giovedì 11 dicembre 2014

Pythia, "Shadows Of A Broken Past" [Suggestioni uditive]

Pythia,
Shadows Of A Broken Past 
(Golden Axe, 2014)

★★★½
















Da principio, erano nati praticamente per gioco, i Pythia, nella mente di Emily Alice Ovenden: ma senza saperlo questa istrionica artista della terra di Albione- già impegnata come voce principale dei Maedieval Baebes -stava regalando al mondo del metal una delle migliori formazioni a metà fra classicismo gotico e avvenirismo power a cui la Gran Bretagna abbia mai dato i natali.
I Pythia somigliano molto alle proprie canzoni, sembrano davvero arrivare da un'epoca dove orrore e folklore si compenetrano armonicamente: l'esordio Beneath The Veiled Embrace potrebbe essere stato scritto centoventi, centotrenta anni fa, mentre il successivo e meno convincente The Serpent's Curse cura già meno la dimensione lirica. Ma nonostante queste folk songs siano basate sul mito, la Bibbia, Edgar Allan Poe, la peste, Shakespeare, la fame e tanti altri misteri, necessitano di un certo "alleggerimento" e, magari, di un processo di "scandinavizzazione" non facile da gestire, vista la propensione al patriottismo più sfrenato degli inglesi. Ma Jacob Hansen, chitarrista e produttore danese, decide di raccogliere la sfida e porta il sestetto capitanato dalla Ovenden nel suo studio, lo stesso dove ha inciso capolavori di band quali Aborted, Volbeat ed Epica. 
Il risultato di queste sessions danesi è Shadows Of A Broken Past, l'album più lontano dal gothic metal che i Pythia hanno proposto dal 2007 al 2010 (cioè con la formazione "a cinque") e pure il loro lavoro più riuscito, quello in cui- senza sfornare un capolavoro del genere -riescono finalmente a trovare un equilibrio impeccabile fra liriche oscure e virtuosismo canoro e tecnico. Gli assassini seriali della Londra vittoriana e i folletti protagonisti di incubi di una notte di mezza estate lasciano spazio ad angeli, demoni, santoni e spiriti vari. Questa introduzione di riferimenti magici e demonici è pienamente percepibile già nella triade che apre il disco: The King's Ruin, Sword Of Destiny e Man On The Mountain sono brani di grande fattura, legati ad una terra specifica e perfettamente inseribili nello stile del gruppo. Il lavoro di chitarra di Oz Wright (che si conferma un eccellente chitarrista power) adombra non poco la sezione ritmica di Mark Dyos (batteria) e Mark Harrington (basso), mentre le tastiere di Asmodai sono spesso altalenanti, ma anche in grado di sprigionare assoli grandiosi come quello della veloce War Games. I testi terreni e maneggevoli della Ovenden prendono connotazioni più sovrannaturali: sintomatici, in questo senso, il "micro-poema" The Highwayman, sospeso fra clavicembali medievaleggianti e ballabilità celtica, e l'intimista Bring Me Home, che tanto piacerà a chi è disposto a lasciarsi affascinare da miti romantici e archetipi letterari che la modernità non riesce a cancellare. Peccato che Yellow Rose o Your Eternity (che coi suoi sette minuti e mezzo è il brano più lungo del disco) suonino vuote come brutte end-titles songs di qualche serie fantasy di serie B. The Key, invece, è il singolo di lancio, una canzone cattiva e veloce che per i primi quindici secondi lascia presagire un'inattesa apertura trash da parte dei Pythia ma che poi si riconferma nella media di tutto Shadows Of A Broken Past. Al contrario, la conclusiva Broken Paradise è la canzone gothic-power perfetta, quella che neanche i Nightwish, ormai, riescono più a scrivere. Intendiamoci: la voce della Ovenden rimane eccezionale fino in fondo, ma qui suona meno "artificiosa" e preferisce risultare nostalgica, sentimentale e deliberatamente speranzosa. Il "Paradiso infranto" di cui parlano i Pythia è un qualcosa di estremamente mondano, una dimensione in cui risuona la poesia popolare dei bardi anglosassoni e dove è ancora possibile percepire l'eco di una tradizione alla quale la band sa di essere irreversibilmente votata. 

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