lunedì 21 ottobre 2013

Pearl Jam, "Lightning Bolt" [Suggestioni uditive]

Pearl Jam,
Lightning Bolt (Universal, 2013)

★★★½















Ci sono poche, pochissime voci in grado di commuovermi veramente, e quella di Eddie Vedder c'è sempre riuscita benissimo: che fosse urlata e graffiante come negli anni di Ten o più pacata e profonda come nella colonna sonora (pubblicata come prima prova solista) di Into The Wild, la parola del leader dei Pearl Jam è sempre stata, per me, una sorta di "verbo divino". E nella musica dei Pearl Jam ho sempre ritrovato il brivido primordiale del rock, un'energia che è pervenuta alla band di Seattle tramite anche la benedizione di veri e propri miti della storia della musica (Bob Dylan, Neil Young, gli Who, ecc.). E così, i Pearl Jam, dall'essere una delle tante band inscrivibili nella rivoluzione grunge (Ten e Vs. ne sono una preziosa testimonianza) non solo ne sono divenuti gli ultimi paladini (il canto del cigno del genere è spesso accostato a Vitalogy, loro capolavoro assoluto), ma hanno anche potuto assurgere al rango di operai del rock, pubblicando moltissimo materiale in studio e live (si contano centinaia di bootleg ufficiali e compilation di b-side e rarità) e difendendo sempre la propria immagine di band che propone dischi di grande qualità. 
Il nuovo Lightning Bolt riconferma senza alcun dubbio tutte le qualità artistiche e tecniche dei Pearl Jam, a cominciare dalla voce di Vedder, che sembra tornato alle opere pre-Yeld per i momenti più rabbiosi del disco. Ed è proprio alla rabbia e alla velocità che sembra puntare questo gruppo di quasi cinquantenni  sopravvissuto brillantemente a vent'anni di brit-pop, indie rock, disney-music, nu-metal, emo-rock e altre puttanate: dal singolo punk Mind Your Manners (che con quel rullante sbarazzino ricorda i bei tempi di Richard Hell & The Voivods) all'hard rock grezzo e stradaiolo di My Father's Son, i pezzi più duri dell'album si dimostrano come i più completi e i più riusciti. E anche le classiche "accellerazioni" in stile Who sono spettacolari: basta ascoltare Swallowed Whole o la superba title-track (che ricorda un po' anche gli amici R.E.M.) per rendersi conto che i Pearl Jam sono vivi e cavalcano ancora. Molto gradito anche il flirt col blues in tracce come Yellow Moon o Let The Record Play, che conferiscono ad un paio di momenti dell'album una sonorità spettacolare anche se temo che non verranno molto apprezzate dai fan della prima ora, quelli che avevano speso pessime parole su Backspacer (2009), il miglior disco prodotto dalla band negli anni Duemila. 
Purtroppo- Sirens a parte -i punti più deboli del disco stavolta sono le ballate e i pezzi country: dal presunto scarto solista vedderiano Sleeping By Myself alla misteriosa e dark Pendulum (che nelle sue percussioni nascoste vorrebbe ricordare la Patti Smith anni '90 senza però riuscirci), i Pearl Jam più rilassati e tranquilli mal si sposano con gli intenti del loro nuovo album, un disco "incazzato" ma non per questo cupo. Infatti, la chiusura del disco Future Days è un lento acustico dove Vedder canta le difficoltà del presente ma auspica anche un futuro radioso. Per sè, e forse un po' anche per noi.

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