giovedì 3 ottobre 2013

In morte di un comico [Trame]


PREMESSA

Mentre nei racconti presentati ad agosto e settembre non avevo toccato praticamente niente a livello della storia, per questo In morte di un comico (datato 12 maggio 2006) ho dovuto "allungare un po' il brodo" e approfondire certe descrizioni. Ma come sempre ho lasciato tutto come era e come deve essere. Buona lettura.

IN MORTE DI UN COMICO

<<Questa nave è enorme>>, esclamo mentre uno steward mi scorta con la fedeltà di un cane da guardia verso il ponte del transatlantico. Mi ha appena mostrato la mia nuova cabina, uno sgabuzzino due metri per tre dove trovano spazio un cesso senza tavoletta, uno specchio, un posacenere, un letto a castello e i bagagli. Sono quattro anni che viaggio su questa nave, eppure ho cambiato già sette volte cabina.
La moquette e la carta da parati dei corridoi sono a righe e sembrano allungare ulteriormente il percorso lungo il quale trovano spazio lampade cinesi, soprammobili legati alla cultura buddista e altri oggetti che arrivano dal lontano Oriente. Inoltre, noto con sommo stupore che le cabine non sono ordinate coi numeri romani, ma con bislacchi ideogrammi.
Finalmente, arriviamo sul ponte: il sole è tramontato da poco, ma fa molto caldo. I turisti più anziani stanno già consumando una lauta cena ai tavoli all'aperto, non curanti del vento che di certo non giova ai loro reumatismi. Dal livello sottostante si leva una cappa di fumo di sigaretta misto a quello più denso dei cannabinoidi; mi affaccio dalla ringhiera ed è come assistere ad un'altra crociera, con gente più giovane intenta a ballare drum n'bass sul ponte, sdraiarsi, bere, dormire in sacchi a pelo ignorando tutta quella confusione. Riconosco un paio di loro, che mi invitano a scendere.
Sento i 170 BPM pulsare sempre più vicini, abbraccio forte persone che ho conosciuto ma di cui non conservo alcun ricordo, apro coi denti lattine da mezzo litro di pessima birra, inalo fumo passivo, lascio che la musica pompi sangue nelle mie vene. Non sto cercando di dimostrare niente a nessuno, ma vorrei solo evitare di annoiarmi e di pensare troppo; in più, spero di farmi venire fame. Alzo gli occhi al cielo e vedo un'enorme luna gialla che ci sovrasta, immersa in un cielo azzurro che non rende percepibile l'atmosfera notturna in cui questa fetta di mondo è entrata nelle ultime ore.
Da sottocoperta arrivano dei quarantenni ciccioni: Nils, un quindicenne norvegese, mi spiega che si tratta dei genitori di alcuni di loro. Vengono a controllare che i figli non stiano troppo male, a fissare culi che non si sono mai potuti permettere e a tentare di apparire simpatici, moderni e tolleranti. <<Tutti abbiamo i nostri genitori a giro per la nave. Solo che i miei non sono ancora venuti a prendermi>>, conclude il mio amico.
La festa è guastata, e decido di riavvicinarmi al bar interno. Ordino un caffè shakerato e mi siedo sugli sgabelli al bancone. Poco dietro di me, quattro studenti, due maschi e due femmine, parlano di Van Gogh e sesso orale, circondati da una nebbia aromatizzata al gusto di nicotina&ormoni. I due maschietti continuano a riempire di Jeger i bicchieri delle ragazze, nella speranza di portarsele a letto, e se non bevono troppo anche loro potrebbero quasi farcela. Finisco il mio caffè e ordino un liquore, da consumare sul ponte. Incredibile quanto gli alcoolici costino poco qui.
Purtroppo da sette anni soffro di insonnia, malattia a cui non cerco volutamente un rimedio; e poi, con o senza di essa, sta già albeggiando. Quando il quartetto di pubescenti si alza e, barcollando, si dirige verso uno dei corridoi, io sono già fuori, nella mia veranda marittima, a gustarmi un'alba macchiata di whisky.
La nave si dirige verso la costa di un'isoletta, dove giunge quando è già giorno: le persone ci salutano, e io rimango colpito da una ragazza in costume e cappello da cowgirl che cammina sulla spiaggia. È come vedere un rubino nella polvere, e sento che è la donna dei miei sogni. Potessi, farei fermare il capitano, mi butterei in mare e la raggiungerei a nuoto. Ma i miei pensieri romantici sono presto interrotti da urla terrificanti, provenienti dall'interno: lascio tutto e corro.
La bolgia è nella sala colazioni: è lì dentro che pare essere cominciato tutto. Una folla incredibile si è radunata attorno ad un tavolo da quattro, su cui sta avendo luogo una monta umana. Lui, maschio latino di bell'aspetto, lei, bellezza nordica minuta e magra. Poteva essere un'attrazione della crociera in cui si metteva in scena l'incontro fra due culture, ma mi rendo conto da subito di essere l'unico a non pensarla così, e tengo per me certe considerazioni. Un cuoco turco, grosso, violento e profondamente incazzato, si fa avanti per primo e divide i due, riempiendo di pugni il ragazzo. Ed è allora che lo vedo bene per la prima volta: il Comico, uno che lavora da mesi sulla nave come animatore e che si era evidentemente rotto le palle di far ridere e basta. Alla ragazza- che ha addosso solo un paio di stivaletti color ocra -viene portata una coperta, che però rifiuta. Ha il corpo arrossato, madido di sudore, e gli occhi allucinati: sembra quasi che non si renda conto che stava scopando, all'ora di massima affluenza, nella sala colazioni di una nave da crociera.
Sin dai tempi di Giulio Cesare, sulle navi trovavano spazio delle apposite celle in cui gli indisciplinati venivano rinchiusi, ed è una regola che non è mai cambiata. Dunque, rimango basito dal momento in cui il Comico non viene messo agli arresti, ma affidato alle cure del cuoco, il quale- per ordine diretto del capitano -potrà disporre del prigioniero come meglio desidera. E così, nell'indifferenza generale, il Comico viene trascinato su un enorme barbecue, legato e lasciato a cuocere per un pezzo. L'aria diviene irrespirabile nel giro di due minuti, con l'odore di pelle e peli bruciati che guasta la colazione continentale a numerosi passeggeri, e le urla del giovane che diventano lancinanti.
Quando le corde vengono sciolte dalle fiamme, lui ce la fa a rialzarsi, e sono io che gli poso sulle spalle una coperta bagnata; il Comico piange, geme, suda, mi mette la testa in grembo come un neonato indifeso. Ha ustioni terribili e visto che siamo in una nave in mezzo al mare, lontani dal mondo e dalle strutture ospedialiere, sono certo che morirà nel giro di poche ore. Così, lo accompagno nella cabina dove alloggiano anche i suoi familiari, che per la vergogna non si sono voluti far vedere. Speravo che avessero qualcosa da dirsi, ma la madre sembra molto più interessata a farlo mangiare: una gran bella ultima cena, dove ci scappa anche una bistecca per il sottoscritto. Arriva anche la sua ragazza, a baciargli le guance carbonizzate e a salutarlo. Poi lo adagiano su un tavolo e lo piangono, mentre egli spira.
La salma viene fatta passare attraverso il corridoio, poi per il bar e le cucine. I marinai che la trasportano non battono ciglio, neanche quando, una volta sul ponte, aspettano che qualcuno dica qualcosa. I genitori blaterano qualche stronzata religiosa, la fidanzata si asciuga le lacrime.
Io cerco di farmi venire in mente cosa ci faccio lì, ma non riesco ancora a ricordare come ho perso la mia strada. 


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