sabato 16 settembre 2017

"Quante gocce di rugiada" in un solo fine-settimana [Extra]

La commozione da Hitchikker di Neil Young non è ancora passata (e come potrebbe essere altrimenti, specie ora che sul Tubo è uscito il video della Powderfinger acustica?):

Ho finalmente trovato il tempo per visionare Back to the Swamp, il (bel) documentario contenuto nel DVD di Southern Blood.

L'ossessione da ristampe di oscuri dischi targati Pablo Records e CTI persiste.
Altra robina fa avanti e indietro attraverso l'hi-fi e, come se non bastasse, il concerto lucchese dei Rolling Stones è alle porte.
E' venerdì pomeriggio e faccio festa: la compilation Sticky Soul Fingers, uscita in allegato alla rivista Mojo nel natale 2011, Blondes Have More Fun di Rod Stewart (anche solo perchè contiene Dirty Weekend, il cui drumming firmato Carmine Appice rivaleggia da solo con ogni singolo reggaeton mandato dalle nostre, penose radio) e le Africa/Brass Complete Sessions di Coltrane mi aiutano a guardare in faccia a un grigio pomeriggio.
Non è una giornata indimenticabile, ma i tempi della nebbia e dei lampioni gialli devono ancora arrivare. Pensando a Coltrane, mi cade l'occhio sul gigantesco librone a lui dedicato da Lewis Porter e a cui accanto se ne sta, comodamente poggiato, Suono universale, biografia camuffata da autobiografia di Carlos Santana. E mica è un caso. Perchè, se Carletto passasse a trovarmi all'Agrestone, proverebbe un immenso piacere nell'apprendere che il suo nome è a fianco di quello che, accanto a Gabòr Szabò e Tito Puente, può essere considerato il terzo lato della sua ispirazione artistica. Mi è sembrato un gesto intelligente accostarli, anche se detesto tutta quella spazzatura spiritual che permea le teorie (prima ancora che la musica) dell'ultimo Trane e che è rifinita, inevitabilmente, anche in molti pezzi di Santana (guarda caso, soprattutto, nei più brutti e dimenticabili). Così ripenso che, nel silenzio e nell'imbarazzo generale, il chitarrista messicano ha da poco firmato una nuova uscita discografica, registrata in coppia con i famosi Isley Brothers, leggende dell'R&B.
Un'operazione paragonabile a un tortellino panna e prosciutto: per me i tortellini migliori sono quelli fatti con un buon brodo di carne, mentre poco dietro troviamo quelli al sugo (anche se, ovviamente, dipende dal sugo). Invece questo nuovo Power of Peace finisce nella cartella download in un batter d'occhio, ma altrettanto rapidamente viene spostato nel cestino, in mezzo alla spazzatura. Sono convinto che se avessi speso per esso anche un solo euro, non avrei dormito per alcune notti e il fantasma di Robert Johnson mi avrebbe visitato fissandomi con gli occhi iniettati di sangue e bruciacchiandomi le dita dei piedi. Non sto dicendo che mi sono convertito a Spotify (anzi, ho da poco aderito a un nuovo manifesto politico-culturale*), ma davvero penso che sarebbero stati soldi buttati. Siamo al punto in cui qua nemmeno ci si può fare ad arrivare a metà lavoro che il dito già scivola veloce sul tasto "input" dell'impianto: fuori le galeotte, meravigliose Africa/Brass Sessions e dentro uno dei centocinquanta dischi che sempre ascolterò, ovvero il primo dei Dire Straits. Agli 0'53'' di Down to the Waterline tiro una madonna e penso che se Santana fosse qui ora gli direi <<Ma che cazzo fai? Prima illudi tutti con IV e poi torni a produrre la solita robaccia con cui ci ammorbi, salvo poche eccezioni, da trentacinque anni a questa parte? Impara da collleghi come Knopfler, che non stanno a farsi tante pippe su yoga, preghiere e Gion Coltrein per poi finire a suonare queste canzoncine con quattro coglioni!>>.

La sera siamo fuori a omaggiare un paio di "passaggi di tempo" di quelli seri: mia sorella mediana festeggia il suo venticinquesimo giro intorno al sole, mentre la Little Sis' ha appena concluso il suo primo giorno di Liceo (scientifico, ma vabbè). Sento una brezza insolita: mi piace chiamarla il libeccio dell'anima e a settembre fa visita spesso. Cena in un grazioso ristorantino in borgo, un posto dove sono ricapitato e in cui viene facile godere oltremisura: di rado capita di esser fuori a cena tutti insieme. Per me, maccheroncini all'anatra e lingua di manzo in salsa verde. Fuori comincia a piovere, l'umore si aggiusta, il mio muso lungo si aggiusta fino a sciogliersi in un sorriso. Sarà la suggestione del momento, o saranno i fantasmi di Hitchikker che non mi lasciano solo, ma a un certo punto sono convinto di udire le prime note di Harvest fuoriuscire dai piccoli diffusori del ristorante (niente televisori qui). Drizzo le orecchie, ma il pezzo sta finendo. In compenso, non ho dubbi nel riconoscere ciò che inizia subito dopo. Ascolta, se vai lì quando la bufera di neve infuria/ quando i fiumi ghiacciano e finisce l'estate/ ti prego, accertati che lei indossi una pelliccia così calda/ da proteggerla dall'ululare dei venti:

Niente salti nel dopocena. Piove e sono abbioccato. Un paio di telefonate direttamente dalla Punto, che nonostante l'adesivo delle Birrette sul paraurti continuo a non accettare come mia personale compagna di viaggio. Mi prende sempre il magone quando ripenso alla mia Biancaneve, andata distrutta i primi di giugno. Metto in moto e riparto. Passo di fronte a St. Catherine Square: una quarantina di persone ammassate sotto quattro ombrelloni, alcune con un mojito in mano. Dopo questa visione posso anche fuggire. Giro a sinistra appena possibile, imbocco la New Road mentre la pioggia si fa più intensa. Le strade si allagano, i brevi tratti di campagna che mi riportano verso casa si fanno oscuri. Il mangiacassette Blaupunkt ha smesso di funzionare lo scorso ottobre, mentre tornavo dalla cantina. Canticchio la cosa più indonea che mi viene in mente: Black Night is Falling/ Oh, I hate to be alone/ Well, I'm Crying for my Baby/ Another Day is Gone:
Sabato mattina: vabbè che mi sono addormentato verso le una- e quindi presto per essere un venerdì sera -ma tutto mi aspettavo fuorchè essere sveglio a dieci alle otto. Quando capita, mi si appesantisce l'animo, l'umore fa passi indietro, non sorrido, evito di parlare, striscio fino in bagno, torno, poltrisco, leggo qualche pagina de Lo stato delle cose di Richard Ford, poi colazione, quattro chiacchiere con mamma, un rapido sguardo su Facebook e salta fuori che Harry Dean Stanton è morto ieri. Novantuno anni su cui mettere la firma. Una leggenda vivente dell'America che segue, di poco, il suo amico Sam Shepard. Scorro la home page di questa fogna social e noto come i critici e il pubblico siano tutti intenti a citare Alien, mentre per me Stanton rimane il Travis di Paris, Texas: si torna sempre lì. Sulla mia paginetta FB posto un fotogramma che reputo meraviglioso tratto dallo stesso film, quello dove Stanton siede di spalle e racconta alla sua ex-donna (Nastassja Kinski, meravigliosa), ora spogliarellista in un locale alla periferia di Houston, la loro storia di amore. Non fa nomi e cognomi, ma lei finisce ugualmente per riconoscerlo, seppure attraverso uno squallido specchio. Uno dei monologhi più belli della storia del cinema, giustamente inserito anche nello score di Ry Cooder, una scena che porta lo spettatore a inoltrarsi in riflessioni profonde, di quelle che non tutti gli esseri umani sono in grado di sostenere.

Ricordo che verso le medie, caddi preda dei miei primi splendidi western "di rottura": fra gli altri, Le colline blu di Monte Hellman, Pat Garrett & Billy the Kid di Peckinpah, Missouri di Arthur Penn. In tutti e tre c'era Harry Dean Stanton. Alien lo avrei visto dopo, così come lo stesso Paris, Texas, La saggezza nel sangue, La morte in diretta, e in tutti questi film aveva ruoli indimenticabili. Desidererei tanto vedere questo Lucky, pellicola uscita a marzo negli USA in cui è tornato a vestire i panni di protagonista e impersona un cowboy novantenne ateo che si avventura nel deserto. E poi le sue interviste: gli ho sentito fare dei ragionamenti sul cinema, sul lavoro di attore, su Bukowski, sul rock impensabili per qualsiasi altra persona della sua età. Ma a farmelo amare ulteriormente sono stati i suoi camei, tutti più o meno importanti e originali. Penso al suo San Paolo ne L'ultima tentazione di Cristo, all'inventore del trolley in This Must be the Place di Sorrentino (film che globalmente non mi ha mai entusiasmato), ma, soprattutto, a Lyle, il fratello di Alvin Straight in Una storia vera. I due hanno litigato in passato, neanche ricordano più il motivo. Sono entrambi anziani e malandati e vivono a quasi quattrocento chilometri l'uno dall'altro. Alvin viene avvertito che Lyle ha avuto un infarto e decide di andarlo a trovare con un trattorino John Deere che va a 8 km/h. Lyle compare solo alla fine di questo capolavoro, recita due battute di numero e poi tutto è giocato su volti, espressioni, dettagli.
Oggi più che mai, se mi chiederete cos'è il cinema, vi risponderò che è Harry Dean Stanton negli ultimi due minuti di Una storia vera.


[* il manifesto a cui accennavo sopra è così riassumibile:]

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