venerdì 27 marzo 2015

Vizio di forma [Recensione]

<<Poteva andare peggio: poteva piovere>>, dice Marty Feldman in Frankenstein Junior. Parafrasando, anche a me poteva andare peggio: potevo non avere visto Vizio di forma, uscito in Italia il 26 febbraio e proiettato- in un comune limitrofo al mio -per due soli spettacoli serali il 25 e il 26 marzo, ossia un mese dopo.
Uno dei pregi del "circo" degli Oscar è che prepara gli spettatori più esigenti a un marzo di buoni, se non ottimi film, ma quest'anno qualcosa deve essere andato storto, fra interi cinema che per un mese hanno proiettato esclusivamente tutte le sfumature di grigio possibili, commediacce "made in Italy" pre-tropicalizzanti e la rispolverata Cenerentola di Kenneth Branagh. Hoc est aliquid, sed non est satis, questo è quanto ma non è abbastanza: di fatto, il Piccione seduto sul ramo che ha trionfato a Venezia è stato visto da quei due, tre fortunati che sapevano di una sua oscura, segreta proiezione a prezzo ridotto e io, ovviamente, non ero fra quelli. Mentre del Blackhat di Mann, uscito da una settimana, si fatica a vedere perfino un trailer o un poster fuori dai cinema. Situazione triste, ulteriormente intristita dal fatto che Vizio di forma di Paul Thomas Anderson ha praticamente riempito i 221 posti del "cinemino" in cui sono andato a vederlo. Segno che l'imbecillità, spesso, è soltanto imposta e che il gusto del pubblico può andare ben oltre un certo tipo di offerta. Anche quando la pellicola a cui si assiste è un contorto noir tinto di commedia psichedelica che parte da una semplice sparizione di una ragazza legata a un magnate del mattone per arrivare a raccontare- con toni sempre grandiosi e malinconici -il tramonto dell'era hippie, il risveglio da un sogno già infranto (da Manson e la sua setta, da Nixon, dalle droghe pesanti). Il pirotecnico romanzo di Thomas Pynchon poteva offrire ad Anderson l'occasione di girare  il suo film più complesso e sfrenato sul piano figurativo e narrativo, ma il regista di Magnolia ha preferito affidarsi nuovamente al suo grande amore: la classicità.
Con Anderson siamo sempre nell'ottica che ogni film corrisponde a un modello di grande romanzo americano, anche se con Vizio di forma si ritorna più alle atmosfere di Boogie Nights (forse il suo film meno noto) che non a quelle di The Master o Il petroliere. Non mancano le incessanti conversazioni, i dialoghi lunghi e serrati, i primi piani che si allargano o si ristringono, la volontà di dipingere un ritratto corale e mitologico di un determinato contesto. Una volontà che ricorda molto il maestro di Anderson, ossia Robert Altman, e che rende impossibile non accostare, anche solo per poco, Il lungo addio a Vizio di forma. Il monumentale cast viene successivamente, così come la cura dei vari characters e il peso quasi marmoreo del protagonista Doc Sportello (Joaquin Phoenix, che non ha certo bisogno di essere definito eccezionale per l'ennesima volta e la cui occhiata nell'ultima inquadratura ricompensa tutte le attese del mondo). Si entra facilmente nel trip di Sportello, tant'è che neanche noi si sa più distinguere dove finisca l'allucinazione e inizi la cruda, terrificante realtà. Ci si abbandona al flusso, ad eventi visivi, percettivi e sonori in grado di generare emozioni magari anche violentissime che però, ineluttabilmente, svaniscono nel momento stesso in cui le consumiamo. E lo stesso accadrà, poi, nella memoria.
Rimane un viaggo attraverso il passato (Journey Through The Past di Neil Young, meravigliosamente utilizzata), dove l'innocenza, la paranoia, le case in legno sulla spiaggia, l'erba, le ragazze fuggite di casa, i motociclisti cattivi e le automobili degli sbirri sfrecciano veloci tra le rovine di una città assolata, dirette chissà dove. E dove l'amore sembra l'unico modo per saturare le proprie ferite. 

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