Da diversi anni i film di Robert Redford finiscono col piacermi molto: mi è successo nel 2007 con Leoni per agnelli, un paio di anni fa con The Conspirator e oggi replico con La regola del silenzio, un bel thriller uscito lo scorso 20 dicembre.
Attenzione, il film non si limita ad essere il racconto dai ritmi serrati che vede i buoni ex-hippie latitanti (una sfilza di attoroni del calibro di Susan Sarandon, Julie Christie, Sam Elliott, Nick Nolte e lo stesso Redford) scontrarsi contro i cattivissimi agenti federali, ma è molto di più: il meccanismo collaudato ai tempi di Come eravamo (interpretato, guarda caso, da Redford) stavolta si tinge di sangue, di pessimismo e di redenzione. L'azione (molto ben fotografata da Adriano Goldman) sposa le tempistiche del thriller, e il tutto passa attraverso una ricetta non tanto da film politico, quanto da film sulla politica. E' eccitante vedere un avvocato settantenne (vissuto sotto falso nome per trent'anni) tenere in pugno l'FBI e correre per quelli che un tempo furono i luoghi della rivolta giovanile (Big Sur, Flint, ecc.), prendendo coscienza del fatto che la rivolta, per lui e i suoi compagni dell'epoca, non si è spenta, ma ha solo cambiato meccanismi. Se una storia simile l'avessimo adattata ad uno sfondo "italico" avrebbe fatto ridere, per non dire vomitare, ma non pensiamoci: prendiamolo come un film che registicamente riunisce la maestria di Pollack, la smania di "storiografare" di Eastwood e i dialoghi (firmati da Lem Dobbs) del miglior Arthur Penn. Shia LaBeouf se la cava egregiamente nei panni del giornalista "maledettorompicoglioni", anche se in alcuni momenti risente dell'assenza di Optimus Prime sullo schermo. Innocente o colpevole, il personaggio di Redford è comunque un morto che cammina, un disilluso, una persona che ha vissuto più vite e che si è dimenticato la sua vita vera. E se c'è una cosa che davvero amo, è quando il passato viene a cercare certi personaggi.
Dunque ringraziamo ancora una volta Robert Redford, un uomo a cui il cinema deve molto.
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