giovedì 4 febbraio 2016

The Hateful Eight [Recensione]


Devo ammettere che avevo lasciato un po' perdere tutte le questioni sorte intorno alla lavorazione dell'ottava pellicola di uno dei più grandi registi viventi. Non per nulla, ma mi ero stufato di leggere articoli che parlavano solo di sceneggiature rubate, produzioni ritirate, litigi, agenti licenziati, ripensamenti e altri casini che con la Settima Arte hanno poco o niente da spartire. In aggiunta, non si può dire che questo film abbia goduto di eccessiva pubblicità e il fatto che Tarantino in persona abbia declamato un lungo monologo contro il monopolio distributivo della Disney non ha di certo facilitato le cose. Insomma, avevo sistematicamente optato per non essere a conoscenza di troppi dettagli di trama e contenuti, e le uniche cose che sapevo di The Hateful Eight erano i nomi di metà del cast, il fatto che Morricone fosse tornato a scrivere musica originale per un film western (o meglio, di ambientazione western) dopo quarant'anni e che era stato girato tutto su pellicola Panavision Ultra 70mm.
Quella superba sfilza di panoramiche fisse che anticipa, in un silenzio tombale, i titoli di testa basta a descrivere l'ambientazione e lo spirito che permea tutto il film: un mondo gelido, innevato e- come suggerirà poi il personaggio di Michael Madsen -in pieno periodo natalizio. E' come se Dio o chi per lui avesse deciso di spandere neve sulle praterie inquadrate nel prologo di Non è un paese per vecchi. La prima forma umana mostrata è un crocifisso in legno,  anch'esso cosparso di neve e fisso ad un crossroad invisibile. Poi inizia la sfida di Tarantino, la stessa sfida che ha già portato a teatro e che neanche considerava più di fissare su pellicola. La sfida è, in particolare, rivolta a uno dei romanzi più celebri di Agatha Christie, Dieci piccoli indiani. Come in quel libro (e nelle sue innumerevoli trasposizioni), un enigma, apparentemente irrisolvibile, e un clamoroso colpo di scena sono i punti cardine di uno script che, partendo da una felice intuizione in perfetto stile Le iene e trasportandola- con le opportune e geniali modifiche -nel selvaggio west del dopoguerra di Secessione, approda ad una situazione che odora di Alfred Hitchcock, Howard Hawks e, di conseguenza, di John Carpenter. Anzi, l'influenza di Carpenter e della sua Cosa si spinge anche oltre, e non mi riferisco solo alla neve, all'immenso Kurt Russell e ad un particolare genere di cappello, ma anche alle musiche (Eternity, Bestiality e Despair, sempre di Morricone e tratte proprio dalla The Thing OST, riaffiorano, quasi impercettibili, sul finale), all'atmosfera e al fatto che, a livello di storia, nessun personaggio finisce col fidarsi di nessun altro. Il west di John Ford latita, e gli spaghetti sono un ricordo ancora più sfocato di quanto non lo fossero in Django Unchained, laddove il western diventava più un southern. Il lungo addio agli omaggi a Sergio Leone si è davvero definitivamente consumato in quel gigantesco campo largo con cui si apriva Bastardi senza gloria e qui arriva per il cinefilo Quentin il tempo di tornare all'infanzia, alle puntate speciali di shows come Bonanza, Il virginiano e Ai confini dell'Arizona. Tarantino incontra il kammerspiel e lo dilata, si trastulla con tutte le sue forme e i suoi meccanismi, manco fosse un bimbo nella camera dei giochi. Gira con la naturalezza e la disinvoltura professionale di tutto ciò che ha girato dopo A prova di morte, dirige equamente attori di serie A (Kurt Russell, Eli Roth, Samuel L. Jackson, Bruce Dern) e di serie B (Walton Goggins, Michael Madsen, Demiàn Bichir e Jennifer Jason Leigh). Toglie spazi, attori, personaggi, musiche e dinamiche, ma al contempo ridimensiona aspetti più sottili e non meno importanti (la durata, la pellicola, il sangue). Folle e tecnicamente geniale la sfida di utilizzare il formato panoramico ed epico per eccellenza (il 70 mm) per un film che è girato per tre quarti in interno. Ardita e riuscita la scelta di commissionare- per la prima volta nella sua carriera -un commento sonoro originale (commento che ha già valso un Golden Globe a Morricone e rappresenta una delle due striminzite candidature agli Oscar di The Hateful Eight) e di sfruttare solo tre canzoni, fra l'altro molto lontane fra loro e diversamente affascinanti: Apple Blossom dei White Stripes, la ritrovata Now You're All Alone di David Hess (che da craveniano ammiratore de L'ultima casa a sinistra non ho potuto fare a meno di riconoscere) e un oscuro pezzo di Roy Orbison che si intitola There Won't Be Many Coming Home. Non rinuncia a far sentire la propria vocina nei panni del narratore (nell'originale, si capisce), nè ai suoi attori del cuore, James Parks e Zoe Bell. Dissemina la propria mappa di indizi e citazioni come fa da quando lavora nel cinema e trova anche il tempo di far udire due vecchie canzoni piratesche (non avrei trovato nulla di strano se il film fosse stato ambientato al tempo dei pirati, coi personaggi chiusi nella balera di qualche porto franco, e fuori una bella tempesta tropicale). Si concede licenze poetiche che solo lui sa di potersi concedere (quando mai si è visto mezzo ralenti in un dramma da camera à la Ingmar Bergman?) e non si ripete mai. Perchè The Hateful Eight non è l'epico, appassionato seguito di Django Unchained, nè vuole rappresentare il terzo capitolo della fasulla trilogia inaugurata dai Bastardi e inventata esclusivamente da giornali che non di cinema parlano ma di futilità culturali assortite. E' un film totalmente a sè, il più lungo mai girato dal proprio autore (sia che lo si prenda nella versione standard da 170 minuti che in quella da 187) e che fa tesoro in partenza della numerologia. L'ottava pellicola del regista, ha otto protagonisti che si dividono su quattro (la metà di otto) tematiche principali che raccontano sia il passato che il presente. Tarantino, da vero american author, sa e ammette che il western è il genere con cui si può raccontare meglio la contemporaneità. Il crudo ed esasperato pessimismo che accompagna tutto ciò che ancora respira e sopravvive dentro una baracca di legno nel cuore di una notte innevata potrà sembrare un ingrediente nuovo e perfino inusuale nel menù del suo autore, ma non è così. Perchè Tarantino non solo ha ripreso in giro tutti girando un western che non è un western, ma è tornato, in qualche modo, dentro a quel garage di gangster bugiardi in cui era iniziata la sua meravigliosa carriera. Quasi venticinque anni fa.

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