mercoledì 11 febbraio 2015

Steve Earle, "Terraplane" [Suggestioni uditive]

Steve Earle & The Dukes,
Terraplane
(New West Records, 2015)

★★★★













Una volta, in rete, lessi una grande verità, e cioè che esistono due tipi di musica: la musica pop e la musica dell'anima
Si sa, la prima va presa per quello che è: testi semplici, melodie poco immaginifiche, commerciale e dunque obbligatoriamente furba, ripetitiva, infantile. Tanto complessa da scrivere e immettere sul mercato (la concorrenza è tanta e spietata), quanto facile da reperire, ascoltare e memorizzare, la musica pop di rado si impone come un qualcosa che cambia il nostro modo di vedere il mondo, in quanto nata da un'esigenza innocua e facile da soddisfare: quella di ascoltare e riascoltare lo stesso motivetto il più a lungo possibile. Perciò, se si prende atto di questi limiti, si capisce bene che il pop non è un'etichetta da affibbiare a tutto ciò che vende più di un tot, quanto un genere musicale vero e proprio in cui ci sono più regole che in qualunque altro e a cui appartengono canzoni belle o brutte che- a prescindere  dal loro effettivo valore artistico -possono godere di un successo planetario o rivelarsi cocenti fallimenti. 
Molto meno semplice è spiegare cos'è (in assoluto e anche per quanto riguarda me stesso) la musica dell'anima, ma ai fini della recensione mi limito a dire che è quel tipo di musica suonata da gente come Steve Earle. Se poi ci sono una voce bella come la sua, dei testi degni di un romanziere (e Steve, con Le rose della colpa, si è cimentato pure col romanzo) e dei grandi musicisti di contorno, meglio ancora.
Ora, pur con qualche caduta artistica (cadute mai imperdonabili) e un'esistenza non facile segnata da carcere, droga, avvocati e sette mogli, Steve Earle è un artista che ha abituato il suo uditorio a standard parecchio, parecchio alti. Già ai tempi di Guitar Town (1986) e Copperhead Road (1988), era facile intuire che questo virginiano cresciuto in Texas aveva del talento da vendere e che proprio grazie a lui l'outlaw rock- che aveva avuto Gram Parsons come padrino e Townes Van Zandt come portabandiera -sarebbe sopravvissuto agli anni duri della musica di plastica, alle batterie elettroniche e a Reagan. Dopo la galera (Earle fu rinchiuso dal 1993 al 1994) vennero la disintossicazione e i capolavori assoluti della sua carriera: il semiacustico Train A Comin' (1995) e l'eterno El Corazon (1997). A questi fecero seguito i suoi dischi politici (Earle è da sempre un democratico pacifista di ferro), roba tosta come Jerusalem (2002) o The Revolution Starts Now (2004) e non marcette buoniste à la U2.
Con il nuovo Terraplane (in uscita il 17 febbraio, ma già godibile in audio-streaming) Steve è di nuovo coi suoi Dukes e ambisce a un risultato superiore al precedente The Low Highway (2013). Gli ingredienti principali a venire portati in tavola sono il blues e le chitarre acustiche dei "duchi", ulteriormente sporcate di fango per l'occasione. Alle spalle, c'è l'ennesimo matrimonio naufragato, quello con la cantante Allison Moorer, ma ad Earle non interessa fare gossip. Il suo Terraplane è un disco che profuma di aria condizionata, birra sudista (il disco è stato totalmente inciso alla House Of Blues di Nashville, con i fidi R.S. Fields e Ray Kennedy in console) ed eros. Ad un primo ascolto, suona come una versione più grezza e selvatica di quel bel lavoro prodotto da T-Bone Burnett che si rivelò essere  I'll Never Get Out Of This World Alive (2011). Il titolo Terraplane, ovviamente, fa venire in mente il Terraplane Blues di Robert Johnson, oltre che al macchinone anni Trenta che capeggia anche nella coloratissima copertina in perfetto stile Earle. E' un disco sul maschio adulto che rimane solo in un mondo distrutto e governato dalla futilità. L'incipit Baby Baby Baby (Baby) è una roba pazzesca che sembra uscire fuori da qualche 45 giri di Charlie Musselwhite, e allo stesso modo la rabbia mandolinesca su cui i Dukes costruiscono Acquainted With The Wind è un feroce omaggio a Chuck Berry. Non mancano le consuete grandi pagine di country texano: Gamblin'Blues parla di giocatori d'azzardo, ma ancora più convincente, nel suo genere, è Ain't Nobody's Daddy Now. C'è un piccolo accenno di sacralità nelle toccanti note gospel di Go Go Boots Are Back, ma poi è di nuovo il diavolaccio a prendere il sopravvento e a spingere il pedale sulla Terraplane di Steve e dei Dukes. E così via, in un tripudio di pagine di livello eccelso: lo strascicato singolo You're The Best Lover That I Ever Had, il romanzesco talkin' di The Tennessee Kid, la ballata meravigliosa e commovente (ma a me Steve Earle commuove spesso) Better Off Alone, l'avveniristico finale d'opera rappresentato da King Of The Blues sono testimonianze definitive di un uomo che la musica la vive sulla propria pelle e che per nulla al mondo smetterà mai di cantare. Almeno spero.

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