mercoledì 30 ottobre 2013

[Recensione] Metallica: Through The Never

Sono proprio contento.
Contento di essere entrato in un cinema gremito nonostante il giorno (martedì) e l'ora (le 21:00). Contento nell'appurare che una buona fetta del pubblico è composta da giovani sotto i 18, e, in un paio di lunghe file- sotto lo sguardo vigile di genitori galvanizzati quanto la loro prole -da ragazzetti che non arrivano a 14 anni ma che si stanno già facendo crescere il capello e mentalmente ripassano quale tatuaggio farsi (di nascosto) in un prossimo futuro.
Alla faccia di quelli che "il cinema è morto" e che "le nuove generazioni sono tutte merda"!
E' una serata da intenditori, o almeno così dovrebbe essere, visto che un film-concerto in 3D non vanta la "commerciabilità" di Cani sciolti: e proprio per questo rimango colpito dall'assortimento umano giunto a vedere Metallica: Through The Never.
Una ripresa aerea su Edmonton (Canada) apre il film. La macchina da presa inizia ad avvicinarsi al Rexall Place e punta verso il basso. Una radio annuncia che stasera i Metallica suoneranno in città. Nell'enorme parcheggio fuori dallo stadio di Hockey arriva una vecchia automobile malmessa da cui scende un metallaro brutto, sporco e panciuto che monta sul tettino ed inizia ad urlare come un ossesso <<METALLICA!YEAH! ORGHHHHH! WARGHHHH!>>. Durante questo sbellicante siparietto, arriva Trip (l'eccezionale Dane DeHaan già notato in Come un tuono), un giovane roadie assunto per duecento dollari a sera il cui unico interesse sarebbe vedere il concerto a gratis. Il ragazzo entra nel mondo dei suoi idoli, avendo libero accesso al backstage, e vede cose incredibili: la chitarra di Kirk Hammett grondante sangue, James Hetfield che arriva in una vecchia automobile dalle cui marmitte escono fiamme simili a quelle di un Eurofighter, Robert Trujillo che si esercita al basso scrostando i muri di una stanza dove trovano spazio enormi amplificatori. Il concerto si apre con Creeping Death, e va avanti con For Whom The Bell Tolls, durante la quale Trip viene richiamato dal suo capo che gli commissiona un compito importante: deve andare alcuni chilometri fuori dallo stadio a recuperare un oggetto non ben identificato che si trova dentro un camion rimasto senza benzina. Di cosa si tratta? Chissà. Fatto è che, da questo momento, nulla sarà uguale per Trip, e mentre i Metallica continuerano a suonare, lui dovrà affrontare una guerriglia urbana che sembra arrivare direttamente dai suoi peggiori incubi e, soprattutto, dovrà sforzarsi di rimanere vivo. 
Il mandare avanti parallelamente un concerto e un film vero e proprio non è storia nuova nel mondo del cinema musicale: basti pensare ad un classico quale The Song Remains The Same (1976) di Peter Clifton e Joe Massot, dove una serata newyorchese dei Led Zeppelin veniva intervallata da micro-film con protagonisti i vari componenti della band. Through The Never è diretto con mano ferma e solida da Nimròd Antal, che aveva dato subito prova di essere un bravo mestierante dieci anni fa con Kontroll ma che poi si era ridotto (o era stato ridotto) a dirigere robaccia come Vacancy (2007) o Predators (2010). Invece qua dimostra: di sapere dirigere scene di massa sia nel concerto che nella finzione; di avere una bella fantasia orrorifica, più vicina a Dylan Dog che al videoclip metallaro; di avere studiato per filo e per segno i migliori film-concerto della storia, e cioè The Last Waltz (1979) e ancora di più Shine A Light (2008) di Scorsese; e di avere un'ottima padronanza delle nuove tecnologie, visto che il film è girato in un IMAX 3D che di certo non si vede tutti i giorni. 
Adesso parliamo della band. Dunque, per me i Metallica sono un gruppo costituitosi nel 1981 che ha inciso quattro album fra 1983 e 1988 e qualche buon singolo nel 1991 e nel 2008. Faccio finta che esistano dischi come Load, Re-Load o St. Anger e vivo meglio così. La mia grande paura- conoscendo a grosse linee la scaletta dei tour degli ultimi anni -era che Trough The Never presentasse una tracklist più "rock" e meno trash metal, dove fossero presenti giusto quei pochi classici indispensabili. E invece, con mio sommo godimento, il 90% del concerto presenta le canzoni vecchie, lasciando spazio giusto a Fuel e The Memory Remains (canzonetta mediocre, ma molto suggestiva in questa versione live) come unici brani "moderni". Insomma, il film, o meglio, il concerto è a quasi tutti gli effetti un concerto trash-metal durante il quale succede di tutto: da sedie elettriche che scendono dal cielo a tombe che si issano da terra, da un team di operai che monta la statua della giustizia durante ...And Justice For All a un tecnico del palco che prende fuoco, da un bombardamento simulato prima di One (con esplosioni e tanto di proiettili laser) al palco che crolla sotto la troppa energia lasciando però la band miracolosamente illesa. Ed è qui che James Hetfield dice <<Non ci serve tutta questa roba! Ci bastano degli amplificatori...>> e concludono con una sorta di "strumentazione d'epoca" suonando Hit The Lights.
A parte l'allestimento sontuoso, le riprese spettacolari e la musica, Through The Never funziona grazie alla storia parallela misteriosa e affatto banale che si sposa benissimo con il concerto. E funziona perchè, come solo un certo tipo di metal sa fare, finisce col non prendersi troppo sul serio: gioca con certi luoghi comuni del genere, non nasconde che questi stempiati cinquantenni sono in realtà dei distinti milionari un po' annoiati che però si divertono ancora a suonare come se fossero nel loro garage (vedere i titoli di coda per credere), fa capire che dietro al sangue e alla rabbia c'è più la voglia di andare a bere una birra tutti insieme che altro. Ed è quello che consiglio di fare per sbollirsi dopo essere usciti dal cinema con la voglia di prendere a calci qualcuno o di dare fuoco ad un'automobile.

martedì 29 ottobre 2013

[Recensione] Escape Plan- Fuga dall'inferno

<<In California non buttano via la spazzatura. La prendono e la trasformano in programmi televisivi>> diceva giustamente Woody Allen ai tempi di Annie Hall, film in cui per la prima volta il comico si dimostra restio a sfrecciare in lussuose cabriolet per i viali costellati da palme di Beverly Hills, preferendo il freddo, la decadenza e la superiorità culturale della East Coast. E a quei tempi in California non avevano ancora "Schwarzy", divo-governatore che avvalora la regola storica che gli attori in politica fanno solo danni: pensate a buffoncelli nostrani come "il maestro" Barbareschi, oppure a criminali del calibro di Reagan. E mi duole tremendamente farlo, ma devo dare atto a Schwarzenegger di aver interpretato tre capolavori: Conan il barbaro, Terminator e Terminator 2- Le macchine ribelli
Torno al vecchio Woody Allen, e al suo ancora più vecchio Bananas (1971), dove per la prima volta appariva sullo schermo un ragazzone alto, moro e muscoloso: Sylvester Stallone. Allen, da illuminato genio del cinema, non aveva tempo da perdere con le idee di una comparsa, così non poteva sospettare che quel "bestione" (noto fino a quel momento per Italian Stallion-Porno proibito di Lewis Norton) una mattina si sarebbe svegliato, avrebbe imparato a scrivere e se ne sarebbe uscito fuori con una perla come Rocky e che sarebbe diventato uno degli attori incomprensibilmente più famosi e amati di tutti i tempi.
E cosa avrebbe mai pensato sempre Woody Allen se gli avessero detto che questa gente, un giorno, sarebbe diventata, ricca, famosa, importante e amata dal pubblico (e non solo dal pubblico californiano)? E che ceffi come Stallone o Schwarzy avrebbero anche "recitato" l'uno accanto all'altro?
Vedere in lingua originale Escape Plan, un brutto film carcerario che riunisce la premiata ditta "Schwarzy&Stallone", è un'esperienza senza pari e mi rende consapevole che- in barba a coloro che si sono svegliati pochi anni fa dicendo che il doppiaggio è il male assoluto -è un bene che nel nostro paese i film vengano doppiati: Stallone e Schwarzenegger in inglese sono ancora più ridicoli che in italiano. Tuttavia, non pensiate che Escape Plan migliori particolarmente in italiano: rimane comunque un'opera mal girata dallo svedese (ma siamo sicuri?) Hafstrom, e se anche fosse muta avrebbe da giustificare riprese ignobili, una sceneggiatura profonda quanto un fondo di caffè, e un cast che- non soddisfatto dalla mediocra performance dei due muscolosi beniamini hollywoodiani -vede al suo interno gente come il rapper 50 Cent.
Insomma, dopo poco più di un'ora e mezza, l'unica fuga a cui vorrete assistere è quella dal cinema. Sempre ammesso che non amiate il cattivo gusto.
O che vi ci voglia veramente tanto per vergognarvi.

Motörhead, "Aftershock" [Suggestioni uditive]

Motörhead,
Aftershock (Sanctuary, 2013)

★★★½

















Non credo ci sia bisogno di presentazioni.
Anche i bambini sanno che i Motörhead sono una delle più grandi formazioni musicali di tutti i tempi, attivi dal 1975 e da sempre ligi al dovere, fra pubblicazioni di album e lunghi tour che li portano a giro per il mondo ogni anno. Gente come Lemmy Kilmister- genitore ideale mio e di molti altri appassionati -non ha il tempo di scrivere autobiografie, di domandarsi come fa ad essere ancora viva, di dedicarsi a tavole rotonde sul futuro della musica alternativa nell'Occidente. Non ne ha il tempo perchè gli basta avere i suoi due pacchetti di sigarette al giorno, la sua bottiglia di Jack sempre con sè e qualche lattina di Coca con cui mischiare il bourbon la mattina a colazione per suonare il basso e cantare col viso rivolto verso l'alto. Non ha tempo da perdere con gente che si scervella mesi per scegliere la copertina di un album "di ricerca" inciso nell'arco di tre, cinque anni e contenente lo spettro dei sentimenti provati da ogni singolo componente della band. Perchè ai Motörhead non gliene può fregare di meno delle poesie, della pace, dell'evoluzione sonora di un gruppo, della musica di merda, del crossover, di "incontrare l'elettronica", del Coachella e di tante cose superflue.
Loro lo ripetono da quasi quarant'anni: montano su un palco, si presentano e suonano il rock&roll. Forse non lo sanno più neanche loro perchè lo fanno- visto che di fama, di donne e di droghe ne hanno avute più di tutti -ma lo fanno bene come nessun altro.
Suonano musica che è sempre la stessa.
Pubblicano dischi che sono tutti uguali.
E sono tutti belli (o brutti, dipende) allo stesso modo.
E per quanto riconosca che nella fase pre-Inferno (cioè prima della collaborazione col produttore Cameron Webb avviatasi nel 2004 e tuttora in corso) la band aveva perso parecchio "smalto", questo ventunesimo (!!!) album in studio intitolato Aftershock e recante una delle più brutte copertine della storia del gruppo è perfetto. Non è un capolavoro, ma nessuno ha chiesto ai Motörhead di fare un capolavoro. Loro il capolavoro lo fanno giorno per giorno, rimanendo insieme, continuando a suonare duro come hanno sempre fatto e come continueranno a fare fin quando Dio (o chi per lui) non scenderà dall'alto dei cieli e dovrà sfidare Lemmy Kilmister personalmente.
E non saprei chi dei due potrà uscirne vincitore.

Ma che cazzo dico? E' ovvio: Lemmy!

lunedì 28 ottobre 2013

I Cani, "Glamour" [Suggestioni uditive]

I Cani
Glamour (42 Records, 2013)
★★

















Quella che nel 2011 poteva essere in lizza come la più grande band italiana degli ultimi anni (oltre ad avvalorare, con mio sommo piacere, la teoria che l'indie è una grande cazzata) torna a far parlare di sè.
Fermi tutti. 
Prima nota negativa: I Cani hanno fatto un nuovo album? Sì, non si sono fermati a Il sorprendente album d'esordio de I Cani (chi non l'ha sentito due anni fa si vergogni e corra a rimediare), un disco che aveva praticamente già tutto e che non bisognava nè dei quattro orrendi video prodotti dal leader Niccolò Contessa, nè di un tour promozionale (ho visto la data fiorentina nel febbraio 2012), nè di un seguito (anche perchè l'orribile EP I Cani non sono i Pinguini non sono I Cani poteva bastare e avanzare).
Seconda nota negativa: <<il secondo album è sempre il più difficile nella carriera di un artista>> cantava Caparezza, dieci anni fa, ne Il secondo secondo me. Aveva ragione, e quanti grandi fenomeni musicali sono caduti sotto questa regola! Il segreto sta nel mirare il più in basso possibile, ripetendo a se stessi <<Per il mio concept-album orchestrale c'è tempo... lo farò tra un paio d'anni, mentre conto le banconote da cinquecento a bordo della mia piscina a forma di chitarra!>>. E invece Contessa & co. con questo Glamour sbagliano tutto, puntano in alto e falliscono. Falliscono perchè credono di essere (in ordine sparso): Battiato, De Andre', i Baustelle, i Subsonica, i vincitori del festival fittizio il "Sanremo-che-non-c'è", Max Pezzali, Leopardi, Pasolini, Ellis. 
Terza nota negativa: Glamour è un album costoso. Magari, non costoso come Chinese Democracy (13 milioni di dollari, per chi non lo sapesse) ma poco ci manca: prodotto da Fontanelli degli Offlaga Disco Pax- che avvalora la propria carriera dimostrandosi un pessimo produttore oltre che un mediocre musicista -per la 42 Records, "vanta" collaborazioni con Chris X (lo stesso di Roma Nord nell'esordio) e i Gazebo Penguins (che devono proprio a I Cani la loro notorietà, visto che prima di Asperger temo che se li filassero in pochi), oltre a presentare i consueti insostenibili minutaggi di suonini odiosi, sonorità lo-fi e banali, interminabili arrangiamenti realizzati con pesanti synth analogici invece che con Garage Band. Peccato però che I Cani funzionassero meglio ai tempi (due anni fa) di Garage Band.  E peccato che, da scimmiottare Le Luci Della Centrale Elettrica, siano diventati esattamente uguali a Vasco Brondi ed eventuali epigoni. 
Ascoltate pure Glamour
Salvate Introduzione, Storia di un artista e Lexotan, ma poi andate oltre, abbracciando- che so -i Cinderella o i Death e pensando che I Cani non sono la peggiore indie band italiana in circolazione.

La vendetta è un piatto che va servito freddo: dieci anni di "Kill Bill" [Ombre elettriche]




Secondo voi, quanti film di "cappa e spada", kung-fu e chambara esistevano nelle videoteche prima del 2003? Vi rispondo subito: centinaia. Alcuni- specie nel vecchio continente-in VHS che iniziavano a scolorirsi distribuite da Avofilm, altri in primordiali DVD privi di contenuti extra e con qualità audio-video pessime. E quanti se ne potevano trovare meno di un anno dopo? Migliaia, dappertutto e in quantità industriale. Il motivo di tale incremento in una fascia del mercato home video solitamente ritenuta di serie B poteva dipendere soltanto da un film: Kill Bill vol. 1, uscito proprio nel lontano autunno 2003. La cosa che mi divertì di più all'epoca fu notare come al Mercatone Uno che sorge a dieci minuti da casa mia, nei pressi dell'Autopalio, film come Cinque dita di violenza o Il teppista fossero passati dal cesto delle offerte a cifre astronomiche. Fu allora che, reduce dalla celestiale visione del primo Kill Bill, mi resi conto per la prima volta che Tarantino non aveva seguito una moda, ma l'aveva creata.
Altra domanda: secondo voi, quanti negozi di scarpe tenevano le Asics/Onitsuka Tiger modello "Mexico 66" prima del 2003? Pochi, e in quei pochi neanche le chiamavano con l'antico nome di Onitsuka Tiger, nè tantomeno venivano richieste nella colorazione gialla e nera. E sapete perchè? Perchè prima di Kill Bill quel modello con quei colori era ritenuto assurdo, superato e troppo "da femmine".
La cosa incredibile è che le Onitsuka Tiger, i film cinesi di kung fu, i film giapponesi di "cappa e spada", le colonne sonore di Ennio Morricone e di Charles Bernstein esistevano già da prima. E io, pur avendo già recuperato i capolavori di gente come Tsui-Hark o John Woo, recepii questo film come un qualcosa di realmente nuovo e rivoluzionario. E la novità e il coraggio di scommettere su un progetto come Kill Bill non risiedevano, all'epoca, tanto nella storia della bellona che va in cerca di vendetta (non era una novità, come insegna Lady Snowblood di Toshiya, datato 1973), quanto nel modo in cui questa storia è raccontata, in questo alternarsi di stili, colori, tecniche e musiche. La fusione di generi (dal chambara giapponese al wuxia cinese, dallo spaghetto-western al revenge-movie, dall'anime al videoclip) è scandita da un montaggio sconnesso, con blocchi temporali montati quasi come in Pulp Fiction, e sembra quasi portare il film- ironicamente -all'assenza del genere.
Mi sarebbe sempre interessato vedere il montaggio che Tarantino presentò a Cannes e che doveva essere pubblicato in DVD nel 2009 col sottotitolo di The Whole Bloody Affair: a parte l'ultima scena del primo volume, l'introduzione in bianco e nero del secondo e l'omissione del proverbio Klingon con cui si apre la storia (rimpiazzato però da una dedica a Kinji Fukusaku, grande maestro del cinema giapponese scomparso proprio nel 2003), la versione di oltre quattro è quella che, dal punto di vista del regista, doveva andare in sala. Diffidate dei rincoglioniti che starnazzano <<Il volume 1 è meglio del volume 2!>>, oppure <<Nel volume 1 ci si diverte, nel volume 2 ci si annoia!>>. Come già ripetevo ad un corso di cinema tenuto all'autogestione scolastica nel 2006 dove proiettai entrambi i volumi (in videocassetta), il film è uno e uno solo: la suddivisione in due parti equivale a quella che fu riservata dai produttori anche a Novecento, e non si tratta di due film separati; piuttosto, mi è sempre piaciuto parlare di "primo tempo" e "secondo tempo". Il "primo tempo" è un lungo galoppo, ricco di sangue, azione e omaggi assortiti al cinema orientale; in compenso, nel "secondo tempo", il ritmo si abbassa vertiginosamente, i personaggi diventano ancora più approfonditi (in Kill Bill vol. 2 non c'è una comparsa che non svolga un ruolo utile ai fini della storia e che non rimanga impressa nel cervello dello spettatore) e la storia si conclude con un quadretto da dramma familiare americano, dove l'odio, la vendetta e la violenza vanno ad estinguersi del tutto. E il finale è romantico e insieme straziante, perchè si scopre che, alla fine dei conti, la vendetta vince su tutto, anche sull'amore, e che Bill ha avuto ragione per quattro ore di film: la Sposa è cattiva. Simili contenuti non si ritrovano in nessun altro film di vendetta, specie in quelli degli ultimi vent'anni (prendiamo il terrificante Io vi troverò), dove al reazionario muscoloso rapiscono la figliola e lui deve dimostrare che una vendetta intesa come mera apologia della giustizia privata è quanto di più giusto l'essere umano possa perseguire. Invece Kill Bill non assomiglia a nulla di tutto ciò, e fa capire già dopo un quarto d'ora dall'inizio (l'uccisione di Vivica A. Fox di fronte alla piccola Niki) che la vendetta avrà un prezzo altissimo da pagare: e questo messaggio finale viene ripetuto fino alla fine. La stessa B.B. potrebbe avere voglia, un giorno, di ammazzare la Sposa, rea di averle ucciso il padre con cui era cresciuta fino a quel momento.
Così, se Tarantino è andato avanti perfezionando ulteriormente il perfezionabile (fra i Bastardi e Django) e continuando a dimostrarsi del tutto incapace di girare un film brutto, Kill Bill rimane- anche a dieci anni dall'uscita del "primo tempo" -il suo film più ricco, personale e completo. Nonchè, uno dei miei film da portare sulla famosa "isola deserta": quindi, se non lo avete visto, salutatemi ugualmente, ma evitate di parlare di Cinema.


domenica 27 ottobre 2013

Walk On The Wild Side [Extra]

Trainspotting somiglia molto ad Arancia Meccanica o Pulp Fiction: piace alla gente, a tutta la gente; e piace a tutta la gente perchè è visto dall'angolazione sbagliata. 
Comunque, ricordo la scena del parco di Trainspotting, quella dove ci sono Mark e Sick Boy che discutono di James Bond e Lou Reed; e mentre Sick Boy rimpiange i Velvet Underground, Mark confessa che, secondo lui, Lou Reed da solista ha fatto "delle cose non male". 
Non lo nascondo: come la maggioranza dei miei coetanei, devo a Trainspotting la scoperta di Lou Reed. La soggettiva di Ewan McGregor trasportato dal taxi all'ospedale sulle note di Perfect Day è spettacolare, e Boyle non poteva scegliere un pezzo migliore di quello. Ed è proprio Perfect Day che avrei ritrovato, tempo dopo, fra i solchi di Transformer, uno dei miei dischi preferiti in assoluto, nonchè il capolavoro di Reed solista: amo canzoni come Vicious, Satellite Of Love e Walk On The Wild Side perchè le sento in qualche misura affini, perchè ascoltarle un po' potrebbe davvero avermi cambiato e perchè, come solo certi sentimenti e certe opere d'arte, sono eterne. 
Lou Reed è morto oggi, nella sua New York, a settantuno anni. E' sopravvissuto alle violenze domestiche, al manicomio, all'elettroshock, all'ebraismo, all'eroina e a miriadi di altre cose. Per me non è stato solo il bisessuale eroinomane marcio che ha scritto Venus In Furs, Heroin, Sunday Morning e non so quanti altri capolavori coi Velvet Underground, Nico e chi volete. Dall'umiltà dell'esordio omonimo alla delusione (provata solo dal sottoscritto, sicuramente) di Berlin, dalla meravigliosità commerciale di Sally Can't Dance all'incomprensibile futurismo di Metal Machine Music, dal fatto che un capolavoro come Coney Island Baby non se lo sia mai cacato nessuno all'oggettiva assenza di un disco uscito fra il 1979 (The Bells) e il 1996 (Set The Twilight Reeling) che mi piaccia, dall'odioso tradizionalismo retrogrado di un album come Ecstasy (2000) fino agli enigmi celati nell'estremo Hudson River Wind Meditations (2007), dalle sgradevoli collaborazioni nei singoli dei Killers fino all'ultimo orribile disco (che purtroppo rimane anche l'ultimo della carriera) in collaborazione coi Metallica che è Lulu, Lou Reed per me è un artista indispensabile.
Per il mondo della musica ha un'importanza pari ai vari Bob Dylan, Beatles, Madonna e pochi altri. In parole povere, Lou Reed fa parte dell'ABC del rock, e chi non lo conosce neanche un minimo beh... è come chi parla o scrive senza però conoscere l'alfabeto.

Lou Reed (1942-2013)

martedì 22 ottobre 2013

[Recensione] Cose Nostre-Malavita

Per quanto non vada matto per i luoghi comuni sui popoli stranieri, devo dire che quelli sui nostri "cugini" francesi sono spesso fondati: i francesi risultano facilmente boriosi, antipatici, presuntuosi e patriottici. Ebbene, analizzando certi campi d'azione comuni, possono permetterselo senza alcuna remora: un esempio a caso? Il Cinema. 
Il Cinema francese, infatti, non è solo il più antico del mondo, ma anche il migliore, quello che non è mai andato in crisi, quello che comunque vadano le cose sforna un capolavoro ogni anno, quello che trova  sempre il giusto spazio in un Festival degno di questo nome come Cannes. Cosa pensare dunque di Luc Besson, che pur essendo francese (ma di origine italiana) ha sempre voluto fare film emulando gli americani? Che è smanioso di non conformarsi alla massa? Non direi. Che ripudia il Cinema del suo paese? Non proprio: semplicemente, è il Cinema del suo paese a ripudiare Besson, che se in Italia non è di certo ben visto dalla critica, in Francia è giustamente e perennemente massacrato. E non è una questione patriottica, ma una questione artistica. Nikita, Lèon o Il quinto elemento erano buoni film, pensati e sviluppati al momento giusto, e perfino Giovanna d'Arco aveva i suoi momenti sopportabili, ma poi basta. Tuttavia questo rincoglionito reso celebre da un pubblico di capre ignoranti ha continuato a girare film interi come se fossero- parafrasando Morando Morandini -"lunghi spot della Mulino Bianco". E se The Lady (2011) era davvero ridicolo, questo nuovo Cose Nostre è proprio penoso, e oltre ogni misura.
Non limitandosi a unire due generi piuttosto lontani fra loro (gangster e commedia), Besson mira ad accostare le sue tre identità: quella francese (nell'ambientazione), quella italiana (nei protagonisti) e quella americana (nello stile e nella lingua, oltre che negli interpreti). La "famiglia Barilla" protagonista del film è quella italoamericana dei Manzoni: il pentito mafioso Giovanni (un De Niro al capolinea) si trasferisce con la moglie Maggie (Michelle Pfeiffer ridotta ormai ad uno scheletro di plastica e nicotina) e i figli (due insopportabili attori indegni perfino di un cameo ne Il mondo di Patti) in un paesino della Normandia. Lo sorvegliano l'agente CIA Stansfield (Tommy Lee Jones molto fuori forma) e un paio di assistenti mangioni e svogliati. Obbiettivi dei Manzoni: non dare nell'occhio, integrarsi nella nuova comunità e non farsi trovare dai clan smaniosi di vendetta. Per tentare di sedare la rabbia e la violenza che sono ormai parte integrante del suo istinto, Giovanni scrive le proprie memorie, mentre il figlio si macchia di reati di bullismo e corruzione a scuola, la figlia si fa sbattere da un giovane assistente di matematica e la moglie, in preda a raptus piromani perchè non trova il burro di arachidi, dà fuoco ai supermercati del paese. Ma tutto va bene, fino a quando...
Fino a quando la stupidità e la banalità della sceneggiatura non prendono definitivamente il sopravvento su tutto: Cose Nostre non funziona come commedia perchè non fa ridere, e non funziona come ganster-movie perchè gli manca un "tocco" che appartiene solo a gente come De Palma, Ferrara o Scorsese (produttore esecutivo del film). E, oltre al tocco, manca l'aspetto morale e contenutistico del gangster-movie classico: di fatti, De Niro, la Pfeiffer e i loro figli sono a tutti gli effetti dei criminali americani ignoranti, eppure il regista li tratta con la leggerezza che- senza badare al genere -si compete a qualunque famiglia di babbomammafigli. La dimensione della redenzione è assente, così come è assente qualunque giudizio sui personaggi, ridotti a macchiette copiate da altre pellicole. E mentre De Niro riguarda, squallidamente, se stesso in Quei bravi ragazzi, lo spettatore sano di mente pensa <<Solo questo gli è rimasto da fare: guardare se stesso quando faceva ancora grandi ruoli in grandi film>>. Un film sbagliato alla radice dal primo all'ultimo minuto.

lunedì 21 ottobre 2013

Pearl Jam, "Lightning Bolt" [Suggestioni uditive]

Pearl Jam,
Lightning Bolt (Universal, 2013)

★★★½















Ci sono poche, pochissime voci in grado di commuovermi veramente, e quella di Eddie Vedder c'è sempre riuscita benissimo: che fosse urlata e graffiante come negli anni di Ten o più pacata e profonda come nella colonna sonora (pubblicata come prima prova solista) di Into The Wild, la parola del leader dei Pearl Jam è sempre stata, per me, una sorta di "verbo divino". E nella musica dei Pearl Jam ho sempre ritrovato il brivido primordiale del rock, un'energia che è pervenuta alla band di Seattle tramite anche la benedizione di veri e propri miti della storia della musica (Bob Dylan, Neil Young, gli Who, ecc.). E così, i Pearl Jam, dall'essere una delle tante band inscrivibili nella rivoluzione grunge (Ten e Vs. ne sono una preziosa testimonianza) non solo ne sono divenuti gli ultimi paladini (il canto del cigno del genere è spesso accostato a Vitalogy, loro capolavoro assoluto), ma hanno anche potuto assurgere al rango di operai del rock, pubblicando moltissimo materiale in studio e live (si contano centinaia di bootleg ufficiali e compilation di b-side e rarità) e difendendo sempre la propria immagine di band che propone dischi di grande qualità. 
Il nuovo Lightning Bolt riconferma senza alcun dubbio tutte le qualità artistiche e tecniche dei Pearl Jam, a cominciare dalla voce di Vedder, che sembra tornato alle opere pre-Yeld per i momenti più rabbiosi del disco. Ed è proprio alla rabbia e alla velocità che sembra puntare questo gruppo di quasi cinquantenni  sopravvissuto brillantemente a vent'anni di brit-pop, indie rock, disney-music, nu-metal, emo-rock e altre puttanate: dal singolo punk Mind Your Manners (che con quel rullante sbarazzino ricorda i bei tempi di Richard Hell & The Voivods) all'hard rock grezzo e stradaiolo di My Father's Son, i pezzi più duri dell'album si dimostrano come i più completi e i più riusciti. E anche le classiche "accellerazioni" in stile Who sono spettacolari: basta ascoltare Swallowed Whole o la superba title-track (che ricorda un po' anche gli amici R.E.M.) per rendersi conto che i Pearl Jam sono vivi e cavalcano ancora. Molto gradito anche il flirt col blues in tracce come Yellow Moon o Let The Record Play, che conferiscono ad un paio di momenti dell'album una sonorità spettacolare anche se temo che non verranno molto apprezzate dai fan della prima ora, quelli che avevano speso pessime parole su Backspacer (2009), il miglior disco prodotto dalla band negli anni Duemila. 
Purtroppo- Sirens a parte -i punti più deboli del disco stavolta sono le ballate e i pezzi country: dal presunto scarto solista vedderiano Sleeping By Myself alla misteriosa e dark Pendulum (che nelle sue percussioni nascoste vorrebbe ricordare la Patti Smith anni '90 senza però riuscirci), i Pearl Jam più rilassati e tranquilli mal si sposano con gli intenti del loro nuovo album, un disco "incazzato" ma non per questo cupo. Infatti, la chiusura del disco Future Days è un lento acustico dove Vedder canta le difficoltà del presente ma auspica anche un futuro radioso. Per sè, e forse un po' anche per noi.

sabato 19 ottobre 2013

"Dead In Tombstone" DVD e/o Blu-Ray [Album]

Non so come mai, ma quando si parla di western divento subito onnivoro.
A parte gli scherzi, so bene il perchè: dalla culla ad oggi, non ho mai evitato alcun film western. Belli, brutti, famosi, sconosciuti o dimenticati, li ho sempre guardati tutti, dal primo all'ultimo. Amo il genere, sono cresciuto con i capolavori di John Ford e Howard Hawks e alle scuole medie ho incontrato Sergio Leone e gli spaghetti western. Così, non potevo farmi mancare il filmaccio direct-to-video Dead In Tombstone, firmato dall'olandese Roel Reiné (chi ha visto opere immonde come il secondo e il terzo capitolo della saga Death Race o pellicole ancora più scadenti tipo Il Re Scorpione 3- La battaglia finale forse lo ricorderà con scarso piacere), interpretato da Danny Trejo e Mickey Rourke e disponibile da poco sia in DVD che in Blu-Ray.
La trama non presenta grosse difficoltà di comprensione: Lucifero (un Rourke spettacolare) si vede arrivare all'inferno il fuorilegge Guerrero (Trejo), che promette al padrone di casa le sei anime dei membri della sua vecchia banda che lo hanno tradito e ucciso. Così, ad un anno da quel brutale assassinio, Guerrero tornerà sulla terra e in un giorno dovrà uccidere tutti e sei i propri carnefici, vendicarsi e riuscire così a saziare la sete di sangue del diavolo. Da principio, lo aiuteranno un prete alcoolizzato e una bella pistolera vendicatrice (Dina Meyer, attrice dimenticata ma alla quale sono affezionato per un paio di sue interpretazioni in pellicole degli anni novanta), ai quali si aggiungeranno i minatori di Tombstone e altri comuni cittadini. 
Il film è costato cinque milioni ed è stato girato in Romania (buona parte del cast è infatti originaria di quelle parti), ma Reiné è abituato a girare pellicole a basso costo e con pochi mezzi: e in effetti, si respira quell'aria di "artigianato" scadente che solo un certo cinema riesce ancora a regalare. E pur avendo degli ottimi momenti (l'arrivo al saloon e la sequenza praticamente horror della stalla), il film soffre veramente tanto dell'assenza di un apparato tecnico decente (per risparmiare, Reiné è anche direttore della fotografia): gli effetti computerizzati sono ridicoli e la fotografia non lascia "tregua", con dolly completamente casuali e telecamere che vorticano a 360° anche quando i personaggi sono fermi, immobili al centro della stanza per parlare della cottura dei fagioli. Il bello del cinema povero d'autore è che dovrebbe mettere alla prova l'estro creativo di un regista, ma Reiné sembra possederne ben poco, così come è del tutto assente il coraggio di sbizzarrirsi con la fantasia. Dead In Tombstone vorrebbe prendersi sul serio, con dialoghi melensi che sembrano brutte copie del peggiore Kevin Costner e una risoluzione veramente campata per aria. E per quanto si sforzi di far tornare in mente allo spettatore le atmosfere western-gotic di un capolavoro come I quattro dell'Apocalisse, finisce col fallire miseramente anche sul piano del rimando e dell'omaggio. 
Perciò, in sintesi: a chi consiglio Dead In Tombstone? A tre categorie di persone:
1) A quelli che <<Basta sia un western!>> (tipo me).
2) A quelli che <<Basta sia Danny Trejo!>>.
3) A quelli che vogliono farsi tre, quattro risate fra amici.
E io, da parte mia, lo riguarderò? Certo che sì. L'ho visto e lo riguarderò per cinque validi motivi:
1) E' un western.
2) Danny Trejo si riconferma come uno dei più grandi attori viventi.
3) Le pistole a tre canne ma a dodici colpi (non a diciotto) sono da antologia.
4) Bella colonna sonora.
5) Mickey Rourke che alla fine, in chiesa, beve l'acqua santa e la risputa vale comunque il prezzo del DVD.

venerdì 18 ottobre 2013

Lasciar perdere per un attimo "The Grand Budapest Hotel" e pensare a "Djinn" [Scosse]


Negli scorsi tre giorni si è parlato molto del teaser e della locandina (stranamente priva della consueta "foto di famiglia") di The Grand Budapest Hotel di Wes Anderson. Uscirà il 7 marzo 2014 e vedrà l'ovvia partecipazione del grande cast di grido (ai soliti Murray e Wilson e si aggiungeranno Ralph Fiennes, F. Murray Abraham, Adrian Brody, Willem Defoe, Jude Law e Jeff Goldblum), oltre all'ennessima collaborazione con Robert Yeoman, direttore della fotografia di tutti i film di Anderson.
Ma non parlerò dell'ultima opera di Wes Anderson: lascio questo compito ai suoi più affezionati "fan", pronti a inneggiare al capolavoro ogni volta che appaiono un paio di occhiali dalla montatura spessa. Preferisco scrivere due righe sull'ultima fatica (perchè di fatica si tratta) di Tobe Hooper, il cui teaser definitivo è stato messo in rete nelle stesse ore di quello di The Grand Budapest Hotel
Djinn è una "fatica" perchè, come tutti gli ultimi film di Hooper, è stato difficile da realizzare.
E' una fatica perchè, coi tempi che corrono, è dura realizzare un buon horror con 5 milioni di dollari.
E' una fatica perchè Hooper, venendo da anni di buone (talvolta ottime) pellicole passate letteralmente inosservate da pubblico e critica, è stato costretto ad affidarsi al "migliore offerente": in questo caso, l'araba Image Nation.
E' una fatica perchè essendo il budget totalmente arabo, anche il soggetto è diventato totalmente arabo: la trama della coppietta di sposini borghesi che si trasferisce nel nuovo nido d'amore infestato dal demone djinn poteva essere ambientata nel New England, e invece si svolge a Ras-al-Khaimah e il cast, la lingua del copione e l'ambientazione sono state corrette e riviste da Hooper in pochi mesi.
E' una fatica perchè il film era già pronto a fine 2011, ma Hooper è Hooper e Hooper è uno scomodo rivoluzionario anche negli Emirati Arabi, i cui uffici di censura hanno bollato da subito il film come "politically sovversive". 
E' una fatica perchè a Djinn, nei festival medio-orientali, hanno organizzato premiere da tappeto rosso, mentre noi si pensa a finanziare i nuovi Paranormal Activity e a spendere soldi per distribuire i cortometraggi del Sundance Festival. 
E' una fatica perchè chi ha fatto la storia del cinema come Hooper ed è un maestro del suo genere, ormai non lavora più e gli è stato tolto tutto, dai soldi alla gloria; e i nuovi maestri sembrano essere questi accademici trentenni occhialuti, che hanno rubato idee a tutti ma non lo dicono, che vogliono fare la rivoluzione girando spot per Prada e Chanel, che vogliono dare spazio ai più giovani senza preoccuparsi della talentuosità di quest'ultimi.
Non ho niente contro Wes Anderson, mi piacciono tanto quasi tutti i suoi film e considero I Tenenbaum un vero capolavoro; andrò a vedere The Grand Budapest Hotel e magari mi piacerà da impazzire. Tuttavia, prendere atto di una determinata realtà artistica mi rende triste, e mi piacerebbe vivere in un mondo dove Wes Anderson fa un film in meno e Tobe Hooper un paio in più.

martedì 15 ottobre 2013

Downward Design Research, "HusH" [Suggestioni uditive]

Downward Design Research
HusH (unreleased, 2012) 
★★★★

















Net-Label: termine che sta alla musica esattamente come e-book sta alla letteratura. 
Sono pochi, pochissimi gli scrittori- famosi ed esordienti -disposti ad una pubblicazione esclusivamente online; e lo stesso si può dire dei musicisti. Per molti diventa un problema, a lungo andare, il rendere fruibile la propria opera solo su Soundcloud, MySpace e su un'altra miriade di siti, web-radio o e-store: e tutti si fanno prendere dalla smania della pubblicazione su cd (o vinile). Ecco, ai fiorentini Downward Design Research tutto questo non interessa: infatti, pur essendo attivi dal 2004, non pretendono di pubblicare il loro quinto album (HusH) su disco, e lo rendono ascoltabile direttamente sul sito.
Mentre i bassi analogici del pezzo di apertura Gridlock rimbombano nelle mie cuffie, mi concentro sul nome del gruppo (un quintetto, per l'esattezza): D.D.R. è, non tanto a caso, l'acronimo della Deutsche Demokratische Republik, un mondo affascinante scomparso nel volgere di ventiquattro ore, un universo (anche artistico) che ha sempre mostrato un fascino non privo di ambiguità (ad esempio, l'uso del rosso e del nero, elementi di due scuole di pensiero che si compenetrano e si fondono non tanto in senso politico, quanto in quello di immaginario collettivo). E anche se oggi tutti lo negano- perchè amiamo sentirci raccontare che all'Ovest c'erano i buoni e all'Est i cattivi -, la D.D.R. è stata lo scenario di una serie di avvenimenti artistici che hanno sicuramente influenzato la musica che sarebbe venuta,  e di conseguenza anche i Downward Design Research. Come la vecchia repubblica democratica tedesca, anche un pezzo quale Negative Feddback richiama ad un'estetica industriale morta e ad quell'orizzonte culturale definitivamente tramontato e celebrato anche da artisti post-Kraftwerk (penso ai Tangerine Dream, ai Depeche Mode e agli Ultravox). E come per i brani d'esordio di questi autori, in tutto HusH non è udibile neanche un glitch digitale: l'analogico regna sovrano, è non per far suonare la musica dei Downward Design Research come un qualcosa di vintage o di usurato, ma per specifica finalità artistica. Parte la lunga Torino e chiudo gli occhi: vedo tastiere con inserti di legno, manopole con sotto la decalcomania dell'onda quadra e cursori. Nè dal vivo, nè tantomeno in studio (salvo per le rifiniture), il gruppo utilizza una strumentazione digitale, tant'è che alcuni membri stanno lavorando ad un Manifesto della musica elettronica senza computer, dove forniscono consigli utili a chi vuole fare musica in maniera analoga e su quali strumenti usare e dove trovarli. 
Inutile dirlo, ma l'immaginario da periferia di Berlino-Est che suscita questa musica poco si addice alle visioni rinascimentali che i D.D.R. hanno negli occhi vivendo a Firenze, una città ormai lontana sia dall'indipendenza R&R degli anni Ottanta che dai fasti dell'elettronica degli ultimi anni: i locali ci sono, gli artisti vengono, ma è sempre più difficile- anche per chi organizza eventi -lavorare. Per quanto rimanga uno dei pochi focolai underground del centro-Italia, la tendenza si sposta ormai verso quella della città dormitorio, nel cui centro si fa abbassare il volume degli hi-fi (ma non dei televisori) e si fanno chiudere i locali dove si balla e dove c'è un palco, lasciando spazio solo a squallidi abbeveratoi alcoolici (che pure devono chiudere a una cert'ora). Così, non rimane che lasciarsi trascinare dai flussi sonori della splendida e conclusiva Vio, che ci permette di vivere quasi in soggettiva una lunga avventura fra ingranaggi industriali e architetture in stile Bauhaus, alla ricerca di quel nuovo rinascimento tanto auspicato quanto mai realizzato. 

lunedì 14 ottobre 2013

[Recensione] Oltre i confini del male- Insidious 2

James Wan...
Ma chi cazzo si crede di essere James Wan?
La sua carriera è spiegabile in poche righe: malesiano, classe 1977, approda al cinema ventiquattrenne con Saw. Botto planetario e sei sequel per questa buona pellicola che davvero ha lanciato un sotto-genere (il torture horror) dando anche qualche frutto. Ma dopo aver messo in pratica le due, tre idee alla base della saga dell'Enigmista, questo tizio cosa ha fatto? Ha fatto troiai, ha girato film orribili e prodotto film peggiori. Nel 2007, fra Dead Silence e Death Sentence non si sapeva bene quale facesse meno schifo, e così col successivo Insidious, realizzato con pochi spiccioli, poche idee e nessun apporto tecnico decente: tuttavia, Wan definì la sua immonda creatura "un film argentiano". Per me, era merda.
E dopo aver funestato gli spettatori ad agosto-settembre con The Conjuring (che non ho visto e su cui dunque non mi pronuncio), fa nuovamente capolino in sala con Oltre i confini del male-Insidious 2 (non è il remake cinese di Oltre i confini del mare disneyano) , che è pure peggio del primo, nonostante abbia avuto carta bianca sulla sceneggiatura (e si vede, visto che non ha nè capo nè coda) e un budget alto perfino per Christopher Nolan. Ma Wan non è Nolan, e soprattutto non è uno dei maestri dell'horror da cui ha spudoratamente copiato (male) intere sequenze e idee: e per me non c'è niente di più disprezzabile di un regista incapace che ruba le idee ad autori che hanno veramente segnato la storia del cinema, non a gente che produce filmetti dove una stronza velata gioca con una famiglia di mentecatti. Tuttavia, in Saw, Wan dimostrava di saper dare fastidio allo spettatore: effetti realistici e un montaggio serrato rendevano il film sgradevole, il che non era poco. Invece, Insidious 2 non ha neanche per mezzo minuto il coraggio di essere horror, di fare paura, e ancora meno di fare schifo. Io capisco che molta gente dell'età mia pretende molto poco da questo genere di film, ma io entro ancora in sala con l'intenzione di vedere un film in grado di farmi saltare sulla sedia. Con Saw non si saltava, non c'era il colpo di scena alla Raimi, però giocava con altre paure dello spettatore e puntava molto sulla debolezza di stomaco; con questo schifo di sequel di Insidious non si salta, non si vomita e ci si schifa solo per la pessima fattura con cui il film è confezionato.
Ma il problema rimane il seguente: in un paese come il nostro- dove i film, al di là di molte lamentele e clamorose eccezioni, arrivano -in un mese e mezzo sono stati distribuiti DUE film di James Wan. E questo succede in un momento dove l'horror rischia di tornare a quella triste metà degli anni Novanta (dove l'unico capolavoro era Scream, tanto per darvi un'idea) e dove i grandi autori (salvo rare eccezioni) non riescono a lavorare perchè non hanno i soldi. Stendo un velo pietoso, oltre a sconsigliare vivamente questo mediocre film horror.

venerdì 11 ottobre 2013

[Recensione] Gravity

George Clooney e Sandra Bullock stanno mettendo a posto Hubble il telescopio quando una pioggia di detriti spaziali arriva ad ostacolarli. La loro missione sarà sopravvivere, trovare salvezza in una base spaziale e tornare sulla terra. Fine.
C'è bisogno di altro?
Per qualcuno può darsi, ma per me no. Non ho staccato gli occhi dallo schermo, neanche per un istante per vedere ogni fotogramma di Gravity, un film che incanta, ipnotizza, inquieta, meraviglia. Una pellicola che, per quanto mi riguarda, poteva anche non parlare di nulla: la trama è un inutile aggiuntivo, in questo caso. Conta l'immagine: non dimentichiamo che la qualità di un'opera cinematografica è relativa a come questa viene realizzata. Quindi, chi se ne frega dei dialoghi in Gravity? Chi si lamenta della recitazione della Bullock può consolarsi andando a scorrere la lista dei nomi delle attrici candidate al ruolo prima di lei (una quindicina di nomi molto noti ma meno coraggiosi). Chi si lamenta del fatto che tutto il film è interpretato da due soli attori, può continuare a guardare Armageddon, visto che- sfruttando un noto proverbio delle mie parti -"la biada unn'è pe'ciuchi!". 
Scrivo questo perchè, in un mondo dove siamo bombardati da immagini che ci scivolano addosso senza lasciarci dentro niente, l'impatto "sensoriale" con un'opera come Gravity è a dir poco devastante: sembra di roteare insieme agli astronauti per minuti in quegli interminabili piani sequenza, siamo terrorizzati come loro dall'ignoto, da quell'abisso siderale dove il rischio di finire la propria esistenza è alto. E a ben poco servono i santini di americani, russi e cinesi in uno spazio dove di Dio e del Paradiso non sembra esserci traccia: per Cuaròn, l'uomo era concime per fiori sulla terra (I figli degli uomini, altro film incredibile), e lo è anche nello spazio.
Il regista messicano ci ha messo sette anni (colpa anche di produttori che non si fidavano a spendere ottanta milioni in un film che- fatta eccezione per gli ultimi quindici minuti -è l'antitesi del blockbuster), ma ha firmato il suo capolavoro, oltre ad averci regalato uno dei migliori space-movies di sempre (lo affiancherei più al superbo Moon di Jones che al Solaris di Tarkovskij, come hanno fatto alcuni). Poteva venire peggio? Poteva venire meglio? La risposta è sempre la stessa: ci provino i detrattori a fare di meglio con una sceneggiatura simile in mano e due soli attori. E se proprio riusciranno ad aggiungere qualcosa alla trama senza pensare a che effetto fanno le lacrime di un essere umano a gravità 0, allora non avranno capito che cos'è veramente il Cinema.

giovedì 10 ottobre 2013

Basta con le cazzate! [Ombre elettriche]

Il 13 ottobre arriverà la quarta stagione di The Walking Dead. Nulla di eccitante per chi, al contrario di me, aspetta con ansia le nuove puntate di serie televisive: persone fortunate, persone che hanno pazienza, persone che al cinema si addormentano perchè un film dura troppo, persone che da una parte ammiro e che, dalla parte opposta, non capisco. Ad esempio, sono queste le persone con cui provi a scambiare due parole e che, con aria sollevata, ti dicono: <<Vabbè, guarda che ormai le serie televisive sono pari se non superiori ai film fatti per il cinema...>>. Una frase apparentemente innocua, che però nasconde sub-significati socio-artistici inquietanti: il primo, è che queste persone non vedevano l'ora che la televisione divenisse un qualcosa in grado di competere col cinema, che- al contrario della tv -"costa" e comporta uno spostamento fisico dall'ambiente del salotto (nei casi più estremi, dalla camera da letto) al mondo esterno. In secondo luogo, seguire e amare una certa serie televisiva regala un senso di appartenenza al branco che nessun cineforum potrà mai regalare: quante volte, nel corso di una cena, quattro o cinque commensali si cambiano battute e sguardi d'intesa citando quel personaggio di quel telefilm?
Promo di The Walking Dead 4
Con questo non voglio fare il solito discorsetto retorico sulla tv e i teledipendenti: sono il primo a interessarmi alle trame e ai cast delle serie più popolari e a tempestare di domande chi le segue; inoltre, mi è capitato di vedere puntate, stagioni complete e, in casi estremi, serie complete. Ed è proprio perchè fra di esse si annovera la prima stagione di The Walking Dead che considero spazzatura quanto ho letto in questo articolo stamattina. E' un buon telefilm: girato bene e interpretato discretamente quanto volete, ma è soltanto un telefilm. E proprio perchè è soltanto un telefilm, è inutile che chi scrive certa robaccia tiri fuori definizioni tipo "eredità spirituale dei film di Romero", perchè neanche deve pensarci a Romero. The Walking Dead può rubare le idee (filmiche, non politiche, perchè la televisione la devono vedere tutti, eh!) di Romero quanto vuole, ma non per questo deve diventarne una sorta di sequel, di approfondimento.
The Walking Dead
Inoltre, l'autore dell'articolo riconferma la propria inesistente conoscenza della realtà dei fatti con la seguente frase, che riporto letteralmente: 

"Per taluni potrebbe risultare azzardato l'accostamento di una pellicola cult con una "commerciale" serie Tv, tuttavia tutte le altre produzioni cinematografiche, che si sono susseguite negli ultimi trentacinque anni, con la pretesa di essere un seguito del capolavoro di Romero, si sono dimostrate dei fiaschi assoluti. Veri e propri horror-splatter senza uno straccio d'anima, con l'unico obiettivo di incassare al botteghino; cavalcando l'onda lunga."

George A. Romero
Evidentemente non ha mai visto tanti altri capolavori come Zombi 2 di Fulci, Re-Animator di Gordon, Il serpente e l'arcobaleno di Craven, la saga de Il ritorno dei morti viventi o anche perle recenti tipo The Horde: e non conosce questi film perchè forse era troppo impegnato a stare in casa a guardare qualche serie televisiva. Eppure scrive di televisione, fa accostamenti irrispettosi, comunica la propria ignoranza al mondo, e il tutto ai fini di celebrare soltanto una serie televisiva. 
Ed è per questo che il 13 ottobre, mentre andrà in onda il primo episodio della quarta stagione di The Walking Dead, noleggerò una sala di proiezione e manderò solo ed esclusivamente film di zombie. Così, tanto per dire al mondo <<Basta con le cazzate!>>.

lunedì 7 ottobre 2013

Gita fuori porta, fuori tempo, fuori tutto [Extra]

Ai primi di ottobre posso prendermi anche un po' di vacanza. 
Così, a metà pomeriggio di una domenica piuttosto monotona, decido all'improvviso di partire. Come bagaglio ho solo un'audiocassetta e una borraccia d'acqua. La borraccia proviene dalle giacenze scontate del magazzino di Decathlon; la cassetta è Gods Of War (2007) dei Manowar, un gruppo tanto tamarro quanto raffinato nella tecnica e nelle scelte.
Decido di dirigermi verso la Montagnola, imboccando la vecchia provinciale 541 che va verso sud, in direzione Grosseto, fino al bivio del ponte di Santa Giulia, che delimita- per me come per moltissimi altri- il limes dell'impero romano dalle contrade dei barbari. Ma non supererò il ponte e non andrò al mare, come fanno tutti quelli che, con una temperatura superiore ai 18 gradi, caricano secchiello e paletta e partono infischiandosene della crisi, dei rincari del carburante e della loro amata cittadina "dove però nessuno fa mai niente".
La strada è deserta e forse anche gli immediati dintorni e tutto il resto della pianura, dei boschi e delle colline che mi circondano sono vuoti allo stesso modo. Una realtà che rispecchia fedelmente l'idea di Paese che viene diffusa ogni giorno da Studio Aperto, secondo il quale, dai primi tepori di aprile ai caldi tardivi di ottobre, l'Italia si riversa tutta sulle coste, dove si abbronza per sette mesi all'anno in attesa di apparire nei servizi che il telegiornale di Italia 1 dedica quotidianamente alle spiagge. Prima del berlusconismo e di Mediaset si sapeva che certe cose esistevano, ma almeno non eravamo costretti a vedercele proporre da stupidi notiziari tramite rubriche recanti titoli tipo Costume&Società poi importate anche in RAI (tanto per non farsi mancare nulla). Stando a quanto dicono questi tg, pare che nell'entroterra restino soltanto una decina di vecchiette che si disidratano in casa, abbandonate dai figli degeneri (gli stessi che vengono postati su Facebook mentre giocano a racchettoni), più qualche presunto assassino che serve ad animare il giallo dell'estate, approfondito nel terzo servizio, completo di intervista al criminologo. Resto anche io, ma non faccio notizia.
Subito prima del ponte, svolto a sinistra, e subito dopo a destra, andando ad imboccare la strada dei laghi di Scorgiano. Ed è mentre percorro a velocità contenuta questo tratto che resto incantato da una visione incredibile. Un enorme capannone incute timore con le sue sagome grigie, i cartelli perimetrali che impongono di non accedere a meno che non si sia autorizzati: e in una giornata come questa la struttura assume un fascino spaziale.  Un grigiore opprimente spezzato dai colori vivaci delle opere di qualche graffitaro. E in auto c'è la musica dei Manowar e del loro disco dedicato a Odino. I  Manowar sono un po' come la mia microvacanza pomeridiana: non si sa dove ti porteranno. Dopo la semplicità quasi banale di Louder Than Hell (Geffen, 1996) e il controverso Warriors Of The World (Nuclear Blast, 2002) non ci si sarebbe mai aspettati questa esplorazione nel mondo della mitologia nordica, un universo già inesorabilmente sfruttato, nel primo decennio del nuovo millennio, dal cinema, dalla cattiva letteratura e dal fumetto. E' una musica, quella di Gods Of War, totalmente antimoderna che pare comunque adattarsi perfettamente a una visione estranea come quella del capannone illuminato che non viene lasciato in pace. Una musica che suona ancora più vecchia se si pensa che in quello stesso anno gli White Stripes di Icky Thumb proposero la loro formula definitiva di blues-rock futurista, i Radiohead di In Rainbow elessero il web come canale di vendita a offerta libera per un loro album, che gli Air si divertirono a scrivere una raccolta di serenate fra un frullatore e una lavatrice (Pocket Symphony) e che, più in generale, buona parte della scena musicale sembrò presentare le ultime idee in grado di guardare al Futuro. Dall'anno seguente, invece, sarebbe esplosa la mania del retrò, del vintage, dell'omaggio e della parata di culo, e nessuno ci avrebbe più capito nulla. 
Ad ogni modo, erano pochi, nel 2007, a compiere scelte contrarie alla moda, e i Manowar erano fra questi. E vorrei esserlo anche io, ma ogni volta ripenso a quello che mi dicono i benpensanti, o i bigotti, o come preferite chiamarli: che avrei fatto meglio a interessarmi alle cose serie (tr. "compiere un percorso di studi che porta a fare un lavoro magari insulso ma pienamente accettato dalla società") o trovare un lavoro fisso con le ferie pagate.  Allora, con ingombranti sensi di colpa, arrivo fino ad un bar-alimentari-tabacchi-articoli-da-regalo, una di quelle "soste" costruite sulla e per la strada (un Autogrill di provincia, solo più bello, genuino, romantico ed economico). Mi fermo, entro e mi fingo interessato a compilation con i tormentoni estivi usati negli spot delle società telefoniche quattro anni fa, alle guide turistiche e a menù mediterannei che sotto questo cielo nero fanno anche un po' ridere. 
Mi torna in mente la cassettina dei Manowar del 2007, e penso che proprio in quell'anno funesto contrassi il debito in scienze naturali; e fu proprio durante un ripasso per rimediare a quell'onta disonorevole che studiai i retrovirus, cioè quei virus che penetrano negli organismi di particolari specie animali e li infettano senza essere combattuti dal sistema immunitario perchè hanno la capacità di integrarsi nel genoma di quella stessa specie. Come se si travestissero da cellulare normali e invece sono lì a fare danni. 
Così, alle 17:30 di una piovosa domenica di inizio ottobre, cambio le sovraccoperte a cinque, sei bestseller, muto d'ordine ai cd e metto, senza farmi notare, una malriuscita imitazione di Sbrodolina nel banco frigo accanto ai salumi locali. 
Anch'io, nel mio piccolo sono un retrovirus.



domenica 6 ottobre 2013

La corazzata Potiomkin è una cagata pazzesca! [Extra]


Selezionare, di settimana in settimana, film da proiettare in un cineforum di partito è quanto di più difficile e allo stesso tempo divertente possa esserci: sta tutto nello scegliere il film giusto, quello che piace a me ma che è dotato di qualità formali e contenutistiche in grado di conquistare anche il pubblico; quello su cui il presentatore ha molto da dire e che lascia spazio, al termine della proiezione, ad un prosperoso dibattito. Me ne rendo conto da più di un mese, così come mi accorgo che il cinema politico che tutti si aspettano e che tutti vorrebbero vedere non solo non è sufficientemente apprezzato dal sottoscritto, ma è  anche comodamente bramato da un pubblico le cui grandi sicurezze culturali sono rappresentate esclusivamente da un certo tipo di opere. Mi domando però quanti fra coloro che hanno duramente criticato la mia prima scelta (Essi vivono) abbiano realmente visto La corazzata Potëmkin, che- oltre ad essere un capolavoro della storia del cinema -è un vero e proprio esempio di quella propaganda che molti sembrano rimpiangere. E dal momento in cui questo autunno parrebbe essere iniziato all'insegna della cultura russa, ho stilato lunghe liste di verbi perfettivi e mi sono rivisto anch'io due film di Serjei M. Ejzenstein: Aleksandr Nevskij e La corazzata Potëmkin. Preferisco di sicuro il primo, di cui apprezzo i particolari architettonici geometrici di molte inquadrature e la splendida colonna sonora di Prokoviev (per i fan di Benigni, quello di Pierino e il lupo). Però vi parlerò del secondo, ossia del film più citato e meno visto della Storia del Cinema. 

La trama è così riassumibile: ai marinai della Potëmkin viene dato cibo pieno di vermi, ma un ipocrita medico di bordo ne dimostra invece la mangiabilità. I rivoltosi sono condannati a morte, ma il plotone non spara. Scatta la rivolta, i marinai prendono il comando della corazzata e gettano in mare il medico. Poi, arrivati a Odessa, i marinai trovano la solidarietà della popolazione che saluta la corrazzata dalla imponente scalinata, ma ecco i cattivi cosacchi dello zar che sui gradini sterminano la folla inerme a fucilate. Finale propagandistico con i soldati zaristi che seguono i marinai verso la Rivoluzione. La storia prende spunto da fatti veri e la scena del massacro cosacco è diventata talmente famosa che, benché l’eccidio non sia avvenuto lì, quel luogo è chiamato Scalinata Potëmkin. 
Recentemente, un ex-compagno di studi e amico, pubblicava su Facebook un post in cui affermava di avere finalmente visto questo film, elogiandone la bellezza e conferendogli il voto di quattro stellette su cinque. E anche lui, al pari mio e di innumerevoli altri italiani, non deve ringraziare nè studi universitari di Estetica Cinematografica, nè tantomeno qualche circolo giovanile culturale di estrema sinistra (in cui di Ejzenstein ormai non si conosce più neanche il nome) per la conoscenza di questo film: il merito è tutto di Luciano Salce, l’uomo che ha diretto i primi due film su Fantozzi, rifiutandosi di andare oltre per non finire in una spirale come quella di Maciste. L’uomo e il grande regista che, non potendo usare le immagini originali del film di Ejzenstejn, ha rigirato le stesse scene anticandole, mutando anche nomi e titoli. Villaggio grida: <<La Corazzata Potiomkin è una cagata pazzesca>> e si prende novantadue minuti di applausi da parte di un popolo che trova noioso il cinema d’essai. Ma, in un angolo, Salce ridacchia e ricostruisce la stessa struttura della Corazzata, aggiornandola: il popolo, ovvero i colleghi, prende le parti del ragioniere e si unisce alla rivolta, almeno fino all’arrivo dei cosacchi, cioè la dirigenza della megaditta. Ecco perché Salce se la ride: perché ha creato un parallelo con le vicende della Potëmkin che di sicuro è sfuggito a chi non ha mai visto il film. Chi non conosce l’originale si perde anche l’esperienza deliziosa che è il continuo confronto tra le scene del film russo e quelle del film fittizio che gli impiegati interpretano per punizione tutti i sabato pomeriggio. Non manca nulla: dall’occhio della madre alla carrozzella con il povero bambino, dalla vecchia (il fantastico Gigi Reder) con gli occhiali rotti da una sciabolata agli stivali dei soldati, fino al giovinetto che muore calpestato. L’estenuante caduta di Anna Mazzamauro, madre colpita a morte cui sfugge la carrozzella, non è un gigionismo, ma la citazione di certe scene che Ejzenstejn ripeteva due volte nel film  per enfatizzarne la drammaticità. Non riesco a immaginare quanto si sarà divertito Salce a filmare questi momenti, ma una cosa è certa:   almeno il doppio di quanto fanno coloro che non conoscono l’originale e ridono di fronte a questa scena, godendo solo dei travestimenti, delle umiliazioni subite dai protagonisti e dai capitomboli del povero ragionier Ugo, camuffato da lattante.
E così, in questa mattinata domenicale, a due giorni dalla mia prossima presentazione (Punto Zero di Sarafian sarà proiettato martedi alle 21:15), mi ritrovo a essere combattuto e a non sapere se far vedere, a tradimento e senza dire niente a nessuno, La corazzata Potëmkin. Scommetto che per molti autentici rivoluzionari sarebbe la prima volta.

venerdì 4 ottobre 2013

[Recensione] The Bling Ring

Esistono grandi registi che fanno un grande cinema e grandi registi che fanno un piccolo cinema. Questa è la differenza che intercorre fra Francis Ford Coppola e sua figlia Sofia: il primo, se anche è a descrivere una semplice quarantenne casalinga in vista di divorzio (mi viene in mente Peggy Sue si è sposata) gira ogni scena come se dovesse essere l'ultima della sua carriera; la seconda affronta anche temi di portata storica (Marie Antoinette) "sminuendoli"- nel senso buono- e calandoli in quell'atmosfera naif che tanto l'ha resa celebre e amata da noi bongustai europei. La verità è che- figlia o non figlia di un gigante -Sofia Coppola è brava: si può parlare per ore del suo "valore", della sua "autorialità" e della sua "onestà", ma, a conti fatti, lei sa girare un film, realizza ciò che le piace e concretizza solo i progetti in cui crede. E nonostante sia stata fatta preda- come Anderson o, a suo tempo, Jarmusch -di un determinato tipo di critica e pubblico, riesce a non considerare le proprie opere come un "prodotto pensato per..." e a dirigere film con una certa libertà. 
E così, fresca del Leone d'Oro di tre anni fa (ottenuto con lo splendido Somewhere), gira il suo film più polemico, incazzato e realista: se le sue vergini suicide (mi riferisco al bell'esordio Il giardino delle vergini suicide) erano divinità giovanili che si trovavano per sbaglio sulla terra, e se Chloe (suo alter-ego in Somewhere) era l'eroina che simboleggiava la speranza per il protagonista famoso, depresso e annoiato Johnny Marco, stavolta i giovani sono rubbish, merda, spazzatura, roba da buttare senza neanche essere riciclata. Neo-maggiorenni benestanti che rincorrono il sogno dell'apparenza assoluta, dell'edonismo sfrenato e che non trovano pace, se non quando delinquono, svaligiando le ville dei loro miti e sforzandosi di emulare lo stile di vita che tutti vorrebbero condurre. Lo stesso lifestyle portato avanti da star dello spettacolo che si rivelano essere autentiche imbecilli: fra automobili lasciate aperte, mazzi di chiavi sotto lo zerbino e sistemi di allarme disattivati, i miti dello spettacolo che la Coppola conosce bene (ci è nata e cresciuta in mezzo) assurgono al rango di stupidi riccastri che non hanno cura di ciò che posseggono. Tuttavia, quello che si tiene a giro per le Hills di Los Angeles (bellissime e magistralmente fotografate da Harris Savides) non deve essere letto come un esproprio proletario: infatti, Nicki (una grande Watson, che dopo Noi siamo infinito dimostra più che mai di avere appeso gli abiti da streghetta antipatica al chiodo), Rebecca, Marc, Chloe (la bellissima Claire Julien è figlia del direttore della fotografia Wally Pfister, storico collaboratore di Nolan) e i loro accoliti sono solo personaggi ignoranti, superficiali, giovani figli del (troppo) benessere incapaci di provare anche i più basilari stati d'animo. Ed è questa assenza del sentimento- quel sentimento da sempre nucleo del cinema della Coppola -a rendere The Bling Ring un film unico e inaspettato (come fanno alcuni a parlare del "classico film à la Coppola" proprio non lo so), dove non ci sono buoni, ma solo cattivi, dove non c'è amore, ma solo opportunismo, dove non c'è sostanza, ma solo apparenza. Il dito della Coppola non viene puntato tanto sul lusso sfrenato, quanto su chi vi ambisce. Il finale tragico e, al contempo, amaremente ironico (l'intervista finale a Nicki è traducibile in un <<Siamo una generazione di merda, ma tanto vinciamo noi! Il futuro è della superficialità!>>) è di un illuminante realismo e decreta la conclusione di una lezione sulla società dei costumi da tenere di conto anche oltreoceano. 

giovedì 3 ottobre 2013

Aspettando "Jurassic World", ovvero come imparai a non preoccuparmi e ad accettare la dinomania [Ombre elettriche]

PREMESSA

Abbiate pazienza, ma se c'è un fattore che contraddistingue da sempre le "produzioni" Double "B" è proprio l'imprevedibilità: e così, dopo quattro mesi di assoluto silenzio (dettato più dal raccoglimento di idee e materiale per nuovi appuntamenti che dall'otium), rifacciamo capolino nella rubrica "Ombre elettriche" per affrontare quella che più che una passione è un vero e proprio morbo, almeno nel nostro caso: la dinomania.
La dinomania (o sauromania, secondo una dicitura alternativa) è un termine mirato a designare quello stato mentale allucinatorio che ci convince della attuale esistenza dei dinosauri. Uno dei dinomani più famosi è sicuramente Steven Spielberg, da sempre impegnato nello scrivere, produrre e (anche se in soli due casi) dirigere film sui dinosauri. Ed è infatti partendo dall'anteprima della prossima produzione del franchise di Jurassic Park (il film si intitolerà Jurassic World e uscirà nell'estate del 2015 per la regia di Colin Trevorrow) che abbiamo voluto parlare del cinema di dinosauri, delle sue origini (antiche quasi quanto il cinema stesso), del suo sviluppo e delle migliori e peggiore opere inscrivibili in questo particolare genere. 
E quale modo migliore per farlo di due belle classifiche?

TOP 10 GIURASSICA


1- JURASSIC PARK (1993) di S. Spielberg
Da sempre appassionato di dinosauri, Spielberg ne approfitta per girare un costoso ed efficace blockbuster a sfondo preistorico, usando come soggetto il celebre romanzo di Chricton. Un film mitologico, la cui fama- pur superandone l'oggettiva qualità artistica -perdura e la cui potenza nelle scene d'azione non cessa di stupire neanche dopo vent'anni. A breve, sarà riproposto in 3D.




2- THE LOST WORLD (1925) di H. Hoyt
Seconda prova da regista del pioniere dello stop-motion Hoyt, è un film di stupefacente bellezza, oltre ad essere la migliore trasposizione dell'omonimo romanzo di Conan Doyle sull'argomento. Dal primo King Kong a Il mondo perduto di Spielberg tutti hanno rubicchiato, qua e là, da questo piccolo capolavoro. Dal 2000 è disponibile in DVD nella versione da 90 minuti, la più vicina all'originale di 106.




3- ALLA RICERCA DELLA VALLE INCANTATA (1988) di D. Bluth
Film d'animazione voluto da Lucas e Spielberg (soggettisti e produttori) e diretto dal grande Don Bluth (ex-animatore disneyano messosi in proprio alla fine degli anni '70) è una bellissima fiaba con i dinosauri al posto degli animali. Un classico senza tempo, ancora in grado di commuovere un pubblico di tutte le età. Come sequel ebbe 12 lungometraggi e una serie tv di 26 episodi iniziata nel 2007.







4- IL RISVEGLIO DEL DINOSAURO (1953) di E. Lourié
Lourié (franco-ucraino, classe 1905) approda alla regia hollywoodiana dopo trent'anni passati come scenografo fra Russia e Francia e sogna un ciclo sui dinosauri: questo splendido esempio di fanta-film in bianco e nero inaugura una trilogia (proseguita poi con Il drago degli abissi e Gorgo) non molto ben sviluppata a livello di trama e personaggi. Da riscoprire, anche solo per apprezzare un giovane Lee Van Cleef nei panni del "caporalino" e per godere degli effetti speciali firmati da Ray Harryhausen.




5- LA VENDETTA DI GWANGI (1968) di J. O'Connolly
Da un soggetto risalente al 1942 di Willis O'Brian, regista di film muti (fra cui alcuni sui dinosauri) e celeberrimo tecnico degli effetti speciali in film quali King Kong, Il re d'Africa e Lo scorpione nero, fa incontrare il western e i dinosauri. Nonostante l'importanza attribuita al progetto dal regista e da Harryhausen (allievo di O'Brian e qui autore degli effetti speciali), il film si rivelò un fiasco clamoroso e fu ritenuto superato già al momento dell'uscita. Oggi si parlerebbe di cine-trash, termine a cui noi bongustai preferiamo l'aggettivo naif. 



6- IL PIANETA DEI DINOSAURI (1978) di J. Shea
Pensato e sviluppato in un'epoca dove la bestia cattiva doveva essere per forza uno squalo o un coccodrillo, Il pianeta dei dinosauri ha dimostrato di essere un film che è stato in grado di invecchiare bene, oltre a dimostrare come l'incontro fra i dinosauri e la fantascienza potesse apparire riuscito. Ottimi effetti speciali, che gli valsero, nel 1980, un Saturn Award. Se siete a comprarlo, vi consigliamo la seconda edizone in DVD (del 2007), con audio migliorato e buoni contenuti extra.




7- PRIGIONIERI DELL'ANTARTIDE (1957) di V. W. Vogel
Non chiedetevi come possa sorgere una giungla in Antartide e come un gruppo di marines sia finito proprio lì: è il bello di questa purissima pellicola di intrattenimento, che guarda molto di più al Robinson Crusoe che a Il mondo perduto e che prende le distanze sia dai modelli di riferimento nipponici tanto in voga all'epoca, sia da certa paccottiglia bellico-genetica tanto amata dal senatore McCarthy.






8- THE GHOST OF SLUMBER MOUNTAIN (1918) di W. O'Brian
Un corto di diciannove minuti che affronta, per la prima volta, la psicologia dei dinosauri, senza per forza farli apparire come una minaccia. E' anche uno dei primi esempi di come la figura umana non sia strettamente necessaria ai fini di una storia e di come un film possa avere come protagonisti solo delle bestie. Alla regia, il già citato O'Brian, uno dei primi dinomani ad essersi prodigato col cinema e con gli effetti speciali.





9- BRUTE FORCE (1914) di D. W. Griffith
Nei centinaia di film dei primi anni Griffith non poteva farsi mancare niente, neanche i dinosauri: il papà del cinema (o almeno, del cinema come lo intendiamo noi oggi) gira la sua epopea preistorica, dove la forza bruta del titolo regna sovrana, specie quando vede l'uomo preistorico costretto a scontrarsi con animali scomparsi e dinosauri. Sicuramente più importante per la sua importanza storico-cinematografica che per la sua qualità artistica, è da vedere a tutti i costi comunque.






10- QUANDO I DINOSAURI SI MORDEVANO LA CODA (1969 ) di V. Guest
Nell'Inghilterra libertina di fine anni '60 si gira questo film scollacciato, bizzarro e ferocemente polemico. Il dinosauro diviene metafora del maschio dominante, che deve vedersela con primitive bellezze incarnanti valori più vicini alle Valchirie che ai placidi reperti fossili delle antenate delle mogli di molti.







WORST 10 GIURASSICA

1- CARNOSAUR-LA DISTRUZIONE (1993) di A. Simon
Tratto da un romanzaccio degli anni '80, Carnosaur è un film talmente brutto da essere divenuto leggenda, specie perchè riuscirono- nonostante i vani tentativi da parte della Universal -a distribuirlo prima di Jurassic Park. Girato in una settimana, prodotto da Corman con un budget di un milione di dollari (ne incassò più di un miliardo perchè scambiato da molti per Jurassic Park), cerca di riallacciarsi allo spirito di vecchie produzioni degli anni '50 e '60, ma fallisce miseramente.



2- AZTEC REX (2008) di B. Trenchard-Smith
Ambizioso progetto che ambienta una sanguinosa vicenda durante l'era dei conquistadores e non riesce neanche ad impressionare. Al massimo può far ridere, ma neanche troppo. A momenti, il film pare prendersi quasi sul serio e ci si chiede come possa farcela.






3- DINOCROC (2004) di K. O'Neill
Prodotto dalla New Concorde di Corman, è il risultato di un maldestro mix fra horror, splatter e jurassic-movie. Gli manca sia la genuinità del vecchio Corman, sia l'umorismo che poteva salvare, in calcio d'angolo, un film pieno di sterili ridicolaggini. Eppure pare avere un suo pubblico: del resto, si sa che il mondo è pieno di imbecilli.






4- JURASSIC PARK III (2001) di J. Johnston
Mentre Spielberg è intento a rovinare un soggetto del compianto Stanley Kubrick (ci riferiamo a quella merda di A.I.), affida a Johnston il terzo capitolo dei suoi kolossal giurassici: ne viene fuori un guazzabuglio senza trama, con personaggi tutti dentro, anzi sotto alle righe, dove solo gli effetti speciali dei dinosauri potrebbero salvarsi. Peccato che lo scontro fra T-Rex e Spinosauro duri solo un paio di minuti. Paragonato ai primi due, un flop anche commerciale.




5- DINOSAURI (2000) di E. Leighton e R. Zondag
Il 39° classico Disney è anche uno dei peggiori film d'animazione di sempre. Non c'è molto altro da aggiungere: quando una cosa fa cacare, fa cacare.









6- IL CONTINENTE SCOMPARSO (1951) di S. Newfield
Il consueto "canovaccio" di Conan Doyle è stavolta violentato e reso materia adattabile alle esigenze di un pessimo blockbuster anni '50. Interessante notare come, nella pseudo-sceneggiatura, il missile atomico che i protagonisti vanno a cercare all'inizio sparisca letteralmente dalla trama e non se ne sappia più niente. Dunque, a conti fatti, il film non è solo mal costruito, ma pure incompleto.






7- T-REX: RITORNO AL CRETACEO (1998) di B. Leonard
Concepito come progetto "serio", questo costosissimo film girato in IMAX e proiettato in 3D, approdò in Italia solo nel 2004. Prima di guardarlo, spolverate qualche vecchia console dell'era 64 bit e cercate il gioco Dino Crisis: lo troverete sicuramente più divertente.






8- THE LOST DINOSAURS (2012) di S. Bennet
Per quanto si contraddistingua da quasi tutto il resto della filmografia di dinosauri del nuovo millennio, The lost dinosaurs ha due difetti imperdonabili: il primo è un'inutile avidità di realismo (a cosa serve?), il secondo è l'eccessivo uso di telecamerine in p.o.v., che se già hanno mostrato la corda nelle camere da letto dei vari Paranormal Activity non fanno eccezione nella foresta del Congo. Interessante e curato il lato più criptozoologico.






9- THE LAND THAT TIME FORGOT (2009) di C. T. Howell
Remake di un filmetto sci-fi inglese degli anni Settanta, questo mockbuster della Asylum è palloso, malcostruito e pecca clamorosamente di quell'umorismo idiota che però rende sopportabili molte pellicole della casa produttrice della mediocrità. Come nell'originale, il soggetto è il romanzo (1918) di Borroughs.







10- MAGIA NEL LAGO (1995) di R. Stevenson
Avventura per famiglia dove i dinosauri buoni disneyani incontrano le atmosfere del mostro di Loch Ness. Messaggi animalisti e finale "volemose'bbene" non salvano un film di mediocre fattura. Cast terrificante, in cui spicca, per la particolare incapacità, Joshua Jackson.