mercoledì 4 settembre 2013

Paralipomeni alla fenomenologia dell'abbandono di un social network [Extra]


Ci sono o non ci sono? Resto o vado via? Vi assicuro che non è facile nemmeno per me capire se è meglio continuare a gestire l’account o cancellare ogni presenza sui social network. I social non mi entusiasmano, specie negli ultimi tempi, quando studi sociali sofisticati hanno confermato che Facebook o e compagnia bella causano solo infelicità e- guarda caso nello stesso periodo -Zuckerberg & co. hanno pensato bene di aggiungere, alle opzioni della bacheca, la modalità “umore”, contraddistinta da emoticon di vario tipo grazie a cui l'utente potrà far capire, senza la fatica di scrivere, qual'è il suo stato d'animo.
Oltre a questi aspetti, mi infastidisce l'uso meramente pubblicitario che ne viene fatto. Non c’è prodotto, dal tonno in scatola alla vasca da bagno per anziani, che non lanci un invito a «seguirlo su Facebook» e a mettere “mi piace” sulla propria pagina. Il feedback è immediato.
Dunque, ottimo strumento di marketing ed eccellente mezzo per condividere la propria vita insulsa con gli altri. Io non ho una vita insulsa; al massimo, ho una vita vuota, è molto diverso. La vita insulsa contiene tanti elementi insulsi che si ripetono solo perché tutti gli altri amici insulsi li hanno inseriti nella propria vita insulsa. La vita vuota non ha niente: non ha vacanze marittime, non ha serate pazze al ristorante indiano, non ha figli di cui mostrare il vasino, non ha cibi cucinati con le proprie mani da fotografare, non ha cosce instagrammate sulla spiaggia simili a wurstel, non ha condivisioni. Avere una vita vuota e stare su Facebook è un controsenso.
È tipico della Rete non essere mai d’accordo con gli altri, ma io mi ritrovo a non sopportare più l’atteggiamento opposto. Scrivi e vedi che qualcuno ha messo “mi piace” prima ancora che tu abbia sollevato il polpastrello dal tasto invio. Parlare di un libro, di una band, di un cibo e trovare dopo pochi minuti un commento in cui quella persona esprime la piena condivisione dei tuoi gusti, quasi gemendo: «Ah! Noi sì che ci capiamo e soffriamo in questo mondo che non ascolta X/ non legge Y/ non mangia K…». Dopo un paio di volte ti accorgi che non può essere vero, che quella persona sta miseramente fingendo, visto che per età, luogo in cui è vissuta e per mille altri motivi non può aver condiviso ciò di cui tu scrivi.

Negli ultimi anni di liceo, alcune compagne di classe ciclotimiche condividevano l’adorazione per il professore di scienze naturali, per le sue performance alla Riccardo Marasco: seduto sulla cattedra, ridicolizzava i colleghi letterati, citava in lingua originale brani di sconosciuti chimici francesi del primo Novecento che avevano pubblicato a proprie spese mediocri poesie che solo lui aveva letto, raccontava brandelli della sua vita finto-avventurosa. Le ciclotimiche intorno cinguettavano, mentre tutti gli altri erano in attesa di sentire la campanella suonare. La signorina *** era la più attiva. Nasceva un argomento, lei non si esprimeva: se il suo idolo professorale lo derideva, lei atteggiava il muso in una smorfia di disgusto e si perdeva in una sequela di risolini pieni di spregio. Se gli occhi del magister, al contrario, si illuminavano, ecco che la *** annuiva pesantemente con la testa, garantendo che lei lo aveva già detto, letto, fatto, sentito, visto, mangiato, considerato, stato.
Pensavo che una *** mi fosse bastata nella vita, ma ancora non avevo Facebook (per quanto già esistesse), e non sapevo quante altre ne avrei trovate sul social network.

Nessun commento:

Posta un commento