Esistono grandi registi che fanno un grande cinema e grandi registi che fanno un piccolo cinema. Questa è la differenza che intercorre fra Francis Ford Coppola e sua figlia Sofia: il primo, se anche è a descrivere una semplice quarantenne casalinga in vista di divorzio (mi viene in mente Peggy Sue si è sposata) gira ogni scena come se dovesse essere l'ultima della sua carriera; la seconda affronta anche temi di portata storica (Marie Antoinette) "sminuendoli"- nel senso buono- e calandoli in quell'atmosfera naif che tanto l'ha resa celebre e amata da noi bongustai europei. La verità è che- figlia o non figlia di un gigante -Sofia Coppola è brava: si può parlare per ore del suo "valore", della sua "autorialità" e della sua "onestà", ma, a conti fatti, lei sa girare un film, realizza ciò che le piace e concretizza solo i progetti in cui crede. E nonostante sia stata fatta preda- come Anderson o, a suo tempo, Jarmusch -di un determinato tipo di critica e pubblico, riesce a non considerare le proprie opere come un "prodotto pensato per..." e a dirigere film con una certa libertà.
E così, fresca del Leone d'Oro di tre anni fa (ottenuto con lo splendido Somewhere), gira il suo film più polemico, incazzato e realista: se le sue vergini suicide (mi riferisco al bell'esordio Il giardino delle vergini suicide) erano divinità giovanili che si trovavano per sbaglio sulla terra, e se Chloe (suo alter-ego in Somewhere) era l'eroina che simboleggiava la speranza per il protagonista famoso, depresso e annoiato Johnny Marco, stavolta i giovani sono rubbish, merda, spazzatura, roba da buttare senza neanche essere riciclata. Neo-maggiorenni benestanti che rincorrono il sogno dell'apparenza assoluta, dell'edonismo sfrenato e che non trovano pace, se non quando delinquono, svaligiando le ville dei loro miti e sforzandosi di emulare lo stile di vita che tutti vorrebbero condurre. Lo stesso lifestyle portato avanti da star dello spettacolo che si rivelano essere autentiche imbecilli: fra automobili lasciate aperte, mazzi di chiavi sotto lo zerbino e sistemi di allarme disattivati, i miti dello spettacolo che la Coppola conosce bene (ci è nata e cresciuta in mezzo) assurgono al rango di stupidi riccastri che non hanno cura di ciò che posseggono. Tuttavia, quello che si tiene a giro per le Hills di Los Angeles (bellissime e magistralmente fotografate da Harris Savides) non deve essere letto come un esproprio proletario: infatti, Nicki (una grande Watson, che dopo Noi siamo infinito dimostra più che mai di avere appeso gli abiti da streghetta antipatica al chiodo), Rebecca, Marc, Chloe (la bellissima Claire Julien è figlia del direttore della fotografia Wally Pfister, storico collaboratore di Nolan) e i loro accoliti sono solo personaggi ignoranti, superficiali, giovani figli del (troppo) benessere incapaci di provare anche i più basilari stati d'animo. Ed è questa assenza del sentimento- quel sentimento da sempre nucleo del cinema della Coppola -a rendere The Bling Ring un film unico e inaspettato (come fanno alcuni a parlare del "classico film à la Coppola" proprio non lo so), dove non ci sono buoni, ma solo cattivi, dove non c'è amore, ma solo opportunismo, dove non c'è sostanza, ma solo apparenza. Il dito della Coppola non viene puntato tanto sul lusso sfrenato, quanto su chi vi ambisce. Il finale tragico e, al contempo, amaremente ironico (l'intervista finale a Nicki è traducibile in un <<Siamo una generazione di merda, ma tanto vinciamo noi! Il futuro è della superficialità!>>) è di un illuminante realismo e decreta la conclusione di una lezione sulla società dei costumi da tenere di conto anche oltreoceano.
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