laila
proclamò solennemente che andare chiusa negli autobus le faceva
sempre male; così andammo insieme con la Jaguar di mio nonno fino a
Casetta, e mi sentivo orgoglioso come un principe, poiché Laila mi
aveva promesso di ballare con me tutta la notte. Ma appena arrivati,
quell'ingrata civetta mi dichiarò di aver completamente dimenticato
il suo impegno; e infatti aveva ballato tutto quel giro con un
soldato pugliese. Ho sopportato molti tormenti nella mia vita, ma
nessuno pari a quello. Cercò di farsi perdonare la sua
trascuratezza, ma inutilmente. Ero troppo sconvolto per riuscire a
divertirmi con le altre ragazze, e così restai solo, tutta la
serata, in preda al più vivo spasimo. Avrei voluto giocare, ma non
avevo denaro, tranne la moneta da due euro che mia madre mi faceva
sempre portare nel portafoglio- senza spenderla -come deve fare un
gentiluomo. Non avevo voglia di bere, e in quel tempo non conoscevo
ancora l'amaro conforto che si prova con questo; ma pensavo di
uccidermi, di uccidere Laila, e di fare altrettanto col capitano
Tobino. Finalmente al mattino le danze ebbero fine. La maggior parte
delle ragazze se ne andò con la prima corriera del giorno; Laila
prese posto in macchina, cosa che le lasciai fare senza dire una
parola. Dopo mezzo chilometro, ella iniziò a scusarsi, a
giustificarsi e a pronunciare strane frasi, come <<A me non
importa niente del capitano Tobino!>>, o ancora, <<Con te
posso ballare ogni giorno!>>. Il mio umore subì un ulteriore
peggioramento quando Laila aggiunse ad una delle sue giustificazioni
le seguenti parole: <<Oltre a tutto questo, Sbellu, il capitano
Tobino è un uomo e tu soltanto un ragazzo, e non hai neanche un
euro!>>. Bestemmiai e dissi <<Se mai lo incontrerò
ancora, vedrai chi è il migliore fra noi due. Lo sfiderò a pugni e
a coltelli, per capitano che sia. Sfiderò ogni uomo ti si
avvicini!>>. Di fronte alla mia romantica presa di posizione,
Laila, che quella volta aveva voglia di ridere, continuò i suoi
sarcasmi. Dichiarò che il capitano Tobino era già noto come
valoroso soldato, che era famoso come uomo di mondo a Roma, e che
poteva essere facile da parte di un Bellini qualsiasi parlare,
vantarsi e battere compagni di classe e figli di contadini, ma
sfidare un capitano dell'Esercito Italiano era una cosa molto
diversa.
Per l'ora di pranzo
tornai a casa, dove mi ammalai di una febbre che mi tenne a letto per
sedici giorni; e quando lasciai il mio giaciglio ero molto cresciuto
di statura, e ancora più violentemente era aumentata la mia
passione, che era più forte di quanto avessi mai provato prima. Il
mio risveglio era stato brillante, ma in casa mia potevo respirare
un'aria bizzarra. Il fatto è che, durante gli ultimi giorni della
mia malattia, si era installato ad Agrestone niente meno che il
capitano Tobino, che stava corteggiando Laila in debita forma. Scesi
in cortile, montai in automobile e in meno di cinque minuti ero nei
pressi della cinta muraria che divideva il giardino di Laila dalla
strada; aggrappandomi dove potevo riuscii a raggiungere la cima del
muro di cinta alto tre metri. Da principio, notai un fuoristrada
Iveco targato “EI” e un soldato semplice che lo stava lucidando;
decisi di non scavalcare per andare a rompergli le ossa e sgonfiare
le gomme al mezzo. Con un'agilità sconosciuta a tutti i miei
coetanei non addestrati e senza farmi notare, percorsi il muro di
cinta fino al limite della piccola proprietà, e fu lì che, nascosto
dietro il tronco di una quercia, vidi Tobino e Laila che
passeggiavono per il giardino insieme. Davanti a quello spettacolo,
le ossa cominciarono a tremarmi violentemente e mi sentii tanto male
che fui sul punto di cadere svenuto sull'erba, vicino all'albero cui
mi ero appoggiato; poi raccolsi tutte le mie forze, mi diressi verso
la coppia che stava camminando, aprii la lama del piccolo coltello
col manico d'argento che portavo sempre nella tasca posteriore dei
jeans, ben deciso a trapassare il corpo dei due delinquenti e a
infilarli come bestie. Ebbi l'impressione che tutto il mondo mi
crollasse sotto i piedi. Avevo un bracciale in falso oro rosa; Laila
me l'aveva regalato e lo portavo sempre con me. Lo trassi dal polso e
lo gettai in faccia al capitano Tobino, e mi precipitai su di lui col
coltello sguainato. Gridando, lo presi per il collo, mentre Laila
faceva echeggiare l'aria delle sue grida, al rumore delle quali il
soldatino di piombo che avevo notato al cancello e Remo (un avido
commerciante padre di Laila) si precipitarono verso di noi. Benchè
fossi cresciuto come la gramigna durante la malattia e avessi quasi
raggiunto la mia statura definitiva di un metro e ottantatre, ero
soltanto un soldo di cacio in confronto all'enorme capitano pugliese,
che aveva spalle e polpacci quali non può vantare neanche uno
scaricatore del porto di Livorno. Quando gli saltai addosso, diventò
prima tutto rosso, poi straordinariamente pallido, si divincolò e
afferrò la Beretta calibro 38 nella fondina, allorché Laila,
sopraffatta dal terrore, l'abbracciò gridando: <<Euge'!Fermo,
lascia stare il bambino! Non lo vedi, è solo un ragazzino?>>.
<<Dovrebbe essere
cinghiato, questo pezzo di merda!>>, disse il capitano, <<ma
non avere paura, Lailina, non lo tocco, il tuo gigolò>>.
Così dicendo si chinò,
raccolse il bracciale che recava le iniziali di Laila e,
porgendoglielo, disse in tono sarcastico: <<Quando le ragazze
fanno ai ragazzotti simili regali, è necessario che altri ragazzotti
si ritirino>>.
Laila iniziò a
giustificare il regalo che mi aveva fatto tempo addietro, ma
inutilmente; Tobino poi tornò a prendersela col sottoscritto.
<<Chiamerò un boia a farti un culo così, guaglioncello!>>,
disse, <<e in quanto a te, Laila, ti dico “arrivederci e
grazie”>>.
Si tolse il basco con
ostentata cerimoniosità, fece un profondo inchino, ed era sul punto
di andarsene, quando giunse mio cugino Daniele, che era passato con
il resto del reggimento a reclutare alcuni ragazzi di Agrestone.
<<Eugenio Tobino, ma cosa urli? Questa ragazza piange, mio
cugino con un coltello in mano e te fai l'inchino?>>.
<<Te lo dico io
cos'è successo, Dani! Ne ho abbastanza della signorina Laila e dei
vostri modi di fare toscani. Non ci sono abituato!>>.
<<Bene, ma qual'è
il problema?>>, disse mio cugino con buona grazia, perché era
debitore a Tobino di una bella somma, <<Si può sempre sperare
che adottiate i nostri modi, oppure che siamo noi ad adottare quelli
meridionali>>.
<<Non è usanza
meridionale che una ragazza abbia due innamorati, e così, Dani, ti
sarò grato se mi pagherai la somma che mi devi, mentre declino ogni
pretesa nei confronti di questa ragazzina. Se le piacciono gli
studentelli, che se li prenda!>>.
<<Ohé, Eugenio, ma
scherzi?>>, disse Daniele.
<<Non sono mai
stato più serio in vita mia>>, rispose l'altro.
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