Lincoln non è un biopic.
Lincoln racconta come, nel 1865, il senato degli Stati Uniti approvò il XIII emendamento (quello che aboliva la schiavitù).
Lincoln non spiega il presidente Lincoln, non spiega l'uomo Lincoln, non narra la storia della sua vita, nè ne descrive i romanzati retroscena. E nel portare a termine questa operazione (operazione a cui ha lavorato per oltre sei anni) Spielberg si avvale di uno dei più grandi attori viventi (Daniel Day-Lewis), circondato da una galleria di personaggi eccezionalmente recitati (Tommy Lee Jones nei panni di Thaddeus Stevens è solo uno dei tanti). Siamo sicuramente lontani dal peggiore "Spielberg 2.0", quello che ha macinato miliardi e strappato lacrime banali oltre ogni limite con orrori come A.I., Minority Report, Le avventure di Tintin e War Horse, quello che ha rovinato un personaggio meraviglioso con Indiana Jones e il teschio di cristallo e che ha torturato gli spettatori con tutti quei primi piani sul Tom Hanks di The Terminal. Così come siamo lontani dallo Spielberg che spaccia per grande verità storica un colossale videogioco bellico come Salvate il soldato Ryan (film di cui si salverei quaranta minuti) o che pretende addirittura di regalare lezioni di umanità al mondo con noiosi melò quali Il colore viola, L'impero del sole o ancora peggio Amistad. Dopo anni di attività cinematografica, sembra quasi che il papà de Lo squalo (quello sì che era un capolavoro!) si sia fermato e abbia voluto regalare una lezione di storia ad un pubblico che si aspettava un kolossal sulla guerra di secessione.
Ed effettivamente la lezione riesce: Lincoln coglie ogni sfumatura politica legata alle vicende esposte, è preciso nei tempi, nella ricostruzione e nella recitazione di ogni singola comparsa. Ma è la precisione di una statua esposta al museo delle cere: bella e accurata, ma terribilmente fredda. Le luci del mago polacco Kaminski sono efficaci, così come le musiche del "veterano" John Williams e i dialoghi firmati da Tony Kushner (che torna con Spielberg dopo l'ottimo Munich). Per la maniacale ricostruzione di ogni attimo precedente all'approvazione dell'emendamento va sicuramente lodato il lavoro svolto in sala di montaggio, ma è l'unico momento in cui davvero si avverte l'odore di ottimo cinema. E così, dopo ben 150 minuti, si esce di sala, sicuramente arricchiti, ma indecisi fra il sostenere di aver appena visto un film candidato a 12 Oscar o un documentario di History Channel più lungo del dovuto e girato da dei veri professionisti.
[Ah, dimenticavo. Chi crede nell'Oscar come istituzione e come sinonimo di "grande cinema", sappia che 12 candidature sono un'esagerazione per un film simile. Dunque, o chi di dovere vuole veramente molto bene a Spielberg (in passato gliene hanno voluto anche troppo), o semplicemente il cinema è messo molto, molto male. Io, da parte mia credo poco nell'Oscar, anche solo per un motivo: Stanley Kubrick non ne ha mai vinto uno]
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