martedì 16 febbraio 2016

Perfetti sconosciuti [Recensione]

Esistevano, un tempo, in Italia, i film generazionali. Produzioni piccole, ben scritte, ben dirette, ben interpretate. Molte delle pellicole prodotte dalla fine degli anni Ottanta in poi e assurte al rango di cult movies appartengono a questo genere: Marrakech Express di Salvatores, Compagni di scuola di Verdone, Italia-Germania 4-3 di Barzini, Ferie d'agosto di Virzì sono solo alcune delle tante. Addirittura, negli anni Novanta, visto l'ottimo potenziale commerciale, storie di questo genere andarono moltiplicandosi, con qualche buon risultato e anche tante ciofeche (ciofeche contro cui si scagliava anche il buon Nanni nel primo episodio di Caro diario).
Poi c'è stato il passaggio del testimone: dai quaranta-cinquantenni dalla generazione sessantottina che si lecca le ferite, siamo passati ai quarantenni in crisi provenienti da altre epoche e il cinema è tornato a interessarsene. Paolo Genovese, romano, classe 1966, ex-pubblicitario, ha raccontato i quarantenni di oggi già con il suo Immaturi (2011), e da allora non si è più fermato. Purtroppo.
Con lo stratosferico numero di 7 lungometraggi usciti dal 2010 ad oggi, Genovese è il regista italiano più prolifico in circolazione. Eterno debitore verso la commedia francese e spagnola, è tornato a raccontare la propria generazione con Perfetti sconosciuti, dove sette personaggi a cena in una casa borghese mettono i cellulari sul tavolo e rendono la propria vita privata di dominio pubblico (nulla che non si sia già visto nel più riuscito Cena fra amici di Alexandre de La Patellière). Mentono, si scontrano, soffrono. Sono coppie di gomma (nel senso che sembrano di plastica, tanto la raffigurazione scenografica e registica appare artefatta, come è consuetudine nel cinema di Genovese), personaggi stereotipati e messi di fronte a sofferenze scaturite da luoghi comuni televisivi piuttosto che da un'attenta osservazione della realtà in cui viviamo. 
E' ovvio che il rapporto umano (e, in particolare, il rapporto di coppia) 2.0 sia frutto di malesseri sociali e culturali e che possa basarsi quasi esclusivamente sulla menzogna e l'ipocrisia: ma la fonte di questo malessere Perfetti sconosciuti la liquida velocemente, adducendo ogni colpa ad uno strumento potente e stupido come uno smartphone. Il dramma da camera, recentemente riproposto da Tarantino, Polanski, Archibugi (Il nome del figlio, sotto tanti punti di vista, è stato un film enormemente più coraggioso e politico di quello di Genovese) e compagnia bella, è qua poco più di una macchietta narrativa, un'ambientazione priva sia di forza che di bellezza e che nemmeno si prende la briga di fungere da metafora di un'era.
Chi esalta il cast, l'eleganza della sceneggiatura e la costruzione dei personaggi, forse farà bene a sintonizzarsi meno sul primo canale RAI durante il giorno, perchè qua non siamo in zona A un passo dal cielo, ma poco ci manca. I dialoghi che vorrebbero essere sconci ma non ce la fanno sono ormai una costante di queste deleterie produzioni con cui inforcare un pubblico largamente composto da professionisti cattodem noiosi quasi quanto i protagonisti del film. E poi c'è sempre la solita fotografia di merda, gli uomini devono per forza avere la barba e/o i baffi (tranne Mastandrea, falso omosessuale simulato e incazzato) ma senza possedere neanche i lineamenti. Imbarazzante la chiusura à la Nolan.
Perfino l'eclissi di luna- durante la quale mi è piaciuto pensare ad Antonioni, salvo poi vedere Giallini che sputtana tutto citando, ma va', i Pink Floyd -è photoshoppata.

Nessun commento:

Posta un commento