Downward Design Research
HusH (unreleased, 2012)
★★★★
Net-Label: termine che sta alla musica esattamente come e-book sta alla letteratura.
Sono pochi, pochissimi gli scrittori- famosi ed esordienti -disposti ad una pubblicazione esclusivamente online; e lo stesso si può dire dei musicisti. Per molti diventa un problema, a lungo andare, il rendere fruibile la propria opera solo su Soundcloud, MySpace e su un'altra miriade di siti, web-radio o e-store: e tutti si fanno prendere dalla smania della pubblicazione su cd (o vinile). Ecco, ai fiorentini Downward Design Research tutto questo non interessa: infatti, pur essendo attivi dal 2004, non pretendono di pubblicare il loro quinto album (HusH) su disco, e lo rendono ascoltabile direttamente sul sito.
Mentre i bassi analogici del pezzo di apertura Gridlock rimbombano nelle mie cuffie, mi concentro sul nome del gruppo (un quintetto, per l'esattezza): D.D.R. è, non tanto a caso, l'acronimo della Deutsche Demokratische Republik, un mondo affascinante scomparso nel volgere di ventiquattro ore, un universo (anche artistico) che ha sempre mostrato un fascino non privo di ambiguità (ad esempio, l'uso del rosso e del nero, elementi di due scuole di pensiero che si compenetrano e si fondono non tanto in senso politico, quanto in quello di immaginario collettivo). E anche se oggi tutti lo negano- perchè amiamo sentirci raccontare che all'Ovest c'erano i buoni e all'Est i cattivi -, la D.D.R. è stata lo scenario di una serie di avvenimenti artistici che hanno sicuramente influenzato la musica che sarebbe venuta, e di conseguenza anche i Downward Design Research. Come la vecchia repubblica democratica tedesca, anche un pezzo quale Negative Feddback richiama ad un'estetica industriale morta e ad quell'orizzonte culturale definitivamente tramontato e celebrato anche da artisti post-Kraftwerk (penso ai Tangerine Dream, ai Depeche Mode e agli Ultravox). E come per i brani d'esordio di questi autori, in tutto HusH non è udibile neanche un glitch digitale: l'analogico regna sovrano, è non per far suonare la musica dei Downward Design Research come un qualcosa di vintage o di usurato, ma per specifica finalità artistica. Parte la lunga Torino e chiudo gli occhi: vedo tastiere con inserti di legno, manopole con sotto la decalcomania dell'onda quadra e cursori. Nè dal vivo, nè tantomeno in studio (salvo per le rifiniture), il gruppo utilizza una strumentazione digitale, tant'è che alcuni membri stanno lavorando ad un Manifesto della musica elettronica senza computer, dove forniscono consigli utili a chi vuole fare musica in maniera analoga e su quali strumenti usare e dove trovarli.
Inutile dirlo, ma l'immaginario da periferia di Berlino-Est che suscita questa musica poco si addice alle visioni rinascimentali che i D.D.R. hanno negli occhi vivendo a Firenze, una città ormai lontana sia dall'indipendenza R&R degli anni Ottanta che dai fasti dell'elettronica degli ultimi anni: i locali ci sono, gli artisti vengono, ma è sempre più difficile- anche per chi organizza eventi -lavorare. Per quanto rimanga uno dei pochi focolai underground del centro-Italia, la tendenza si sposta ormai verso quella della città dormitorio, nel cui centro si fa abbassare il volume degli hi-fi (ma non dei televisori) e si fanno chiudere i locali dove si balla e dove c'è un palco, lasciando spazio solo a squallidi abbeveratoi alcoolici (che pure devono chiudere a una cert'ora). Così, non rimane che lasciarsi trascinare dai flussi sonori della splendida e conclusiva Vio, che ci permette di vivere quasi in soggettiva una lunga avventura fra ingranaggi industriali e architetture in stile Bauhaus, alla ricerca di quel nuovo rinascimento tanto auspicato quanto mai realizzato.
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