PREMESSA
Sono stato quattro anni senza considerare minimamente questo racconto che scrissi nel 2008. Nel correggerlo, ho cercato di dargli una forma migliore e di renderlo, per tanti versi, meno "tamarro". Personalmente, lo ritengo un po' troppo "dannato" e romantico, ma alla fine è una storia rock & roll, pensata con musica rock & roll sparata ad alto volume e dedicata a chi, quando certe "ballatone" rock escono dalle casse di uno stereo, ancora si commuove. Buona lettura.
LA CANZONE DI JANIE
Sebbene
volesse condividere le danze, Valentine non volle interrompere questa
bellezza. Il suo bel corpo, aggraziato, si muoveva lentamente
seguendo il ritmo. La sua innocenza era incantevole, la sua bellezza
senza fiato. Valentine sapeva che si sarebbe incazzata con lui per il
suo modo di fare furtivo: guardarla senza che lei lo sapesse. Ma il
suo voyeurismo da ragazzino nel corpo di un adulto lo
incoraggiava e non gliene importava delle conseguenze. Era solo per i
suoi occhi dopotutto. I suo occhi scintillavano, ricordandogli
l’oceano immenso che copriva il suo corpo formoso, e una patina di
sudore risplendeva su di lei. Era troppo bella per essere vera.
Durante
questo momento di pura fuga euforica, Valentine realizzò che c’era
solo una donna in grado di essere amata dolcemente. I suoi occhi
scintillarono. <<Potrebbe
avermi sentito>>, pensò mentre si era girata verso di
lui. Non volle rovinare l'atmosfera, solo divertirsi. Le sue labbra
sottili sorrisero gentilmente. Poi la canzone iniziò.
Un
attimo di terrore si manifestò in lui quando si accorse della
canzone. Sudore freddo uscì dai suoi pori, tormentandolo. La sua
visione era distorta. Respirare diventò difficoltoso, complicato. La
disperazione attaccò e devastò ogni muscolo del suo corpo. Ancora
peggio del dolore era la sua paura. L’ansia si impadronì quando la
musica si levò alta dallo stereo.
Ogni
cosa perse il suo naturale corso; i muri, i fiori, l’aria divennero
surreali. Il volume restava alto, mentre la maggiore difficoltà era
riuscire a muoversi. Doveva togliere il cd, ma i suoi piedi erano
come blocchi. Non poteva più muoversi. Lei aveva la pistola puntata
alla tempia.
Zak
si svegliò coperto dal sudore, l’urlo fermo in gola. Le sei ore
successive le passò in un coma da droga e alcool che lo lasciò come
se stesse dormendo. Il sonno era ormai una comodità rara ed
impossibile da realizzare senza assistenza. Non gliene fregava se
dormire sei ore o sei minuti, l’incubo era sempre in agguato.
Niente pillole soporifere o antidepressivi potevano risparmiarlo. Lui
aveva scritto la canzone e per questo sarebbe stato sempre dannato.
Con mani tremolanti, si tolse il sudore e passò le dita sulle
lenzuola di satin. I suoi bracciali d’oro e d’argento titillarono
insieme. Rotolarono dalla sua parte, il suo sguardo fisso sulla
sveglia sopra il comodino nero con un frigorifero costruito alla sua
base. Non gli importava che ora fosse; il tempo era il denaro degli
altri. Vicino all’orologio c’era qualcosa di molto più
importante del tempo o dei soldi. Lentamente si sedette. Gli occhi
torturati scrutarono il posacenere nero di marmo, cercando preziosi
avanzi di cipria. C’erano invece cerini bruciati, sigarette, ma
niente droga. Non fa niente. Poteva sempre procurarsela. Seduto alla
base del letto, Zak cercò in basso e aprì il comodino e il frigo.
Dentro c’erano delle Bud, soda, e due bottiglie di Dom Perignon. Ne
prese una gelida, bevendola in un sorso. Dietro di lui vecchi dischi,
finiti più di un mese prima. L’album era al mixaggio, se a Zak
piaceva ciò che sentiva, approvava e poi il disco sarebbe rilasciato
come in programma. Sennò, invece, dovevano remixare tutto finché
non approvava. Così, dopo, a che cazzo sarebbe servito? Avrebbero
rimandato il più possibile prima di riuscire finalmente a rialzarsi.
Peggio
della sua camera, c’era il bagno. Un disastro. Creme, vestiti,
sporcizia e biancheria dappertutto. Usava il radar per cercare la
tazza, trovava la porcellana, combatteva l’urgenza di vomitare, e
trovava se stesso. Rientrò in bagno, non sentendosi umano, bensì un
robot vestito di carne umana. C’era un lieve dolore agli addominali
che cresceva, ma vi era abituato. Questo, come molti altri difetti
nella sua salute, poteva essere attribuito al suo eccessivo stile di
vita. Dietro l’alta gioielleria, Zak vestiva semplici calzoncini.
Inciampò sopra il comò, togliendo un paio di pantaloni in pelle
nera fatti su misura, e fece per cambiarsi. Trovò un kimono in seta
viola scuro appeso sull’armadio e lo indossò.
In
un cassetto c’era un grammo di cocaina dentro una fiala. Se la
sistemò sulla lunga unghia della mano destra, e quel tormentato
artista tirò su otto esplosioni dell’aspirina del rock. Il kimono
sembrava freddo contro la sua calda carne. Si meravigliò se fosse
febbricitante e concluse che lo era. Era sempre di corsa, con una
febbre continua. Era così, sicuramente, finché aveva le sue cose da
fare. Finì la birra, tossì e sputacchiò in direzione del cestino,
sempre pieno di robaccia. Lo sguardo andò allo specchio: era
talmente indebolito che non si riconobbe. Certo, i lunghi capelli
biondi e i tatuaggi gliene davano l’aria, ma si vide lo stesso così
fragile. Zak sembrava uno di quei tipi sempre pronti per un ricovero
in ospedale. La sua bella faccia era blu, smorta, senza espressione.
Una barbaccia copriva il mento e i suoi occhi smeraldo apparivano due
gemme autentiche, preziose, di pura bigiotteria.
Il
concerto durò oltre due ore di feroce elettricità.
Dopo
l’ultimo pezzo, era tempo di festeggiare. Zak si divertì con due
troie insaziabili in hotel. Nell’intimità del bagno si iniettò
dell’eroina. Non abbastanza per farlo dormire, ma neanche
abbastanza per farlo sballare. Le due troie lo fecero sentire solo
meglio. Dopo essersi tolto i jeans marroni, raggiunse le donne nude,
e così la rivalità iniziò. La droga non gli fece ricordare molto,
ma Zak ricordò un Ren McCormack ubriaco che camminava lungo la
camera d’hotel. Il batterista aveva sbagliato stanza, scambiandola
per la sua. E, secondo i principi dello spirito goliardico, Zak gli
offrì una ragazza. Ren declinò, aggiungendo che doveva trovare se
stesso, e se ne andò. Il triangolo continuò senza intoppi. Poco
dopo bussarono alla porta. Pensando che fosse Ren, gli disse di
entrare. Ad aspettare dietro la porta c’era Janie. Aveva preso il
primo treno per stare con lui. Successe un macello. La ragazza
scoppiò in uno scatto d’ira, e questo fu l’inizio della loro
fine.
Zak
doveva rompere con il passato. Il suo ginocchio sinistro scricchiolò
forte e sistemò la sua gamba. Cercò il telefono. Schiacciò un
bottone. Il numero di Janie era registrato e sentì il telefono
squillare. Nello stesso telefono erano registrati il numero del
manager, della band, della casa discografica, e di molti spacciatori.
Dopo che non ebbe ricevuto nessuna risposta da parte di Janie,
schiacciò un altro pulsante. I suoi braccialetti tintinnarono
insieme e dopo pochi secondi ricevette una risposta.
<<Si?>>,
rispose scocciata una voce afona.
<<Sono
io...il Cigno>>, disse ingoiando cocaina direttamente dalla
gola
<<Il
mio uomo, Zak!>> sovvenne la voce di Andrea, con fare quasi
pubblicitario, neanche fosse una segreteria telefonica.
<<Che
posso fare per te?>>
<<Cocaina
ed eroina, subito...>>
<<Nessun
problema! Ricordi cosa feci per te la scorsa notte?>>
<<Sì>>,
mentì.
<<Sei
in debito con me di tre conti per questa merda, amico>>, volle
ricordare lo spacciatore, in caso che la memoria del cliente avesse
fatto cilecca. Poi proseguì.
<<Sono
sicuro che avrò ciò che manca. Se non li troverò, tu non avrai la
roba. Comunque tranquillo...>>,
disse ancora Andrea, come se stesse facendo un favore a Zak.
<<Spero
che tu muoia>>, pensò
Zak tra sé e sé.
Poi
accese una sigaretta e prese un’altra birra. La cenere si consumò
lentamente. Il secchio della spazzatura strabordò di schiuma rosa
fino al buco. Lui lo guardò, divertito, e camminò verso le tende
scure aprendole e facendo entrare il sole nella camera. Fanculo
annunciò, con il dito medio rivolto al cielo. La vista dal suo
balcone era ampia, ma molto spesso Zak chiudeva le tende non volendo
far parte del mondo. Era salvo, nel suo appartamento. Contro un muro
lontano, nascosto nell’angolo, c’era uno Steinway d'epoca. Spese
molto tempo su quel bellissimo strumento, e anche se non lo suonava,
il piano gli dava lo stimolo. Era uno strumento di precisione e
grazia. A fianco del piano, posate comodamente, c’erano una dozzina
di chitarre: principalmente si trattava di Gibson Les Paul, Fender
Stratocaster, e Fender Telecaster. Le chitarre che teneva
nell’appartamento erano una di quelle cose di cui gli importava
veramente. Lo spacciatore suonò, svegliando Zak dai suoi pensieri.
Andò al citofono e schiacciò il bottone per farlo entrare. Pochi
minuti dopo, Andrea era all’interno dell’appartamento. Dozzine di
dischi d’oro e di platino decoravano il muro. Ore e anni a
programmare, scrivere, registrare, perfino lottare. Il suo modo di
comporre era dovuto ai suoi dolori interni, a quelle lente canzoni
blues simili al suo stile di vita stentato. Queste erano le canzoni
delle quali era molto orgoglioso e credeva che potessero resistere al
trascorrere del tempo. Le canzoni veloci, molto hard rock, spesso
avevano un piccolo significato o avevano dei significati minori.
Sfortunatamente, i premi non erano premi senza Janie. Zak si scusò
un attimo e andò in bagno. Nascosto, al sicuro, c’era un altro
disco di platino. Tolse il disco dal muro, fece la combinazione, e
aprì la cassaforte. Dentro c’erano gioielli, documenti, oltre
40.000 euro in contanti, una pipetta, e una rivoltella carica. Prese
alcuni rotoli da duecento e tornò in salotto lasciando la cassaforte
chiusa, ma senza combinazione. Andrea era seduto sulla poltrona di
pelle, i piedi sopra il tavolino da caffè in marmo, guardando in
direzione dei suoi pantaloni sudati e calato in una felpa con su
scritte parole totalmente prive di senso. Si aiutò con un’altra
birra.
<<Quant’è
il totale?>>
<<Inclusa
la scorsa notte, sono duemilaseicento>>, rispose lo
spacciatore giocando con la cinta.
Zak
glieli diede e mise il resto nei pantaloni. Giudicando lo sguardo
sulla faccia, l'avido ospite capì che voleva rimanere solo e se ne
andò.
<<Chiamami,
se ti serve altro>>, sentenziò Andrea prima di lasciare
l’appartamento.
Nel
momento in cui la porta si richiuse, la testa di Zak velocemente
entrò in uno stato di sovra eccitazione, ma il suo corpo si rifiutò
di muoversi. Aveva la droga in mano, ma gli serviva una siringa,
allora tornò indietro nella camera da letto. Qualcosa nel muro della
cassaforte attrasse l’attenzione dei suoi occhi, molto più potente
della sua dipendenza. Camminò verso la cassaforte e lasciò la porta
aperta. Dentro c’era un album che conteneva preziosi ricordi.
Sistemò la droga sul tavolino da notte e scivolò sul letto.
Catturati nelle foto, c’erano immagini e sentimenti così intensi
che lo portarono ad uno stato di eccitazione come il suicidio. Janie
gli poneva sempre sfide intellettuali, mentre lo stimolava
sessualmente. Lo trattava come un figlio quando era malato, e ciò
avveniva spesso. Gli donava amore, un amore che lui spesso tentava di
evitare. Ma la sua bellezza era oggetto di ogni desiderio; quando lei
era con Zak, faceva di tutto per perderla.
Girò
la seconda pagina. Non sapeva, a quel punto, quante volte si fosse
masturbato guardando quelle foto. Molti giorni. Era solo una foto che
gli fece quando furono in vacanza a Parigi. Nella foto, il vento gli
smuoveva i capelli dalla faccia e lei rideva. Dietro di lei c’era
il Giardino del Lussemburgo, dove avevano passato la maggior parte
delle due settimane. Era una classica foto da turisti, ma c’era il
suo sorriso. Era così lontano dal dolore. Zak avrebbe fatto di tutto
per riavere quel sorriso, quelle labbra, quel corpo,
quell'esperienza.
Si
sbottonò i pantaloni di pelle. Prima di iniziare, afferrò una
bottiglia di Dom Perignon, la aprì e si fece una lunga sorsata. Non
ne fece uscire neanche una goccia.
Sorseggiò
più profondamente dalla bottiglia, guardò l’album di foto e vide
che era troppo corto, evitò accuratamente l’ultima pagina.
Raramente guardava l’ultima pagina. Come sempre, tornava indietro
di due pagine. Con la bottiglia per tre quarti vuota, si abbassò i
pantaloni fin sotto le ginocchia e versò il rimanente champagne sui
suoi palmi. Questo era parte del rituale. L'ottimo champagne era
qualcosa che lui ed Janie dividevano spesso. Poteva ancora dividerlo
con lei. Non appena resistette alla sua bagnata erezione, i suoi
pensieri scivolarono via. Era durante una delle loro ultime cene che
lei gli disse qualcosa che lo ispirò a scrivere una delle sue più
belle canzoni. <<Non posso vivere con te e non posso vivere
senza di te>>, poteva sentirlo come fosse ieri. Le parole
fluirono veloci come non mai. Zak concluse che quella era la
spiegazione di tutto ciò che accadde fra i due. La canzone non era
una scusa, ma una postilla della loro storia. Era la sincerità
musicale che vendette oltre trecentomila copie in Italia, scalò le
vette delle classiche di vendita e pose la Pozzo Rotondo Productions
sul tetto delle case produttrici indipendenti. Offrì a Janie anche
metà dei ricavi (perché senza di lei non ci sarebbe stata la
canzone). Ella rifiutò educatamente. Quando il fortunatissimo tour
arrivò a Milano, Zak volle disperatamente vederla. Non gliene
importava niente di nulla e nessuno: avrebbe fatto di tutto per lei
tranne farla andare via dalla sua vita.
La
chiamò una dozzina di volte, le lasciò messaggi sulla segreteria
telefonica, ma la ragazza non si fece mai vedere. Dopo lo spettacolo,
Zak si meravigliava del fatto che non avrebbe commesso più lo stesso
errore. Si presentò rapidamente, si cambiò con abiti asciutti,
evitò di andare nel backstage. Lui e il suo autista si diressero
all’appartamento di Janie, la chiamò con il cellulare quando era
già sotto l’appartamento. Ancora il messaggio registrato.
<<Spero
che tu sia in casa. Sono sotto le scale e, anche se dovrò spaccare
la porta per rivederti, lo farò. Se stai chiamando i poliziotti,
bene, fallo ora.. non mi aspetto nulla da te. Non mi merito niente da
te…Fanculo, non so ancora cosa sto dicendo, se non che mi prenderò
cura di te. Le parole non possono guarire ciò che ho fatto, ma il
passato è andato...ho realmente bisogno di vedere ancora la tua
faccia>>, spiegò Zak dopo il segnale acustico. Le parole
echeggiarono nella sua testa, domandandosi se poteva dirle in maniera
diversa. Era troppo tardi, pensò, mentre era già dentro il palazzo.
Questa era una delle rare occasioni in cui dopo un concerto era
sobrio. Come arrivò davanti all’ascensore, sentì una musica
familiare. Si avvicinò alla porta e sentì il volume della musica
crescere. Dopo, le sue parole divennero confuse e incontrollabili,
mentre uno sparo echeggiò lungo il corridoio. Corse all’interno
dell’appartamento, spalle basse, e con temerarietà abbatté la
robusta porta di noce. Trovò Janie sul sofà, coperta di sangue, con
gran parte della testa spiaccicata sul muro dietro di lei. Su un
piccolo tavolo in legno trovò una penna a sfera e tante palline di
carte stropicciate. Come poteva essere successo? Devastato, camminò
lentamente verso lo stereo. Il singolo maledetto era stato
programmato per essere ripetuto. Si domandò quante volte ella aveva
ascoltato la canzone prima di spararsi. Dopo notò che a fianco del
portatile c’era uno scritto. Numero uno con una pallottola, lo
scritto chiazzato di rosso letto, pensò. Sconvolto e confuso; le
sue lacrime scesero liberamente. Zak urlò con tutto il fiato che
aveva nei polmoni. Era come se qualcuno avesse liberato un animale
selvaggio. L’acuto rischiò di rompere i vetri. L’emicrania
pulsava nelle sue tempie, e la sua intera testa stava per scoppiare.
Che lei si sia uccisa perché avevano fallito o perché lui non
voleva lasciarla? Era la canzone, una delle poche cose create
autonomamente, che la portò a fare questo? Cos’era realmente
successo? Ma subito un altro pensiero gli uscì dalla mente. Rimosse
la pistola dalla sua mano e se la puntò alla tempia.
L’avrebbe
raggiunta.
Era
scarica. Janie sapeva che le sarebbe bastato un solo proiettile.
Zak
ruppe ogni legame con quell’incubo e fu spinto in un altro ricordo.
Riconobbe la stanza, familiare come la loro suite in luna di miele a
Parigi, e si sentì come alleviato. Il letto era in disordine ed
Janie stava sorridendo maliziosamente.
<<Che
cosa hai voglia di fare?>>
<<Cosa?>>,
gli rispose Zak, confuso.
Avevano
bevuto quattro bottiglie di champagne e fatto l’amore due volte.
<<Che
cosa hai voglia di fare?>> ribattè audacemente, portando Zak a
rispondere.
Zak
prese il vento in spalla e decise di giocare ancora. Se lei gli dava
un opzione sul cosa vuoi fare, dopo certamente aveva un vantaggio
sulla sua generosità.
<<Potresti
anche farmi una proposta e dirmi che mi ami, oppure criticarmi.>>
La
faccia di Janie espresse gioia. Le parole come amore erano le più
dure da far uscire dalla bocca di Zak. Ancora una volta lei sorrise,
come quando scendeva verso il suo girovita. Non ci volle molto per
riportarlo alla realtà. Pochi minuti dopo, quando capì che era
eccitato e stava per venire, Janie lo guardò e gli disse, con
l’espressione più sexy che potesse trovare, <<Ti amo>>.
Zak
venne con un lieve grugnito. Il ricordo potente gli diede qualcosa su
cui lavorare, ma non ebbe piacere nell’orgasmo. Non ne ebbe mai
più. Lancio l’album di foto e si distese sul letto, come morto,
guardando il soffitto.
Per
un secondo gli parve di sentire quella canzone ma era solo la sua
fantasia. Il suo corpo stanco giacque sul letto per qualcosa che gli
parve un anno. Alla fine le droghe sul tavolino erano reali. Ogni
cosa di cui aveva bisogno era sul tavolo. Nascosta dietro la sveglia
c’era una siringa e un cucchiaio annerito. C’era un bicchiere
mezzo vuoto d’acqua e un accendino a fianco. Nel cucchiaio mischiò
l’eroina e l’acqua, e dopo, usando l’accendino, riscaldò il
fondo del cucchiaio fino a che la mistura si schiarì prima di
metterci un piccolo pezzo di cotone nel cucchiaio stesso. Con mani
tremolanti, aggiunse la cocaina e lo speedball era completo Essere
una celebrità, non ti poteva permettere di avere le sue mani
appassite con tracce troppo evidenti. Di solito si sparava la dose
dietro l’avambraccio o sui piedi. Si iniettò anche sul collo, ma
come si sentiva ora, non aveva il tempo di esitare. Come un esperto
di agopuntura, fissò il suo avambraccio in cerca di una vena.
Fico
pensò, e si esaminò le braccia con calma, mentre lo speedball
iniziava il suo effetto.
Si
gettò sul letto. Fra le droghe e le sue emozioni, si sentiva
esausto. Era una buona cosa, le droghe ti rendono insensibile e
lasciano scemare la pressione. Le droghe lo inondarono in fretta. Ci
volle un po’ di tempo prima che riuscisse a realizzare che il suo
braccio sinistro stesse toccando qualcosa. Lentamente rotolò.
L’album di foto era aperto sull’ultima pagina. L’ultima pagina
conteneva la foto dell’obitorio di Janie e una simpatica cartolina.
Le lacrime che tratteneva sin da quel giorno cominciarono a scendere
fino sulle guancie. La sua faccia era pallida, scarica, come se le
sue forze l’avessero abbandonato. Stava affogando nei dispiaceri ma
non credeva nella commiserazione e questo lo fece sentire ancora
peggio. Si sedette con una domanda che gli rimbombava nella testa.
Perché è dovuta morire? Non ebbe nessuna risposta e si riprese
troppo in fretta. Perché è andato tutto a puttane? Ritornò nel
salotto. Aveva bisogno di whisky.
Perchè?
Lui
la amava molto.
Perché?
Cercò
di fare ammenda. Cercò di fare buoni accordi con le norme della
società. Voleva capire tutto ciò che succedeva a loro. Voleva lei
per essere amato e non gli importava quanto fosse duro provare. Aveva
mandato a puttane tutto.
Perché?
Voleva
essere normale ma non era ancora possibile.
Perché?
Voleva
stare vicino ad Janie ma era morta. Questo tormentava la sua fragile
anima ma per un istante di pazzia, Zak concluse che il suo corpo non
poteva più essere libero.
Grugnì,
attaccando il suo salotto come se ci fosse una fottuta zuffa. Pugni e
calci attaccarono i muri e i soprammobili senza difesa. Tirò un
pugno con la mano destra e un grande buco si manifestò sul
cartongesso. Strappò una lampada orientale e la buttò su un tavolo
in mezzo alla camera colpendolo. Lanciò il posacenere di marmo su
una placca, rovinandola. Il respiro sconnesso, la puzza di alcol,
prese un disco di platino e lo spacco, cocci di vetro ovunque. I
vetri rotti sul pavimento scintillarono come il sole riflesso sulla
sabbia. Non gliene fregava di quante camere d’hotel distrusse lungo
la sua carriera, ma in tutto quel tempo non danneggiò mai una
chitarra. Questo era un rigido taboo fino ad oggi.
Camminò
oltre la fila delle chitarre, prendendo una Stratocaster del ’68 e
la fece oscillare, spaccandola finché non divenne legna da ardere.
Con il suo atto di distruzione, si sentiva leggermente meglio.
Camminò oltre e prese un disco di platino, pronto a tirare un pugno
sul vetro. Il sangue fuoriuscì dalla mano che era stata assicurata
da Lloyd a Londra.
Per
la prima volta nella giornata sorrise.
Zak
prese una bottiglia di Jim Beam dal bar e la tracannò. Il liquido
lenì il forte dolore nel petto e lenì il dolore alla mano
sanguinante, che aveva bisogno di qualche punto. Camminò verso il
suo stereo Fisher, e usando la mano buona girò il ricevitore. Il
lettore digitale era bloccato su una classica stazione rock. Era
l’unica stazione buona del quadrante, come se non avesse suonato
altro che la sua canzone. Zak era troppo nuovo, troppo recente. La
stazione suonava roba degli anni Sessanta e Settanta. Riconobbe
immediatamente la canzone; era degli Humble Pie’s, e si intitolava
I dont’ Need No Doctor. Era quel tipo di rock grezzo che lo
aveva ispirato a diventare un musicista. Dopo i Pie c’erano gli
Allman Brothers. Zak poté capire come si sentiva uno che veniva
flagellato.
Durante
la pubblicità, ritornò in cucina per prendere un’altra birra.
Dalle casse un negoziante diceva che i suoi prezzi erano i più bassi
di tutta Italia. La musica di sottofondo che accompagnava la
pubblicità era la sua canzone.
I
suoi occhi si sgranarono, ma nessuna lacrima scese, come se lui
avesse realizzato che ovunque egli fosse, non avrebbe potuto
nascondersi. Come un uomo con la sua missione, andò verso lo stereo,
prese il ricevitore e lo colpì con entrambe le mani.
Ci
vollero molti strattoni prima che le luci si spegnessero. Con il
ricevitore in mano inciampò all’indietro, e toccò i fili
metallici di uno dei due altoparlanti Bose. Affranto e senza fiato,
impazzì contro le grandi porte scorrevoli che portavano al balcone.
Casualmente fece cadere il ricevitore d’alta tecnologia e disinserì
la serratura che teneva bloccate le porte. Aria fresca attaccò i
suoi sensi, lo fece rinvigorire e uscì sul balcone e guardò oltre.
La sua Bentley luccicava nel parcheggio sottostante. Prese il
telecomando, lo lanciò oltre il bancone, diretto verso la macchina.
Dopo qualche secondo di meraviglia, se la direzione fosse stata
giusta, avrebbe funzionato. Una crepa sul parabrezza si formò quando
il telecomando la colpì e lo ruppe. Andò a prendere una birra e si
distrasse quel tanto che stracciò la porta del frigorifero
lasciandola aperta. Rimase aperto, e molta roba finì sul pavimento.
La porta perse un cardine. Zak prese una birra, e la scolò a metà,
e come un forte lanciatore di baseball la lanciò contro la sua
collezione di chitarre, sfiorando la sua preferita: una Sunburst Les
Paul vintage del 57. Prese un’altra lattina dal frigo rovinato e i
suoi occhi tornarono sulle chitarre.
Le
chitarre erano come dei bambini adottati e le amava ognuna in maniera
diversa.
Certe
chitarre gli davano determinati ricordi, ma ogni chitarra aveva
l’abilità di creare la magia. Era questo potenziale che gliele
faceva rispettare e ammirare, fino a quel pomeriggio. Ora, non gli
importava nulla di quanto amore provasse, o quanto potessero valere,
tutto quello che voleva era di provare del dolore. Il dolore lo
portava vicino alla realtà. Lo portava vicino a Janie. Gli dava quel
mondo chiamato musica, buona musica, e gli chiedeva un piccolo
ritorno. Un piccolo spazio per creare, molti effetti dentro, e la
pace dello spirito? Invece, lui aveva dell’altro buon materiale che
poteva sempre usare, molti soldi che poteva contare, e nulla per cui
lottare. C’era un tempo non troppo lontano quando combatteva come
un dannato per cose così. Ora quello che possedeva era un pezzo di
rock che avrebbe voluto ridare indietro. Ciò che vide all’apice
non era così pittoresco come se l’era immaginato. Quello che aveva
fatto era espressione artistica, le compagnie discografiche vendono
per il capitale. Crebbe abbastanza disilluso con il sistema, ma che
cosa avrebbe potuto fare? Senza l’industria non poteva condividere
la sua musica. Non importava quanto fosse duro cercare di
spiegarglielo, le note musicali non equivalevano a dei dollari. Lui
faceva musica perché sin dalla sua infanzia, lui adorava il rock
n’roll. Era la gente, la sua gente, scriveva musica dopo che aveva
scritto per se stesso. Così dopo, perché non riusciva a dormire la
notte?
Cercò
la risposta.
Avrebbe
ucciso le chitarre. Se non fosse stato per le sue chitarre, non ci
sarebbero stati i suoi problemi. E salvò la dannata Sunburts 57 per
ultima. Prese un’altra birra, rimpinzando la sua bocca avida.
La
Bud gli uscì dalla bocca. Quando la lattina fu quasi vuota, la
schiacciò e la calciò come un calciatore. Incazzato, prese la Les
Paul Black Beauty e l’afferrò procurandole una breve ma violenta
morte contro il muro. Sollevò una rara Telecaster sopra la sua testa
e la bastonò contro il tavolo da caffè, rompendoli entrambi. Dopo
prese un’altra Les Paul, e come con una mazza da baseball, colpì
una lampada e altri oggetti prima di distruggerla definitivamente.
<<Fottuta
robaccia>>, grugnì.
Sentì
qualcosa che gli ricordava un leggero ritmo. C’era un batterista
che suonava nella sua testa? Ci vollero un paio di secondi per
realizzare che c’era un vicino che picchiava la mano sul muro.
<<Il
volume è troppo alto?!>> Zak urlò nella direzione da dove
proveniva il rumore. Non si fermò.
<<Lasciami
in pace, stronzo!>>
Zak
andò verso la camera da letto in direzione del comodino. Prese la
coca e ne versò un cumuletto sul retro della sua mano che non era
sanguinolenta. Dopo leccò il rimasuglio sul pugno, passandosela sui
denti e sulle gengive. C’era un pacchetto di Marlboro sul tavolo.
Ne prese una e se l’accese. Fece una profonda fumata e sentì i
dintorni. Il vicino stava ancora picchiando sul muro. Il posacenere
era pieno, così Zak posò la sigaretta sul bordo del tavolo. Voleva
evitare un confronto, ma la testa di cazzo del vicino non voleva
lasciarlo in pace. Andò verso il muro, prese la Smith & Wesson
357 Magnum, e la caricò fuori dalla camera da letto.
<<Okay,
vicino del cazzo! Vogliamo giocare?!>>
Scaricò
tre colpi sul muro già bucherellato. I colpi cessarono. Rise ancora.
Direzionò la pistola verso uno dei suoi dischi di platino sull’altro
muro, e distrusse le sfere luccicanti. Puntò la TV ed esplose. Un
ultimo colpo. Tenne la pistola argentata con ammirazione. Poteva
facilmente raggiungere Janie; tutto quello che doveva fare era
premere un semplice e veloce grilletto. L’idea lo stuzzicava. Zak
era pronto per la sua nuova vita. Con calma, gli occhi chiusi,
sollevò la pistola. Il grilletto canzonava il suo indice
sanguinante. La canna della pistola risultava piacevole sulla sua
tempia. Riaprì gli occhi. Davanti a lui, due Les Paul lo deridevano.
Ci fu un momento nella sua vita in cui questi strumenti furono sacri.
La dedizione di un anno di pratica fu il lavoro che amava. Le
chitarre erano la sua passione, la sua espressione, e il suo
biglietto per l’oscurità. Ma tutto cambiò con una canzone. Ora
quelle chitarre gli ricordavano che non poteva riprendersi la sua
innocenza.
Non
posso morire con della fottuta dignità?, pensò meravigliandosi
che la rabbia lo stesse consumando.
Non
poteva suicidarsi senza musica che lo interferiva. Mosse le sue
braccia in direzione di una delle due chitarre. Ci fu un profondo
rinculo di pezzetti di legno tutt’intorno. Fece un grande buco in
mezzo alla chitarra. Prese la rimanente e la fracassò contro la
porta di vetro. Uscì fuori dal balcone. Sotto un piccolo gruppo di
persone erano intorno alla sua auto.
<<Qualcuno
vuole un autografo?>>, disse tossendo.
<<Aspettate,
aspettate un minuto. Ho un altro regalo!>>, urlò, e corse
dentro la camera.
I
suoi passi pesanti presero la sigaretta che si era dimenticato sul
comodino. Si spense sul tappeto. Zak diede una gomitata alla parete,
afferrò una centinaio di bigliettoni e corse sul balcone prima che
il gruppetto di persone potessero andarsene.
<<E
non dite che non vi ho mai dato nulla>> annunciò, lasciando i
soldi liberi.
Molti
spettatori si fermarono e se ne andarono dopo aver raccolto i soldi.
Zak fece un cenno alla folla e tornò dentro.
Una
chitarra era rimasta.
La
fissò, era del 57 i colori erano bellissimi e meravigliosi. Era
propriamente chiamata Sunburst. Rosso,arancione e giallo si
mischiavano sul corpo di legno. Questa aveva le alette dorate così
come i fonorivelatori. La Sunburst era la sua chitarra preferita. Ne
aveva un’altra dozzina in un magazzino ma quella chitarra l’aveva
comprata dopo che aveva firmato il contratto discografico. Era come
se si fosse premiato per avercela fatta. Questa era la chitarra con
cui aveva composto la canzone. Si approcciò con cautela e rispetto e
gentilmente la sollevò. Si sedette sul divano a fiori in stile
Indiano. In fondo, era contento di non averla spaccata. La sua mano
gli faceva malissimo, ma voleva suonarla. Il sangue gocciolava dalla
sua mano e imbrattò il corpo della chitarra stesso. Affascinato, Zak
lo guardò scorrere. Non importava quanto fosse intossicato, le sue
dita non l’avrebbero mai tradito, e quella chitarra era particolare
perché rispondeva sempre alle sue chiamate. Incominciò scegliendo
qualcosa che somigliasse al suono di Hendrix. Si fermò bruscamente.
Qualcosa riguardo quell’ultima chitarra lo impressionò al puntò
che non poté più continuare. In modo vago, gli ricordava una parte
della canzone. Dopo essersi preso un profondo respiro, Zak recuperò
la sua compostezza. I multimilionari come lui non erano supposti di
piangere. Loro erano dietro alle lacrime o alla fine era quello che
la società voleva farti credere. Cominciò a strimpellare uno dei
suoi riff preferiti: Thin Lizzy, Don’t believe a word. Anche
se la chitarra non era amplificata, poteva sentirla come se lo fosse.
Lasciò che l’ultima nota uscisse sola e si fermò a riflettere.
Era solito amare il sentimento di questi strumenti nelle sue mani.
Era solito adorare far uscire le note e farle vivere. Amava tenere
fra le mani questa chitarra. Dopo la sua mente viscida gli ricordò
quanto aveva amato Janie. Velocemente uscì nel corridoio e lanciò
la chitarra fuori. Cadde rumorosamente.
Guardò
senza alcuna espressione la chitarra e pensò a Janie. Entrambe gli
diedero momenti di intenso piacere, ma non fu mai abile a dichiarare
la sua gratitudine. Non aveva mai detto la verità su come lo faceva
sentire, su quanto l’amava, e quando lo fece, la canzone riaffermò
che lui poteva tenere il becco chiuso. Alla fine lei doveva
sopravvivere. Ma la canzone era pura e lui voleva suonarla per lei.
Anche se il suo corpo fisico non era presente, lui poteva suonarla a
lei in paradiso. Lui voleva suonare, ma era impaurito a toccare la
chitarra.
Dopo
Zak vide un’alternativa. Vide la bottiglia di whisky semi vuota, e
la finì. Scivolò silenziosa dalla sua mano. Profondamente ubriaco e
drogato, si accasciò sopra il piano. La sigaretta caduta sul tappeto
cominciò a bruciare anche il piumone. Le fiamme velocemente si
propagarono a tutta la camera da letto. I vestiti gettati alla
rinfusa sembravano impazziti e presto la camera fu in fiamme.
Fino
a qualche ora prima, la vita di Zak, non importava quanto
miserabilmente, aveva avuto qualcosa che molte persone potevano solo
sognare. Era un’illusione, ed era uno della rock n’roll elite:
un eroe. Ora era reduce dalla sua personalità di base e nulla gli
importava realmente. Soffocò la sua spiritualità con l’abuso di
droghe. Provò la sua salute e la sua crescita personale con il
vizio. Accecò se stesso perché era spaventato di vedere che il suo
scopo, il suo dono di vita, era solo il vero se stesso. E l’unica
volta in cui fu abile di trovare le sue verità era quando suonava la
musica. Toccava dolcemente le chiavi d’avorio, le melodie
prendevano vita con il tocco delle sue dita. Non gli importava quanto
male gli facesse la mano; lui persisteva nel fare musica. Era
determinato a suonare per Janie e per tutti gli altri angeli. Con
ogni liquido che correva, ogni armonia, ogni accento musicale, il suo
dolore interno si era placato. Ogni nota che faceva diventava un
tutt’uno con la musica.
Sudando copiosamente, Zak sentiva
qualcosa che si agitava alle sue spalle. Cercò di ignorarlo per più
tempo possibile.
Finalmente si girò e vide le grandi fiamme
inondare fuori dalla camera da letto. Inizialmente pensò che fosse
un’allucinazione, ma il fuoco scoppiettava realmente e andava verso
di lui. La sua chitarra preferita era ingolfata e morente. Volle
salvarla ma non ce la fece. Rifiutò di interrompere il suo jamming.
Janie lo stava ascoltando. Ogni volta che le sue dita toccavano le
Steinway’s Keys, macchie rossastre le inzozzavano. Ignorò le
piccole macchiette rosse, scivolando le sue lunghe dita su di lei. Le
vene varicose pulsavano dal suo avambraccio, il sudore gli colava
dalla faccia. Tutto ciò che voleva fare nella sua vita era suonare e
ora lo stava facendo. Per il momento si sentiva libero dai suoi
demoni. Prese coraggio e incominciò a cantare la canzone con il suo
naturale timbro di voce. Il tappetino sottile divenne in breve tempo
un muro di fiamme come se un onda gigante di rose infuocate si fosse
alzata e si propagò intorno al piano. Non gliene poteva interessare.
Appena le fiamme inghiottirono l’appartamento, Zak non urlò mai e non
stonò una nota.
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