venerdì 7 giugno 2013

Sweet Home Agrestone [Extra]

All'inizio c'erano solo tre o quattro palazzi, e intorno solo cantieri, cemento e qualche rimasuglio floreale. Bastava fare pochi metri per affacciarsi sugli enormi campi che circondavano tre quarti del perimetro del quartiere. Era il dicembre del 1995 e la nostra nuova casa era praticamente pronta per essere abitata: a parte un paio di amici, non lasciavo nulla di importante nella mia vecchia abitazione, e in questa zona nuova, sconosciuta fino a poco tempo prima anche a buona parte dei colligiani, mi sentivo un po' come un piccolo sovrano. E poi eravamo passati da un appartamento di due camere, un bagno e un garage ad una casa grande il doppio, il che bastava e avanzava come motivo di vanto nei confronti dei miei ex-compagni di giochi, rimasti prigionieri di orrendi palazzine stile anni '70. 
Al contrario di Celentano ne Il ragazzo della via Gluck, io abbracciavo il cemento, non piangevo, non provavo invidia nè nostalgia e accettavo la realtà per quello che era. Dai vetri nuovi di zecca della mia "fortezza" non vedevo niente all'infuori dei camion delle ditte che avrebbero costruito il quartiere (l'ultimo palazzo è stato concluso meno di quattro mesi fa). Sono cresciuto in mezzo al rumore dei macchinari da cantiere e non so come ho fatto a non impazzire nel triennio 1995-1998, anni in cui sono stati costruiti altri quattro grandi palazzi attorno al mio.  Ho visto sorgere la "piazzetta" e la "pistina", testata personalmente con le mountain-bike da noi bambini del quartiere, ho visto nascere quattro vie, ho visto crescere gli alberi del piccolo parco e ho visto sistemare le sculture in marmo di Mauro Berrettini all'interno del "boschetto", ho visto edificare- fra le polemiche dei benpensanti arricchiti e forse convinti di vivere a Gstaad -due case popolari, ho visto innalzarsi giorno per giorno il piccolo "grattacielo" e un altrettanto piccolo "centro commerciale", alle cui fondamenta si trovavano dei garage privati il cui accesso, anni fa, era "facilitato" per noi adolescenti nella stagione degli amori, ho visto aumentare il numero degli abitanti del quartiere dai centoventi del '95 agli attuali tremila. 
Mentre i quartieri extraurbani delle grandi città italiane sono cresciuti come prolungamenti di un hinterland già compromesso, la mia periferia è nata dal nulla e sul nulla, un po' come succede in Svezia con le periferie pure. A tenere insieme questa struttura parallelepipeda c'è solo un manto di asfalto, una strada satellitare che porta da via Bologna a via Milano, da via Milano a via Firenze, da via Firenze a via Genova e da via Genova le opzioni sono due: o di nuovo via Bologna o la libertà. Da quando ho l'automobile, guardo in maniera diversa questa strada, che altro non è che una semplice arteria, ampia e composta da tre rettilinei con lunghe file di lampioni poste ai suoi lati: insomma, è quel tipo di strada che, se la si osserva in un'immagine fissa, non fa pensare ad alcun luogo preciso. Che sia un'assolata giornata estiva o una nebbiosa e tetra notte invernale, non riesco a credere che sto attraversando un luogo che nel medioevo chiamavano Florentia di Gracciano, famoso per le sue distese di campi e fiori. La strada che faccio ogni giorno è satellitare perchè non sembra appartenere alle comuni classificazioni etnico-geografiche terrestri. Così, inconsapevolmente, mi ritrovo a vivere in una sorta di metafisica della periferia provinciale, esente da ogni stucchevole riferimento storico-artistico fatto di archi romanici o gotici, colonnini, chiesette, piazzette, portici e statuette. L'oscurità che circonda questa strada azzera i dintorni: dunque il mio quartiere potrebbe essere circondato da laghi, mari, deserti, montagne. Guardo le panchine in marmo e i cestini volutamente arrugginiti e penso che i concetti di "oriente" e "occidente", di "nord" e "sud" vengano inesorabilmente a mancare, uccisi da questo alone di "Mondo Asfaltato 2.0". I fruitori domenicali dell'arte vanno ad ammirare le sculture donatelliane che circondano la chiesa di Orsanmichele, senza essere disturbati dal fatto che su di esse, quando cala la sera, si rispecchiano le luci di un grande negozio di intimo posto di fronte: ma a loro basta emulare la sindrome di Stendhal, fare foto da modificare con Instagram e taggarsi su Facebook in un determinato luogo. Tutte cose che nel mio quartiere non verranno mai a fare, visto che si tratta di un non-luogo, e i non-luoghi mal si prestano al tag fighetto di chi fa il week-end lungo. Alla fine, vivo davvero in una parte della provincia dove già alle soglie del 2000 trionfava un international style ostico, antistorico, antinaturalistico e antipatriottico. Forse è anche per questo che quando fu edificata la prima delle due discusse case popolari, nel 2001, i nuovi arrivati marocchini, tunisini ed egiziani si ambientarono subito molto bene. Basta  consultare Google Street-View per accorgersi di come le periferie di Rabat, Tunisi e Il Cairo non siano poi tanto diverse dalle nostre: solo che, al contrario di quello che si può supporre, i tg nord-africani non mostrano mai piramidi, moschee, obelischi e altra paccottiglia che viene relegata nei pacchetti all-inclusive di noi "occidentali", e a questo prontuario di luoghi comuni vengono preferite le immagini delle periferie di più recente costruzione , un po' per orgoglio modernista, un po' per recondito desiderio di occidentalizzazione. Del resto, l'imprenditore leghista che pretende l'appartamento ultramoderno dalle forme geometriche "molto minimal con spazi molto vuoti" verrebbe colto da un malore se sapesse che proprio i musulmani hanno ricercato per primi un'arte dove lo stesso fregio veniva ripetuto per decine e decine di metri, senza minimamente accennare all'iconografia umana. 
Un tramonto all'Agrestone
Per arrivare in macchina al mio quartiere passando dalle vie d'accesso principali occorre o attraversare  vecchie zone residenziali volute dalla borghesia cattocomunista locale dei magici anni '80 o svoltare ad un'ampia rotatoria trafficata a qualunque ora del giorno e della notte; ed è sostando a questa rotatoria che dall'abitacolo dell'automobile si può scorgere la fauna del posto. Dal lato opposto al nostro, arriva ad alta velocità- gomito fuori dal finestrino anche a gennaio -un tipo con occhi convergenti e piercing ovunque,che ci delizia coi pezzi di Radio M2O sparati a tutto volume, in un tripudio di bassi; la sua macchina (solitamente un modello che ha meno di dieci anni) è ricoperta di adesivi da pseudo-rally e spoiler. Di fronte a noi, una famiglia di marocchini occupa una Fiesta di quarta mano e, se è estate, rotea quasi impercettibilmente la testa al ritmo di cassette consunte di musica maghrebina; le casse gracchiano, il tubo di scappamento emana un fumo degno di una "braciata" del primo maggio e l'auto riparte a fatica, procedendo a 30 chilometri orari. Se invece osserviamo lo specchieto retrovisore, possiamo scorgere il muso del SUV di qualche contadino arricchito: se questi ha passato i cinquanta, giocherella con una moneta da due centesimi raccolta poco prima alla casa dell'acqua ripetendo mentalmente il motto <<2 centesimi oggi, 2 centesimi domani...>>, mentre, se è più giovane, avrà il viso dello stesso colore degli interni in radica della sua automobile e penserà a <<quei mentecatti maghrebini di merda>> che magari, pur nella loro miseria, condividono con lui un condominio. 
Un capodanno all'Agrestone
Anche muoversi a piedi per un quartiere come il mio necessita di almeno un minimo di preparazione: non tanto per la presunta delinquenza (siamo fermi ai lampioni rotti) che, di quando in quando, le cronache locali e le ridicole liste civiche evidenziano, quanto per il vuoto che viene a riempire queste "missioni serali". Dal momento in cui decido di uscire a piedi per il quartiere, compio una sola scelta programmatica: il non adottare alcun programma. Può sembrare folle, forse triste, ma non è assolutamente così; anzi, sono notti appaganti, spoglie di ogni obbiettivo, cariche di un fascino interstellare tutto loro. Si tratta solo di microspostamenti ripetuti ma piacevoli nella loro ripetività, visto che la presenza di una meta guasterebbe il tutto, che poi è quanto succede in quei brani techno il cui autore pare aver assorbito i princìpi dei princìpi del suono e si perde in lunghi minutaggi fatti di cellule ripetute, come in un estenuante "copia e incolla". Il quartiere viene così attraversato in lungo e in largo, compiendo spesso giri privi di senso logico e oggetti come il distributore di sigarette automatico o i tavoli della Coca-Cola posti fuori dal bar assumono, di notte, un aspetto diverso da quello diurno e molto più attraente. E visto che nove abitanti su dieci sono ignoranti e hanno paura dei ladri, degli zingari e dei comunisti, nessuno ama uscire la sera dopo le 22:30, il che è tutto riguadagnato per chi, come me, non ha mai messo piede nell'oratorio ricavato anni or sono in uno dei vani del centro commerciale, o per tutti coloro che non hanno mai partecipato al famigerato torneo estivo al "campino", o ancora per quelli che la domenica mattina non hanno l'urgenza di svegliarsi per andare a suonare la chitarra in chiesa e per intonare <<Resta-con-noi-o-mio-signore>>. Mi dispiace, ma disprezzando in toto il cattolicesimo, detesto gli atroci canti da scout rionali e le messe beat che si tengono nel quartiere, così come trovo deplorevole, nelle rare mattine in cui mi sveglio di buon'ora, incrociare anche solo lo sguardo di quei tristi individui che non escono praticamente mai, se non per dedicarsi con una devozione che odora lontanamente di pederastia alla vita in parrocchia e che, nelle afose serate estive, mentre il parroco è a caccia di dodicenni sulle spiagge della Thailandia, decidono di "evadere" dal loro modo di essere e di darsi alla pazza gioia, ballando sui tavoli di qualche finto pub irlandese (<<perchè anche gli irlandesi sono cattolici>>), urlando nei microfoni di qualche karaoke e assumendo grassi animali e carboidrati anche dopo la mezzanotte.  
Il Drago delle Esperidi di Berrettini
Cammino e cammino, perfino nelle notti più fredde di dicembre. Sosto di fronte al Drago delle Esperidi  del Berrettini: sedici metri di lunghezza per una scultura che è stata pensata per invogliare al gioco ma che si è ritrovata ad essere letteralmente ricoperta di frasi sgrammaticate e vuote. Proseguo pochi metri più avanti e trovo le "quattro panche d'autore" sulle quali anch'io ho lasciato, a suo tempo, il (di)segno e la Civetta, a simboleggiare una sapienza che nella realtà non esiste. Alla fine, in quel microcosmo asfaltato che è il quartiere, anche le sculture del Berrettini assumono un valore metafisico: eliminando la componente umana, eliminano il disordine. La metafisica non è mai disordinata, e anche laddove c'è ammasso di oggetti (tipo i sedici metri di tasselli marmorei del Drago) quella che a noi sembra casualità nasconde un  misterioso ordine sovrannaturale. Sbagliano i vecchietti che siedono sulle "panche d'autore" e che in luglio si fanno mangiare vivi dalle zanzare a dire <<A me queste statue paian buttate lì a caso>>, perchè il caso non dovrebbe esistere nella metafisica, così come nella metafisica non dovrebbero esistere le domande. Nessuno sembra essersi mai domandato il perchè compaiono i mobili o i manichini nella valle di De Chirico: e dunque perchè chiedersi il significato del Fiore verde, una delle sculture più astratte presenti all'Agrestone?


Chissà che ruolo darebbe all'Agrestone Carlo Cassola se fosse ancora vivo e dovesse riscrivere oggi il suo romanzo più famoso (La ragazza di Bube, uscito nel 1960 e ambientato proprio a Colle). Proprio lui che, ne La visita (Einaudi, 1982), avrebbe lasciato scritto <<Amo la periferia più della città. Amo tutte le cose che stanno ai margini>>. Magari Mara Castellucci non passerebbe le notti insonni ad angosciarsi sul destino del suo amato Bube, perchè, abitando in quartiere che- con la sua altezza di 241 metri sul livello del mare -garantisce un segnale ottimo, potrà inviare quanti SMS vuole; oppure sarà proprio durante una spesa veloce alla rosticceria Il Girasole che incontrerà Stefano. In fondo, la collina sulla quale sorge il quartiere non somiglia affatto ad un'eremitica meta vacanziera di ricche signore che vanno a ritrovarsi nei monaci buddisti, e ricorda piuttosto una riproduzione in scala H0 delle hills che circondano Los Angeles, con le luci arancioni della città che si stagliano alte nel cielo, oltre la cortina verdastra di smog. E magari proprio allora Mara capirà che il mondo è ancora un posto meraviglioso dove vivere. 
Una nevicata all'Agrestone


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