sabato 19 gennaio 2013

[Recensione] Django Unchained

Potrei scrivere tonnellate di parole su questo film e condensarlo in una sola, cioè "capolavoro". Lo dico perchè amo sin dall'infanzia il genere western e mi piace molto Tarantino. Tenterò una via di mezzo.

Per cominciare, sfatiamo subito un paio di opinioni insensatamente diffuse. Django Unchained (che, per chi non lo sapesse, è l'ottava pellicola diretta da Quentin Tarantino) non è nella maniera più assoluta un film iscrivibile fra gli "spaghetti-western". I motivi sono semplici: basti dire che non è un film italiano (aspetto "geneticamente" indispensabile), e inoltre che gli "spaghetti-western"sono andati in pensione nel 1978, quando uscì Stella d'argento di Fulci. Ad ogni modo, se Django fosse stato uno "spaghetto", sarebbe stato sicuramente il migliore: una vera delizia per il palato del cinefilo. Quando, nel 2007, alla Mostra del Cinema di Venezia, sono stati presentati trentadue titoli appartenenti a questo fortunato filone, è stato proiettato (quasi) tutto il meglio del genere. Tarantino potrà aver contribuito a "riscoprire" un paio di opere, ma per il resto si trattava di film già famosi, realizzati da persone che il loro mestiere lo sapevano fare e molto bene; e i frutti di questo mestiere sono stati celebrati al meglio, in quell'occasione, e fine della storia. Insomma, quello che voglio dire è: si può organizzare una retrospettiva dedicata al cinema espressionista tedesco, ma nessuno dovrà per forza girare un elaborato e ultratecnologico remake hollywoodiano de Il gabinetto del dottor Caligari; e la stessa regola va applicata al Django di Corbucci, che non si è "reincarnato" nel Django tarantiniano in seguito ad una elaborata operazione "cinefilologica". E questa cosa, almeno in Italia, sembrano non averla capita tutti, visto che sia in sala che (cosa ben più grave) sulla stampa specializzata si continua a parlare di "rimandi", "omaggi" e altre amenità. Lo si capisce analizzando, a grandi linee, la trama.
1858. Il dottor King Schultz (Cristoph Waltz) è un atipico dentista tedesco che da quattro anni pratica la professione di bounty-killer nel profondo sud degli Stati Uniti. Uomo colto, illuminato e contrario alla schiavitù, libera il nero Django (Jamie Foxx), lo "ripulisce" e gli chiede la sua collaborazione nello scovare i fratelli Brittle, macellai religiosi e torturatori di schiavi. Durante il viaggio, i due si conoscono meglio, Django racconta a Schultz del suo passato e del suo matrimonio con Brunhilda (Kerry Washington), una bella e giovane schiava da cui è stato separato per mano del suo vecchio padrone. Egli è animato dalla voglia di ritrovarla e di renderla una donna libera; Schultz è colpito dal racconto del giovane nero, in cui ravvisa (complice anche il nome della ragazza) delle notevoli analogie con L'anello del Nibelungo. Dopo aver trovato, nella piantagione del "gentiluomo" del Tenneessee Big Daddy (Don Johnson), i Brittle e averli uccisi, Schultz propone a Django di lavorare insieme fino allo sciogliersi delle nevi, dopodichè lo aiuterà a trovare Brunhilda. E così accade. Grazie alle ricerche effettuate al mercato di schiavi di Greenville, i due scoprono che la giovane è stata venduta al famigerato Calvin Candie (Leonardo Di Caprio), imperatore del cotone. Introdotti nelle sue grazie con la scusa di acquistare per una cifra sbalorditiva un lottatore di mandingo, i due cacciatori di taglie arriveranno fino a Candieland, dove dovranno tirare su una gigantesca e precisa "commedia", in cui nulla dovrà andare storto. E invece...
Opera immensa e ambiziosa, Django Unchained risulta essere il più bel film western dai tempi de Gli spietati di Eastwood, nonchè l'ennesimo capolavoro del percorso registico di Tarantino. Inoltre, con i suoi 165 minuti di durata, è l'opera più lunga del regista (finora deteneva il primato Pulp Fiction, con 154 minuti). Come già successo nel precedente Bastardi senza gloria, è la Storia ad essere al centro dell'attenzione: in questo caso, è una "storia orribile" (per citare una frase di Schultz, all'inizio del film), quella della schiavitù. Stia buono Spike Lee, che non ha visto il film ma ne ha comunque parlato malissimo, accusando (per l'ennesima volta) Tarantino di essere razzista: la verità è che Tarantino, pur non esitando a mostrare i negri più cattivi del mondo (in Django spetta nuovamente a Samuel L. Jackson questo arduo compito), porta da sempre avanti un'idea di cinema fortemente anti-razzista. Nei Bastardi un ebreo interpretato da un ebreo (Eli Roth) massacrava i nazisti con una mazza da baseball, qui Django uccide americani in cambio di denaro. L'americano, o meglio l'americano degli stati del sud è una persona di merda, e va punito con qualsiasi mezzo. La violenza che si scatena su persone che hanno agito indisturbate torturando e massacrando negri è non solo giustificata, ma quasi istruttiva: lo dimostra Django quando chiama attorno a sè i "fratelli", domanda <<Volete vedere una cosa?>>, e scarica il tamburo della Remington sull'uomo che frustava sua moglie. Django è l'uomo che la Storia ha messo in gabbia, e che, una volta liberato, non indugia e agisce, ribellandosi alla Storia stessa. Invece, se analizziamo i neri di molti film di Spike Lee (il caso più clamoroso e vergognoso è Miracolo a Sant'Anna) avremmo a che fare con personaggi che il regista priva della loro forza, della loro dignità, riducendoli a figure in grado solo di subire, manco fossero dei venditori ambulanti da spiaggia.
Il cast risulta curato come e forse più di sempre: Jamie Foxx è bravissimo; Cristoph Waltz è uno dei più grandi attori di tutti i tempi; Leonardo Di Caprio è uno dei cattivi più cattivi della storia del Cinema; Samuel L. Jackson è la versione oscura, cinica e malvagia dello Zio Tom; Don Johnson è un precursore del KKK, ignorante e stupido come un leghista nostrano; Kerry Washington non è la classica creatura femminile tarantiniana, ma brilla per bravura e intensità nei panni di quello che è forse il personaggio più drammatico; Michael Parks (che ha vestito i panni dello sceriffo Earl McGraw già sei volte, di cui tre con Tarantino dietro la macchina da presa) interpreta un ruolo marginale, ma "l'importante è esserci"; e lo stesso vale per Tom Savini (i suoi cani rabbiosi parlano per lui), Zoe Bell (ha sempre il volto coperto da un fazzoletto rosso, ma i suoi occhi sono ben riconoscibili), Ted Neeley, Robert Carradine, Franco Nero, RZA e lo stesso Tarantino (visibilmente ingrassato). Insomma, ogni singolo personaggio, anche il più secondario, è interpretato con classe.
E come il cast, tutto il film è lavorato con una perizia certosina (non esistono errori storici, ad esempio, nella scelta delle armi) e una mano ferma tipica solo di pochi geniali professionisti del Cinema. La musica è meravigliosa, così come la fotografia di Richardson. Abbondano, come sempre, gli omaggi a vecchi film: da Sentieri selvaggi a Navajo Joe, da Mandingo a Spartacus, da Arancia Meccanica a Il buono, il brutto e il cattivo, da Taxi Driver al Django di Corbucci; così come non mancano analogie con altre opere di Tarantino, da sempre appassionato "autocitazionista".
Si esce dal cinema coscienti di aver visto un film praticamente privo di difetti. E sono cose che succedono molto, molto raramente.


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