PREMESSA
La realtà è fonte di ispirazione infinita per chi, come me, si diletta nella scrittura o nel disegno. Proprio unendo queste due nobili arti, verso la fine del 2008, iniziai a scrivere e disegnare una "pagina" umoristica dall'eloquente titolo Il corriere dell'Avaro, avente come protagonista un personaggio (l'Avaro) ispirato ad una persona vera. Questa iniziativa, nata per gioco, finì col portarmi via molto tempo: ogni settimana, di giovedì, usciva il nuovo numero del Corriere, per la lettura del quale io e altri tre, quattro amici ci ritrovavamo e davamo luogo a delle vere e proprie letture di gruppo, con annesse urla e risa. L'Avaro non è solo un personaggio, ma un luogo dell'anima: è il venticinquenne ignorante, opportunista, provinciale, viscido, lavoratore, scapolo, imbranato e inconsapevolmente infelice, che però fa i salti mortali pur di piacere. Uscirono più di trenta numeri (cioè, fogli) del Corriere dell'Avaro, che interruppi- per mancanza di voglia -nel 2010. Nel 2011 ripresi il personaggio per una serie di altri cinque fogli che allargava il campo di "indagine satirica" sui personaggi sgradevoli, ma l'idea del Corriere di Quellaltri durò poco e non uscì mai dal cassetto (e sarà bene che non esca mai, onde evitare denunce, ricatti e minacce assortite). In compenso, utlizzai l'Avaro (in questo caso dandogli il cognome Tattani) e il suo mondo per sette racconti scritti come plagio (e omaggio) del Fantozzi di Villaggio: a riprova che certe figure sociali non sono mai scomparse. Anzi...
SETTE RACCONTI DELL'AVARO
1.
COME L'AVARO FECE
CONOSCENZA CON IL SUO NEMICO
Tutta la storia era
cominciata da quando gli avevano messo nella stanza De Lauro.
Sulle prime non lo
sopportava. Aveva vent'anni meno di lui, la barba, i capelli da
“contestatore” e si vestiva senza rispettare le regole
tradizionali. Più che un impiegato sembrava uno zingaro.
<<Raccomandato!>> pensò <<se gli permettono di
venire così mascherato!>>. E poi la cosa più insopportabile
era che De Lauro non aveva chiesto né protezione, né consigli e non
aveva il tono fintamente rispettoso che hanno tutte le “matricole”
con gli anziani.
Ma dopo una settimana De
Lauro gli parlò. E lui capì che non era raccomandato, che si era
dovuto impiegare al quarto anno di vacanze politiche quando era morto
suo padre e che era molto leale.
Era stato un leader dei
DAS e quando Tattani- che in materia di contestazione era fermo a
<<Viva la pa-pa-pa-ppa col pomo-pomo-pomodoro...>> -gli
domandò timidamente <<Ma cosa diamine vogliono questi
studenti>>, De Lauro pazientemente gli spiegò tutto. Gli portò
dapprima libretti facili e poi ne parlarono insieme.
Dopo tre mesi di letture
“maledette” e di comizi, Tattani vide la verità e si incazzò
come una belva. Anzi, lui era molto più inferocito di De Lauro:
erano vent'anni che lo prendevano per il culo e per vent'anni aveva
subito il ricatto <<se non stai buono, ti facciamo fuori>>.
Poi cominciarono le
grandi rivendicazioni dell'autunno caldo. E quando De Lauro lo portò
per le vie della capitale con centomila metalmeccanici lui sentì un
gran groppo alla gola e capì che di paura non ne avrebbe più avuta.
La manifestazione ebbe un andamento molto ordinato. Arrivarono nella
piazza principale e Tattani chiese di parlare. Non lo sentivano bene
e allora, presa una sedia di vimini da un bar, ci montò sopra e
parlò. Pensò di strumentalizzare la forza di cui disponeva in quel
momento, indicando a quel fiume umano un nobile obiettivo.
<<Avanti!>> gridò. Lo seguirono solo una quarantina di
maoisti. Sulle prime non sapeva dove portarli, poi vent'anni di paura
lo fecero decidere. Sarebbero andati a far danni, a bruciare forse il
luogo che odiava di più: la ditta dove lavorava. Dopo dodici giorni
di lunga marcia, arrivarono in vista del palazzo carnefice. Tattani
perse la testa, e si staccò dal gruppo che si era fermato. L'intero
quartiere si era fermato (era la zona industriale). Tutti gli
impiegati e gli operai delle altre fabbriche erano alle finestre,
così come i negozianti, i bancari, i garagisti erano usciti fuori
come topi. Le macchine, gli autobus e tutto il traffico si erano
fermati. Si era fatto un silenzio assoluto, magico.
Lui aveva disselciato
dall'asfalto un grosso cubo di porfido. Tutti guardavano quel tizio
che con un pietrone in mano correva verso il pastificio urlando frasi
sconnesse. A dieci metri scagliò il sasso con violenza. Centrò in
pieno la grande vetrata della direzione generale. Il megadirettore
galattico comparve subito alla porta principale e a muso duro gli
domandò: <<E'stato lei, vero? Mi segua...>>. E la città
si rianimò. Tattani era diventato color topo, aveva le mani sudate e
la salivazione azzerata. Mentre salivano in ascensore gli veniva da
vomitare. Venivano accompagnati anche da due giganteschi uscieri che
erano le guardie del corpo del galattico; passarono davanti alla
sedia elettrica. Tattani si domadava cosa avrebbero potuto fargli. Un
processo sommario e poi lo avrebbero anche picchiato prima
dell'esecuzione? Temeva di essere crocefisso in sala mensa. Era
sicuro che avrebbe pianto di fronte alla signorina Sara, che lo
stimava tanto. L'ascensore si fermò e il direttore gli disse con
voce dolcissima: <<Prego, perito Tattani, si accomodi>>,
e lo fece uscire per primo.
Entrarono così
nell'ufficio più straordinario che lui avesse mai visto. Moquettes
color verde pastello, affreschi trecenteschi alle pareti, impianto di
aria condizionata, filodiffusione e anche un magnifico plasma
incastonato nella parete. <<Beve qualcosa?>> gli domandò
il megadirettore galattico con voce melodiosa. Tattani era stordito,
ma non fino al punto di accettare un bicchiere dal padrone: scosse la
testa in segno di no. <<Si accomodi, prego>> disse il
signor megadirettore. <<Qui?>> si stupì Tattani, che era
in piedi vicino alla grande poltrona dirigenziale in pelle umana.
<<Sì...che differenza c'è?>> <<Che differenza
c'è? Come che differenza c'è? Non mi vorrà mica dire che io e lei,
eccellenza, siamo uguali...voi padroni siete ladri, siete la classe
sfruttatrice e noi siamo schiavi e morti di fame!>>. Stava
citando il De Lauro.
L'illustrissimo signor
ingegner dottor megadirettore galattico sorrise paternalisticamente,
bevve un sorso di wisky, si alzò e gli accarezzò la nuca. <<Caro
Tattani, è solo questione di intendersi... di termini. Lei dice
padroni, io dico datori di lavoro, lei dice ladri, io dico
benestanti, lei morti di fame e io classe meno abbiente. Ma, per il
resto, io la penso esattamente come lei>>.
<<Come?>>
domandò lui, che non capiva.
<<Sì, e come lei
sono un uomo illuminato e penso che a questo mondo ci siano molte
ingiustizie da sanare, e la penso esattamente come il nostro caro
dipendente De Lauro>>.
<<Ma lei non sarà
mica...comunista?>> e nel dire quella parola sentì un brivido
lungo la schiena.
<<Proprio comunista
no>> disse l'illustrissimo signor ingegner dottor grand. Uff.
megadirettore galattico. <<Vede, io sono un medio-progressista.
E ritengo che tutti gli uomini di buona volontà come me e come lei
dovrebbero cominciare ad incontrarsi senza violenza in una serie di
civili e democratiche riunioni finchè non saremo tutti d'accordo>>.
<<Ma sire>>
osò timidamente Tattani ormai disidratato <<in questo modo ci
vorranno quasi mille anni...>> <<Posso aspettare...io>>
soggiunse con grande bontà il dottissimo signor ingegner dottor
megadirettore galattico.
2.
AL RISTORANTE GIAPPONESE
DELL'ULTIMO PIANO DEL CENTRO COMMERCIALE PORTA A SIENA
<<Ma porca
puttana...>>. Non potè finire la frase perchè era entrato
proprio Lui in persona: il dott. Ing. Grand. Uff. Lup. Man. Luigio Di
Cefalo Cavallo, direttore naturale dell'angolo cottura. <<Allora
Tattani, voglio seguire il suo consiglio: domani sera al ristorante
giapponese, d'accordo?>>.
Tattani non era d'accordo
per niente, anzi la cucina giapponese lo faceva vomitare e quel
mercoledì sera davano alla televisione la partita. Bestemmiò contro
il destino beffardo e dette del figlio di puttana a Marini, suo
esterrefatto vicino di scrivania. Dopo quarantasette secondi, rientrò
Di Cefalo Cavallo e sorridendo disse: <<Alle nove vadi avanti
lei con Pierugo a tenere il posto per me e mia moglie al Porta a
Siena>>. Pierugo era il cane pechinese dei Di Cefalo Cavallo.
Erano una coppia senza figli e avevano solo lui da dodici anni: non
solo si trattava di una bestia odiosa come tutti i pechinesi, ma
anche di una palla di pelo viziata, maligna e prepotente. Al Porta a
Siena non accettavano prenotazioni e l'unico modo per assicurarsi un
tavolo era recarsi sul posto prima del previsto e riuscire a
prenderne uno libero. Donna Di Cefalo Cavallo era un'orrenda e avida
ex-serva nata all'Aquila e andava pazza per la cucina multietnica.
Verso le 20:30 andò in
taxi a prendere Pierugo: il tassista aveva fretta di rientrare per
vedere la partita e mise in moto mentre il pechinese doveva ancora
salire. Tattani prese sei metri di rincorsa e sferrò un calcio
terrificante sulla fiancata della Toyota Prius: <<Cialtrone,
come si permette di partire ora...non vede che deve salire il signor
cane?>>. Di Cefalo Cavallo aveva osservato tutta la scena dalla
finestra e applaudì il coraggio del suo sottoposto. Una volta
dentro, Tattani spiegò il suo gesto ignobile al tassista, e assieme
presero una drastica decisione. Si fermarono in una stradina buia: il
tassista teneva Pierugo per le zampe mentre Tattani gli dava degli
schiaffi. <<Tu non farai la spia!>> gli urlavano sul
muso. Sputarono anche addosso a quel cane borioso.
Tattani entrò al Porta a
Siena alle nove meno un quarto con Pierugo in braccio: <<Siamo,
cioè sono in tre>> disse facendo il gesto con le dita. Al
Porta a Siena parlavano solo giapponese e bisognava farsi capire con
il linguaggio del corpo. C'erano quattro geometri di Cuneo che
avevano fatto un gruppo laocoontico per mimare un piatto di
spaghetti, erano seminudi, sudati come orsi e la disperazione negli
occhi, forse lacrime. Erano entrati alle due meno un quarto di quel
pomeriggio e non ne uscivano vivi.
Tattani pensò di far
mangiare Pierugo subito, per evitare noie con i padroni
successivamente. Schioccò le dita delle mani e rapidamente mimò
<<far mangiare il cane>>: indicò il cane, indicò con le
dita riunite la bocca, e poi si battè la pancia in segno di pienezza
e disse <<Mangiare ora>>. Presero Pierugo e lo
trascinarono in cucina; Tattani pensò che lo stessero portando a
mangiare là dentro e ne approfittò per dare un'occhiata al locale.
Notò con piacere che il menù non era molto caro, anzi con pochi
euro si mangiava abbondantemente: pensò a da quanto tempo non
portava la famiglia a cena fuori e meditò di fare uno strappo alla
regola. Tuttavia, cambiò idea rapidamente. Infatti, le regole dei
ristornati giapponesi sono tremende: non si possono toccare i cibi
con le mani, ma solo con le bacchette di legno di ciliegio. Un vicino
di tavolo di Tattani era da quattro ore alle prese con un'oliva
maledetta: si guardò intorno con molta circospezione e poi di scatto
prese l'oliva con le dita. Non fece in tempo a metterla in bocca che
un samurai emise un urlo da guerra e amputò con un deciso colpo di
katana la mano destra dello sventurato.
Arrivarono i Di Cefalo
Cavallo e domandarono di Pierugo. <<E'in cucina che mangia>>
spiegò Tattani. Arrivò il padrone del locale e si avvicinò
sorridendo. <<Qui bisogna inchinarsi>> disse
scherzosamente Tattani col tono dell'habitué. Il direttore naturale
non fece in tempo a piegarsi che cadde a terra dolorante: lui e il
padrone avevano fatto un frontale di incontro con le facce. Il
padrone fu portato via per la quinta volta nella serata, mentre Di
Cefalo Cavallo fu fatto sedere al tavolo, con la tempia appoggiata
alla parete.
<<Nel frattempo
ordiniamo del sakè caldo?>> domandò la signora. Tattani battè
le mani e mimò <<Sakè caldissimo, per favore>>. Quando
il sakè arrivò era alla mostruosa temperatura di 230 gradi,
implacabile come piombo fuso, non bolliva e non emetteva fumo, ma
aspettava sinistramente nelle tazzine. In quel momento, il direttore
naturale riprese conoscenza e decise di tirarsi su con un sorso di
sakè; spalancò pigramente la bocca e fece cenno al suo impiegato di
svuotargli la tazzina in gola. Quando Tattani sentì lo sfrigolio
orrendo misto all'odore di carne bruciata, cercò di scappare dal
ristorante, ma le spade dei samurai lo fecero tornare presto al
tavolo. Dopo cinque minuti, provò a bere anche lui, ma gli cadde una
goccia di piombo fuso sulla mano destra, dove si formò una stimmate
alla Padre Pio. Il dolore era così forte che prima vide la Madonna
di Loreto che lo fissava, poi cercò di fare dei miracoli e infine
mandò una cartolina ai suoi a Pietralcina. Si riprese, rendendosi
conto di non avere mai avuto parenti laggiù.
Vennero portati gli
antipasti: piatti sfiziosi guarniti con dei fiorellini di plastica
che Tattani non riusciva ad inghiottire; il padrone gli fece capire
la differenza mentre stava ingoiando una gheixa in avorio di 18 cm.
Poi fu il turno di una pasta cattivissima contenente teste di seppia
crude: Tattani corse fuori città, arrivando fino alle Crete per
vomitare. Non voleva farsi notare, ma quando rientrò evinse dagli
sguardi che gli venivano indirizzati che tutti i presenti avevano
capito dove era andato: del resto, i suoi conati erano stati uditi
perfino dai butteri maremmani.
<<慎重な料理が鉄と青銅製で、鉄は非常に、非常に暑いので赤になっているされているため、>>*
dissero le cameriere consegnando tre piatti al tavolo di Tattani. Di
Cefalo Cavallo fu il primo a squarciare il silenzio della sala con un
urlo straziante, scaraventando il piatto verso l'ingresso. Ogni
ventisei secondi si sentiva l'urlo tremendo provenire da ogni tavolo,
perchè portavano da mangiare il secondo a tutti i clienti
contemporaneamente. Infine fu il padrone in persona a portare il
piattoforte: Pierugo fritto in agrodolce, alla moda di Kyoto. Era un
ristorante specializzato in cani e i più raffinati si presentavano
abitualmente con il loro cane preferito. Tattani aveva mimato male la
cosa. La signora ululava impietrita e a Di Cefalo Cavallo, che aveva
cercato di toccare il suo cane, i samurai mozzarono entrambe le mani.
Nel frattempo, Tattani apprese da una radio vicina alla cucina che la
sua squadra del cuore aveva vinto 7 a 2: uscì avvolto nella sua
sciarpa da ultrà, festeggiando con altri poveracci.
* tr. <<Attenti
perchè i piatti sono di ferro e non di bronzo, e sono rossi perchè
il ferro è molto, molto caldo>>.
3.
AL SALONE DELLA NAUTICA DI
GENOVA
Un pomeriggio di ottobre,
Tattani andò al salone della nautica. Era stata un'idea di Tina, sua
moglie. E lui a schermirsi: <<Ma che ci vado a fare? Tanto non
compro nulla!>>. Ma la moglie gli spiegò che per lui era
l'unica occasione mondana dell'anno e un valido tentativo di
inserirsi negli strati dell'alta borghesia padronale.
C'erano circa tre ore e
dieci di strada fra casa Tattani e Genova, e lui aveva autorizzato la
moglie a svegliarlo anche con una pentolata di acqua gelata in
faccia. La prima pentolata la Tina gliela fece cadere sui piedi, alle
sette del mattino. Lui non si svegliò ma sognò di essere Amudsen al
Polo, durante la ricerca di Nobile. Lo svegliò una seconda secchiata
mostruosa, in nuca. La voce sinistra della moglie accompagnò la
tazza di caffè rovente: appena ne bevve un goccio, la stanza si
riempì di fumo e odore di pollo bruciato. Andò al bagno, si guardò
allo specchio e iniziò a bestemmiare ad alta voce, intervallando
alle varie “Madonne” dei suoni a dir poco inconsueti. Il
portinaio, un sessantenne vesuviano molto superstizioso, si fece il
segno della croce terrorizzato e mise una matassa d'aglio sulla
guardiola. Sarebbe andato avanti per una mezz'ora, se Tina non fosse
sopraggiunta a ricordargli quanto avrebbero potuto far loro comodo le
amicizie giuste, specie in vista del futuro della bambina. Tattani si
convinse e spogliatosi si tuffò in vasca: era un bagno di lava. Si
attorcigliò come un gambero, senza emettere manco un lamento, cambiò
colore e in sei minuti era cotto. La Tina lo fece sdraiare sul letto,
lo spalmò di maionese Kraft, lo cosparse di prezzemolo, spicchi di
limone e un po' di Perry Sauce. Lui si ribellò solo quando la moglie
si presentò con una carota in mano: sputò il limone, bofonchiò
qualcosa e si vestì velocemente.
Scarpe strettissime: si
trattava di un terribile paio di Nike Silver in misto plastica e
ferro che avevano una sinistra caratteristica, e cioè quella di
stringersi e accorciarsi, fino a che lo sventurato indossatore
comincia ad avere allucinazioni e a sentire voci come Giovanna
d'Arco. <<C'è molto freddo al salone>> disse la moglie
<<Copriti bene!>>. E così fece: mutandoni lunghi di
lana, maglia di lana, maglione di lana sotto la camicia, camicia,
altro maglione, il suo pesantissimo “spigato” siberiano, guanti
da sci, parka artico con resistenze elettriche interne, sciarpone di
montone da tre metri e colbacco clamoroso di orso. A tracolla, aveva
una fiaschetta di grappa friulana per vincere il freddo tremendo
della fiera.
Sfortuna volle che, vuoi
per la struttura in vetro, vuoi per la giornata di sole, vuoi per un
feroce impianto di riscaldamento a infrarossi, vuoi per la gran
folla, al salone della nautica era presente un clima tipico di
Maracaibo in una giornata di luglio molto umida. Tattani, prima di
entrare, bevve bruscamente un gran sorso di grappa e si infornò;
dopo sei minuti non riusciva più a respirare, dopo dodici cadde
carponi. Si trascinò al banco informazioni, per chiedere dell'acqua,
ma la gente intorno si faceva dei piccoli sgarbi: violente gomitate
sugli occhi e prese di collo stile lotta libera. Fu violentemente
calpestato e due inservienti lo abbandonarono nello stand navi da
riporto per un'ora buona. Nel riprendersi, fu colpito alla nuca da un
mostruoso colpo di randa: una nave stava effettuando una
dimostrazione. Il colpo lo scaraventò fin sulla banchina polare.
Nell'incidente era rimasto in camicia e mutande, e aveva perso anche
le scarpe di ferro. Si trascinò verso terra, metà a piedi sul Pak e
metà a nuoto inseguito dagli orsi bianchi.
Al suo ritorno, fu
accalappiato da un losco standista, che lo applaudì e gli disse:
<<Bravo! Ecco chi comprerà una bella barca!>>. Lui firmò
davanti ad una folla divertita 2 milioni di cambiali, anche a nome
della società. Aveva comperato la “Princess Ann”, una vecchia
nave ospedale inglese del 1901. Era in mutande e con un inizio di
cancrena a tutte le dita. Guidò verso casa singhiozzando e le
lacrime si mescolarono, per tutte e tre le ore di durata del viaggio,
al sangue che gli usciva copioso dal naso. Tornato in città a notte
fonda, trovò parcheggio in una strada parallela a casa sua.
Attraversò via Verdi senza guardare e fu centrato in pieno da un
autobus che andava a 180 all'ora. Si rialzò senza protestare. Sulla
soglia di casa iniziò a nevicare forte; fu assalito da un grosso
cagnaccio, col quale ebbe inizio una lotta all'ultimo sangue. Tina
aprì di colpo e lo fece volare dentro casa prendendolo per un
braccio: <<Dentro! Siamo assediati da un branco di lupi!>>.
Tattani svenne con studiata lentezza.
4.
QUATTRO GIORNI A
MONTECARLO
Per accompagnare il duca
Pier Paolo conte ingegner Cecchigori a Montecarlo, ci fu un sorteggio
per il quale si riunì anche il Consiglio dei Ministri.
Era un'occasione unica
per un mediocre come Tattani e il Cecchigori era il direttore
responsabile centrale di tutti punti vendita del gruppo. E quando in
sala mensa venne fuori il numero di matricola 1002, Tattani non si
sentì neppure emozionato, dimostrandosi quasi estraneo alla cosa.
A casa realizzò e soffrì
di insonnia tutta la notte, mentre la Tina gli diceva: <<Te lo
meritavi, cosa credi che sia solo fortuna? Hanno scelto il
migliore...>>. Ma lui si sentiva uno dei meno meritevoli.
L'occasione era a dir poco clamorosa: quattro giorni a Montecarlo a
vedere giocare il duca conte Cecchigori, un patito di gioco, cabala e
stravizi assortiti.
Scortati alla stazione di
Santa Maria Novella da una lussuosa Rolls-Royce del 1937, partirono
per Nizza in vagone letto e lui, subito per dimostrarsi migliore,
disse: <<Grazie, sig. duca conte, ma preferisco non pesare alla
società come un biglietto vagone letto. Sarò un viaggiatore seduto,
anzi dormirò in piedi>>. Passò così una notte tremenda,
durante la quale prendeva sonno ma si svegliava poco dopo con la
lingua spiaccicata sul velluto dello scompartimento che sapeva di
polvere e treno. Si addormentò in corridoio, sdraiato a pelle di
orso, con la faccia sulla giacca. A Nizza, a fine viaggio, lo
buttarono fuori a calci nei denti. Si scaraventò ad ossequiare il
Cecchigori che aveva, per il sonno, la faccia gonfia come un pugile
dopo 15 rounds, e via, di servilismo in servilismo: era disposto a
tutto e si stava giocando la vita.
All'albergo, volle
aiutare i facchini per far risaltare la differenza fra lui e il
direttore e per mostrare il suo spirito democratico. Cadde con tre
valige nella porta girevole, creando un ingorgo totale. Quando si fu
liberato, era già l'ora di inizio dei giochi.
Cecchigori giocava
naturalmente i soldi della ditta, frutti maturi di estorsioni, laute
bustarelle e ricavi da ricatti riguardanti intercettazioni
telefoniche. Tattani stava bevendo dell'acqua Perrier quando il duca
conte ebbe una botta di culo terribile e voltò tre 9 di fila a
chemin-de-fer. Il potente signore andava pazzo per la cabala e
ordinò che Tattani bevesse senza sosta acqua Perrier, la più gasata
al mondo. Inutile dire che il padrone perse come una bestia quasi
tutti i suoi averi fino alle sei del mattino.
Il giorno seguente
ordinarono da mangiare al tavolo verde presso “Le-Bec-Rouge”,
specializzato in porzioni apocalittiche. Cecchigori ordinò due tori
alla griglia con erba estragon, aggiungendo birra, acqua Perrier,
pepe, cannella, sale, pere cotte, prugne secche e olio. Tattani, dopo
cinque ore, iniziò a fare dei rutti disumani, che costarono numerose
denunce al casinò da parte di tutte le strutture dei dintorni.
Al terzo giorno,
Cecchigori era una mongolfiera. Grigio, svogliato e infelice, si era
ridotto a chiedere pochi spiccioli a Tattani, che pure era rimasto al
verde. Riuscirono, nel pomeriggio, a vendere i due biglietti del
treno ad una famiglia ucraina e a racimolare qualche centinaio di
euro. Quella sera, il duca conte sembrava avere fortuna al tavolo da
gioco; con una mano fenomenale pensò di giocarsi il tutto per tutto
e di chiudere in bellezza un'avvincente partita di poker: <<Scala!>>
gridò entusiasta. <<Scala reale!>> replicò l'obiettore
di coscienza svizzero che aveva davanti. Erano esattamente le 23 e 17
e Tattani guardò il suo padrone. La fronte del Cecchigori si imperlò
di gocce di sudore gelato, poi la drastica decisione: si buttò dalla
finestra, ma erano appena al primo piano e atterrò sulle piante di
menta. Ci rimase cinque ore. Lo portarono prima ad un prestigioso
centro di rianimazione ad Antibes, ma quando Tattani spiegò ai
medici che il duca conte era povero in canna e non aveva più un
soldo in tasca, iniziarono a cacciarli da tutte le parti. Anche
dall'albergo. Il Principato di Monaco predispose un foglio di via
alla frontiera spagnola per Cecchigori.
Tattani ritornò in
Italia quella notte, attraversando il Passo del Diavolo con un gruppo
di spalloni. Era disperato ma non gli interessava di cadere: tanto
per lui era comunque finita.
5.
LE VACANZE MARINE DI
TATTANI E MARINI
<<Porca ma...>>
disse Tattani interrompendo prontamente una bestemmia violentissima
contro la Beata Vergine, causata dalla prima tibiata mostruosa che
aveva preso dopo cinque minuti di barca. Si trovava con il collega
ragionier Marini sulla barca del Di Cefalo Cavallo, il quale, dopo il
piccolo incidente alle mani, era stato insignito della medaglia al
valore, della carica di guida spirituale della società e di
innumerevoli onoreficenze, pubbliche e private. Di lui adesso si
diceva che avesse alle spalle Monti, Craxi e Fanfani, conferendogli
dunque un'aria temibilissima. I suoi sottoposti si rivolgevano ormai
al loro direttore come ci si rivolge ad un santo, mentre gli amici ne
esaltavano le doti di ladro e carogna.
La barca che Di Cefalo
Cavallo si era regalato era stata costruita con legni pregiatissimi e
presentava, come palese peculiarità, le maniglie d'oro massiccio.
L'aveva battezzata “Luigio I”, in onore alla sua persona. Un
giorno, in ditta, aveva udito Tattani e Marini tracciare delle
somiglianze fra lui e Papa Giovanni XXIII: essendo un uomo di
vomitevole vanità, li invitò seduta stante sulla “Luigio I”.
Destinazione: Portocervo, la spiaggia dei vip, dei miliardari e dei
figli di puttana.
La cabina destinata ai
due ospiti era 1 m x 12 cm, due loculi in cui circolava l'aria
necessaria a far sopravvivere un topo. Nella prima notte di viaggio
ebbero salivazione alta, mani due spugne, capogiri, vomito, manie di
persecuzione, miraggi. Alle sette del mattino, si presentarono sul
ponte a colazione con una tachicardia parossistica. <<Come
avete dormito?>> domandò il direttore. <<Come un papa!>>
gioì Tattani, alludendo, pur con la sua bassa cultura, a Bonifacio
VIII, famoso per la sua insonnia cronica.
Fecero la traversata da
Punta Ala a Portocervo con un sole di rame. Il padrone consigliava di
ungersi ai suoi due schiavi, che stavano per ore spalmati al sole,
con paurosi costumi ascellari di lana greggia rossa stretti in vita
da due cinture bianche. Poco prima di cena, un marinaio passò
accanto ai due ospiti, li spalmò di burro, aggiunse vino bianco,
rosmarino, sale e pepe; infine, li portò in cucina, li caricò su
due piatti di argento e li lasciò riposare. Furono serviti in tavola
alle venti e trenta precise. Quella notte fecero lo stesso sogno:
vestivano i panni di San Francesco ma non potevano bere, a causa
delle stimmate.
Alle dieci del mattino,
arrivarono a Portocervo, in un tripudio di barche ormeggiate in
quarta fila. Trovarono posto accanto al “Bracciante”, la barca
dei conti Tarallini Cavallucci. Celere e premuroso, Tattani provò ad
aiutare i marinai della “Luigio I” nell'attracco: il risultato fu
che, per avvicinarsi il più possibile alla nave vicina, rimase con i
piedi sul bordo della barca di Di Cefalo Cavallo e con le mani sul
bordo di quella dei conti. Un applauso di incoraggiamento risuonò
dalle colline fino a tarda sera.
6.
LA CAMICIA DA VENTINOVE
EURO
Tattani aveva invitato
finalmente a pranzo fuori la Di Cessa, dopo cinquanta mesi di corte
sofferta, tenera e disperata. Lei aveva accettato per pietà, lui
invece sognava quel pranzo da quattro anni e l'aveva già vissuto,
nei minimi particolari, un centinaio di volte. Aveva prenotato da due
mesi un tavolo da “Marchino il Cacciatore”.
All'una di un sabato di
sole, ecco che la Di Cessa scese sorridente le scale del suo
condominio. Era così carina che lui sentì come una sciabolata di
felicità nella schiena, una felicità da urlare, ma si trattenne.
Mentre la aspettava, aveva pensato anche di lasciare la moglie Tina e
sua figlia, solo se la Di Cessa glielo avesse fatto capire. Giocava
grosso, in quella circostanza. Aveva comprato una camicia aderente di
lino batista, come aveva visto in “Novella 2000” addosso ai
tronisti del momento. Era andato da Nara, la peggiore camiciaia di
Italia, e alla fine aveva deciso quale acquistare. La cifra era stata
una mazzata: ventinove euro. La metteva in quell'occasione per la
prima volta, senza giacca e con i primi tre bottoni aperti, a
mostrare il villo del petto, come i veri playboys.
Era l'inizio dell'estate
e c'era un lieve odore di magnolie e pitosfori. Tattani era
emozionatissimo: mani due spugne, salivazione azzerata ed era
loquacissimo. Mentre attendevano il menù, attaccò una filippica
terrificante sulle uniche tre cose che conosceva un po' meglio:
economia personale, Obama, film di Natale degli anni Novanta. <<Oggi
siamo vuoti...>> disse mestamente Marchino, proprietario del
locale omonimo. <<Che volete? Faccio a modino mio?>>
proseguì, facendo un cenno che avrebbe dovuto emanare fiducia, ma
che in realtà lasciava capire che non c'era da fidarsi affatto.
Tattani se ne stava seduto, fasciato dai suoi ventinove euro, mentre
dai peli del petto iniziavano a scendere, rigogliose, tante gocce di
sudore. Cercava di respirare il meno possibile, per consentire alla
camicia di mantenere un aspetto “attillato puro”.
Il vischioso ed infido
proprietario portò una spaghettata <<alla mia maniera>>
monumentale. Tattani aveva una fame mostruosa e, alla dodicesima
forchettata esatta, gli saltò il quarto bottone. Respirò
profondamente per il disappunto, ma ad ogni forchettata gliene
saltava uno. Finì gli spaghetti che era completamente aperto sul
davanti. <<Chiuditi, sennò prendi freddo!>> gli
consigliò la Di Cessa, dimostrando una perspicacia fuori dal comune.
In un piatto largo quanto un garage, furono portate le panzanelle. La
Di Cessa si avventò e lui spiritosamente allungò con foga il
braccio verso il piatto. Si sentì un crack sinistro: gli era partita
tutta l'ascella destra. Cercò allora di toccarsi lo squarcio
sinistro dietro la schiena: lottava contro la camicia di Nara. Ad un
crack altrettanto terribile seguì un'apertura globale della parte
anteriore. Arrivò Marchino che domandò se gradivano un assaggio di
stracotto: gli tremò il mestolo e mezzo litro di sugo rovente finì
sulla camicia di Tattani; un pezzo di carne gli si infilò sotto il
colletto della camicia. Passò un cameriere, scivolò a forbice nella
pozza di sugo e prima di andare giù si afferrò, di istinto, al
collo della camicia fottuta, sbranandogliela completamente.
Ormai, indossava solo le
maniche. La Di Cessa mugolò qualcosa, ma lui non ci fece caso: si
alzò lentamente e andò verso l'acquario tenuto al centro della
sala, cercando di suicidarsi. Uscito dall'acqua dette di matto.
Iniziò a disporre i costosi pesci tropicali del proprietario sul
pavimento, per fare il miracolo dei pani e dei pesci. Chiamò
<<Caifa>> Marchino il cacciatore. Mentre cercava di
battezzare sul Giordano con una bottiglia di Acqua Pejo un turista
belga, arrivarono quelli del pronto intervento. Entrarono e gli
strapparono via dal corpo le due maniche. Lo portarono via a torso
nudo verso l'ambulanza mentre diceva: <<Padre, padre...perchè
mi hai abbandonato?>>.
7.
IL RISTORANTE “DAL
TERRONE”
<<Iamm'a'magna'fura!>>.
Queste furono le lapidarie parole del geometra Poncio in sala mensa
all'ora del caffè. C'erano Tattani, il dottore clamoroso Di Cefalo
Cavallo, la signorina Di Cessa, che Tattani amava teneramente da otto
anni senza saperlo, e il ragionier Marini.
Era andata così: Di
Cefalo Cavallo aveva cominciato al solito a parlare di posti rinomati
per il cibo, aveva piazzato un paio di inviti a cena piuttosto
nebulosi e a quel punto Poncio era partito con un invito esteso a
tutti i colleghi della loro sezione. Di Cefalo Cavallo accettò per
spirito democratico, senza capire di essere stato incastrato.
Decisero per il venerdì: <<Ci sarà anche il pesce!>>
trillò la Di Cessa. Tattani le sorrise ma era già preoccupato. Per
che cosa? Innanzitutto, per i soldi.
Venerdì sera
l'appuntamento era alle nove in casa di Poncio. Tattani arrivò
puntualissimo: giacca stile becchino, camicia da carcerato, cravatta
corta con nodo pietosamente preconfezionato. Poncio era in vasca, a
intonare le canzoni di Gigi Finizio. Quando Tattani entrò, dopo
sedici minuti di pianerottolo gelato, dovette assistere allo
spettacolo osceno del padrone di casa che si odorava le natiche
pelosissime. Alle nove e venti arrivò Marini: vestitone millerighe
con cravatta vino da mezzo chilo. Alle nove e venticinque arrivò la
Di Cessa vestita da vedova sarda in discoteca e Tattani la salutò
con un <<Sarina>>- si chiamava Sara -<<i miei
ossequi...>>. Poncio invece le cinse la vita e le disse, pieno
di laidi ammiccamenti: <<A'bbbella, che vuo'bbbere?>>.
A mezzanotte arrivò-
immerso in un osceno felpone di fattura cinese -Di Cefalo Cavallo,
scusandosi per il ritardo, ma le due puttane pagate dal pastificio
non gli avevano lasciato scelta. La Di Cessa si era addormentata
alle undici, seguita, dieci minuti dopo, dal povero Marini, da sempre
abituato ad addormentarsi a quell'ora. <<Dove si va a cena,
Poncio?>> domandò il direttore. <<Vi ho invitati “Dal
Terrone”!>> esclamò il geometra, rivelando la sua vera
natura, quella di un coglione meridionale, ignorante e senza una
lira. Tattani e Marini, molto diversi ma uniti dalla grande passione
per l'avarizia e il risparmio fine a se stesso, si guardarono
preoccupati: al di là del nome, forse un po' volgare e poco
invitante, “Dal Terrone” era uno dei ristoranti più cari al
mondo.
Poncio ordinò cinque
taxi. Ne bastavano due veramente, e i colleghi glielo fecero notare.
<<Ma chi se ne fotte! Si vive una volta sola!>> rispose.
I taxi vennero a costare duecento euro a cranio, e a Tattani fecero
anche il resto sbagliato. Ostentò disinteresse: <<Cosa vuoi
che me ne freghi di pochi spiccioli!>> esplose trattenendo
lacrime di sincero dolore. Entrarono “Dal Terrone”: si trattava
di un posto meraviglioso, lume di candela, camerieri in frac, gente
di una razza che nessuno dei dipendenti del pastificio aveva mai
visto fino a quel momento. Dopo pochi minuti cacciarono il Di Cefalo
Cavallo perchè in felpa quando la giacca era d'obbligo. Obbligò
Marini, minacciandolo di un licenziamento in tronco, a dargli la sua
millerighe: il ragioniere cedette subito e fu appeso nel guardaroba,
in attesa, per tutta la sera. Essendo esauriti i tavoli da quattro o
da cinque, Tattani fu spedito da solo su un piccolo tavolo
sgangherato nel corridoio, mentre Poncio formava un gruppo affiatato
con il direttore e la “sua” Di Cessa; tutto questo a dieci metri
di distanza da Tattani.
<<Sciampagn!>>
ordinò con tono virile Poncio, mentre Di Cefalo Cavallo, senz'altro
provato dalla serata con le due puttane, si accasciava sul tavolo.
<<Quale desidera, signore?>> domandò un cameriere con
disprezzo. <<Don Perigno'>> rispose Poncio, convinto che
il Dom Perignon prendesse nome da un celebre malavitoso del quartiere
dove era cresciuto. La Di Cessa era eccitatissima per il lume di
candela (a casa sua erano talmente poveri che neanche potevano
permettersi i cerini con cui accendere le candele), la musica e il
posto; Tattani, relegato nel corridoio, si limitava a bere lo
champagne che gli era stato portato e ad ordinare secchielli ricolmi
di ostriche (tanto pagava Poncio); Marini si era accoccolato per
terra in guardaroba e dormiva: sognava di cenare con la moglie e
Carolina di Monaco in un ristorante alla moda.
<<Ancora Don
Perigno'!>> ordinava Poncio mentre strizzava i minuti capezzoli
della Di Cessa, che dal canto suo urlava <<Sono ubriaca!>>.
Alle 1 e 45, Di Cefalo Cavallo si risvegliò e senza dire una parola
lasciò il ristorante, con addosso giacca e cravatta di Marini.
Tattani fu incaricato di accompagnare il direttore ad un taxi:
dovette montarlo a bordo e lasciare indirizzo e 50 euro al tassista.
Al suo rientro in sala, chiese umilmente di sedersi al posto del Di
Cefalo Cavallo: Poncio si limitò ad annuire, visto che era troppo
impegnato a spalmare del burro sulla pelle della Di Cessa e a parlare
del cinema erotico degli anni Ottanta.
Il nuovo regolamento del
ristorante prevedeva la chiusura forzata alle ore 2 e 30, e così fu.
Poncio chiamò il cameriere e gli bisbigliò all'orecchio: <<Metta
tutto sul mio conto...>>. Il cameriere capì che si trattava di
un dilettante; del resto, dopo ventisette anni di scontri con
lestofanti internazionali, l'esperienza a qualcosa serviva. <<Mi
spiace, paisa', ma non possiamo tenere conti in sospeso...>>.
Poncio trattenne il fiato per trentotto secondi e poi, ridendo come
un bavarese all'Oktoberfest, disse: <<Non tengo un euro!>>.
Sul volto del cameriere si disegnò una sguardo tipo cobra: fece
portare con uno schiocco delle dita un carrello di cambiali già
compilate. Marini fu fatto svegliare e nonostante non avesse toccato
cibo fu costretto a compilare, in piedi e di fronte a tutto il
personale del ristornate, 13.500 euro di cambiali. Il conto era di
13.000, ma Poncio disse forte <<Via, non facciamo i tirchi! 'Nu
poco di mancia lasciamola!>>. I camerieri non applaudirono
neppure, tanto era forte la tensione in sala.
I quattro taxi rimanenti
li aspettavano fuori dal ristorante. Il corteo si diresse
all'abitazione di Poncio, dove il padrone di casa convinse la Di
Cessa a salire e bere qualcosa. Salutò Tattani e Marini alla svelta,
pregandoli di pagare i taxi. Furono utilizzati i risparmi di Marini.
I due colleghi si guardarono in faccia: stava albeggiando e iniziava
a piovere. Marini era senza giacca, in maniche di camicia e iniziò a
correre: scomparve nelle tenebre, bestemmiando. Poi, anche Tattani
cominciò ad urlare.
FINE (?)
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