venerdì 2 novembre 2018

Bob Dylan, "The Bootleg Series Vol. 14: More Blood, More Tracks" [Suggestioni uditive]

Bob Dylan,
The Bootleg Series Vol. 14: More Blood, More Tracks
(Columbia Records, 2018)



















Di punti di svolta nel lungo (e ancora apertissimo) bildungsroman dylaniano se ne trovano a bizzeffe: nella carriera di un normale cantautore sarebbero risultati sufficienti il passaggio da strimpellatore del Village a popstar e la scoperta dell'elettricità.
Partiamo però da quella morte sfiorata e dalla conseguente, faticosa trasfigurazione in padre e marito devoto: Dylan fa il proprio ingresso nel primo lustro degli anni '70 sfruttando, seppur al minimo, l'immagine di gentiluomo di campagna geloso della sua privacy e con in testa il sogno (irrealizzato e irrealizzabile) di abbandonare l'attività concertistica. Immette sul mercato il suo primo, mediocre album doppio (Self-Portrait), inventa un nuovo modo di concepire il best-of (Greatest Hits Vol. II), fa capolino al Concert for Bangladesh (sei brani) e si mette a disposizione di Hollywood (l'unico, compatto e prezioso capolavoro recante la sua firma in questo periodo è una colonna sonora), non rinuncia a sfornare del materiale controverso fino ai limiti del reazionario (New Morning) prima di trasferirsi in California con la famiglia a respirare l'aria e gli umori della West-Coast. Forse il sole, forse la salsedine, forse un nuovo giro di amici lo invogliano a cambiare sound e perfino etichetta: suscitando sdegno e clamori, abbandona la Columbia e ripiega sulla californianissima Asylum di David Geffen. Così, sulla spiaggia dove le luci del Nord hanno già incontrato la croce del Sud, Dylan ritrova la Band, ci registra un disco "senza infamia e senza lode" (Planet Waves) e poi si ricorda che non va in tour da otto anni. In culo a famiglia e promesse, Dylan indossa le sacre vesti di rockstar al passo coi propri tempi e torna prepotentemente sulla strada per una leg nazionale di due mesi e 40 date: i cittadini americani che faranno domanda per biglietti del Tour '74 risulteranno essere cinque milioni e mezzo. La sua immagine pubblica torna ai livelli di successo e attenzione di dieci anni prima, mentre quella privata sembra entrare in una crisi profonda.
16 settembre 1974. Un Bob Dylan di nuovo sotto contratto con "mamma Columbia" (che, nel frattempo, si è vendicata consegnando alle stampe una compilation di scarti spacciata per nuovo album e originalmente intitolata Dylan) torna a New York. Quando bussa allo Studio A sulla 54esima, ha con sé una chitarra acustica e un taccuino rosso su cui ha scarabocchiato una decina di testi. Il produttore Phil Ramone a stento sa che Dylan è rientrato nella scuderia, figuriamoci se si aspetta di vederselo arrivare in studio con del materiale inedito. Ciò nonostante non si scompone: afferra la cornetta e contatta Eric Weissberg, uno specialista degli strumenti a corda passato alle attenzioni del grande pubblico un paio di anni prima, grazie alla colonna sonora di Un tranquillo weekend di paura. Lo intima di venire subito e di portare tutta la sua crew, perché Dylan è in città con delle nuove canzoni e ha voglia di registrarle.
Arrivano nel pomeriggio. Dylan ai musicisti non dice nulla: inizia a suonare queste canzoni semplici, scarne e musicalmente un po' tutte uguali. Weissberg e i suoi sono dei session-men di buon livello, arrivano dal bluegrass, dal country, qualcuno perfino dal jazz e hanno suonato di tutto con chiunque, eppure faticano a capire che disco  Dylan abbia in mente e che accordatura utilizzi per i suoi nuovi pezzi. Non ci vuole molto prima che tutti, a cominciare dallo stesso Weissberg, abbandonino lo studio. Perfino un Mike Bloomfield "di passaggio" rinuncia a suonarci: resta solo il contrabbassista Tony Brown e nel giro di tre giorni un disco senza titolo e a base di voce, chitarra, armonica e basso è pronto. Phil Ramone non ha battuto ciglio, né è intervenuto in alcun modo sul materiale registrato (fa eccezione il delicato utilizzo di un effetto riverbero nella voce di Dylan). Ciò che colpisce, oltre a una resa sonora più cruda di quanto non fosse risultato, a suo tempo, John Wesley Harding, è la qualità della scrittura: liriche così tanto profonde, affilate, taglienti e dolorose non uscivano dalla testa di Dylan da prima dell'incidente in moto. 
Passa una settimana. Phil Ramone riceve una telefonata da alcuni dirigenti: Bob Dylan vuole registrare un disco. <<Un altro?>>. No, in realtà vuole solo registrare le sue nuove canzoni da capo, dare loro una forma meno grezza e, chissà, più appetibile per le classifiche. Possibilmente con l'aiuto di altri musicisti. Magari in uno studio diverso. Forse in un'altra città.
Lo scenario cambia di nuovo. Dicembre 1974. Dylan vola in Minnesota, dove ha da poco acquistato una tenuta di campagna e dove il fratello Daniel si arrabatta come produttore discografico indipendente. In un anonimo studio di Minneapolis (ri)prende forma Blood on the Tracks. Produce lo stesso Dylan, mentre suo fratello siede nella cabina di controllo e si prende la briga di procacciare dei musicisti: li trova in Kevin Odergard e nella sua band. Sconosciuti pagati a cottimo con cui però l'autore di Mr. Tambourine sembra trovarsi inaspettatamente bene, tant'è che consente allo stesso Odergard di modificare Tangled up in Blue alzandola di un tono e conferendole la forma che oggi tutti conoscono. Organo, mandolino, chitarre a 12 corde e una batteria prevalentemente jazzata giungono a fare il resto senza mai eccedere in virtuosismi. Dylan parla poco, ma lascia Minneapolis con del materiale più che soddisfacente, materiale che, una volta finito nelle mani di Ramone, assumerà un aspetto definitivo: Blood on the Tracks uscirà solo a gennaio del 1975 e il resto è storia nota.
Meno nota, magari, è la novella delle outtakes, delle alternate versions, degli scarti e delle leggendarie sessions settembrine di New York. Una You're Big Girl Now marchiata dalla pedal steel di Buddy Cage e dall'organo di Paul Griffin già compare in Biograph, accompagnata dalla undicesima, perduta canzone destinata all'album e intitolata Up to Me. Oltre alle alternate di Tangled up in Blue, If You See Her, Say Hello e Idiot Wind (stratosferica), sulla TBS Vol. 1-3 fa nuovamente capolino Up to Me e appare tale Call Letter Blues che mostra però assonanze stile copia-carbone con Meet me in the Morning. Nel 1996, Dylan offre a Cameron Crowe una bellissima demo di Shelter from the Storm affinché venga inserita nel film Jerry Maguire, dopodiché del materiale inciso nell'autunno del 1974 si perdono le tracce. Il silenzio viene interrotto solo nel 2012, quando il Record Store Day vede la Columbia immettere sul mercato il 45 giri di Duquesne Whistle con una b-side insolita: la demo di Meet me in the Morning.
Dedicare un intero volume della TBS a Blood on the Tracks nel 2018 non è il massimo dell'originalità, né del tempismo. Cercare conforto in quesiti del tutto ipotetici (fra gli altri, "E se Blood on the Tracks fosse stato un disco 100% acustico, sarebbe davvero stato più bello?", "E se Phil Ramone lo avesse fatto uscire subito, nell'inverno del 1974, non sarebbe stato meglio?", "E se Dylan avesse incluso Up to Me, avrebbe rafforzato l'idea di un concept-album incentrato sul proprio divorzio?") è un esercizio che lascia il tempo che trova, diverte come diverte qualsiasi What If...?, ma non cambia la sostanza delle cose, perché l'arte massima è racchiusa in quel disco uscito nel gennaio 1975, e non ci sono espansioni, alternative o riscoperte in grado di reggere il confronto.
Che Blood on the Tracks stia alla carriera di Dylan come Highway 61 Revisited sta all'intera storia del rock è un fatto riconosciuto da oltre quarant'anni: il secondo è un capolavoro di assoluta importanza, il primo un capolavoro di assoluta bellezza. Non sembra, ma c'è differenza. Anzi, adesso che ho fra le mani l'edizione disco singolo di questo 14esimo volume dei bootleg posso dare conferma a qualcosa che, sotto sotto, ho sempre saputo: le undici demo registrate a New York nel settembre del '74 potranno essere più spontanee, cattive e disperate delle dieci che avrebbero composto Blood on the Tracks, ma sono "solo" altre undici canzoni incise in quattro giorni da uno che è tornato ad adottare una metodologia di lavoro a cui non ricorreva da tempo. Non solo: le Tangled up in BlueSimple Twist of Fate e Up to Me qua presentate non risultano migliori di quelle già conosciute; di Shelter from the Storm possiamo ascoltare la versione meno energica e incisiva fra tutte quelle a me note finora; You're a Big Girl Now non vale mezzo secondo di quella di Biograph e Idiot Wind, diciamolo, è uno scarto della take comparsa sulla TBS Vol. 1-3. Buckets of Rain e Lily , Rosemary ecc. sono le due belle sorprese del dischetto, mentre You're Gonna Make Me Lonesome When You Go è l'unico momento in cui, ascoltando, si potrebbe arrivare a dire <<Mah, forse se avesse utilizzato questa ...>>, ma è solo un attimo di tre minuti e quarantatré secondi. If You See Her è una canzone troppo meravigliosa per poterne parlare male: personalmente, sto trovando questa outtake come la migliore fra quelle emerse, ma, sia chiaro, non vale la definitiva con organo e percussioni.
Dell'importanza che Blood on the Tracks riveste e continua a rivestire nella mia vita ho scritto a più riprese e per motivi diversi qui e prima ancora qui e non ci tornerò sopra solo perché- per un semplice scherzo del destino -la Sony Music ha deciso di pubblicare un cofanetto a tema proprio al termine di un anno in cui, per il sottoscritto, le perdite dell'anima e del cuore hanno superato di gran lunga i guadagni e le conquiste. Sarebbe un atto troppo egocentrico.
Persino per uno come me.

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