Di tutti gli apprendistati, l'amore rimane senza dubbio il più arduo. Se ne era già ampiamente reso conto Roland Barthes, quando dette alle stampe i suoi Fragments d'un discours amoureux (1977), lo aveva imparato, dolorosamente e sulla propria pelle, Bob Dylan, quando, a metà settembre del 1974, aveva iniziato a incidere le demo attorno a cui sarebbe stato costruito Blood on the Tracks (per il sottoscritto, il più bel disco mai realizzato, nonché quello che tutti dovremmo, per motivi diversi, aver paura di "vivere") e lo sapeva bene anche Ingmar Bergman, che ancora prima scrisse e diresse per la televisione Scene da un matrimonio (1972). "Tutte le relazioni sono complicate e la loro vita è innegabilmente basata su un mucchio di meschini compromessi", ebbe a sottolineare il regista svedese nell'introduzione allo script che, un paio di anni dopo l'uscita del film, fu pubblicato anche in Italia (come Scene di vita coniugale) e godette pure di un successo inusuale per una sceneggiatura cartacea.
Barthes, Dylan, Bergman, fondamentalmente, hanno indagato con gli strumenti a loro più congeniali (la letteratura, la musica, il cinema) l'amore, il suo inizio, la sua evoluzione e, laddove necessario, la sua fine. Tutti e tre (Dylan e Bergman in maniera più o meno dichiarata) hanno attinto al proprio vissuto e si sono lasciati ispirare dalle proprie vicissitudini autobiografiche, usando così la rappresentazione artistica per scavare nelle proprie angosce e nelle proprie paure. Frammenti di un discorso amoroso e, ancor più marcatamente, Blood on the Tracks e Scene da un matrimonio sono opere che partono da una ricerca individuale per finire col parlare a ognuno di noi, e tutte e tre ci riescono ancora splendidamente dopo oltre quarant'anni.
Tutte e tre traggono le medesime conclusioni: una coppia diviene davvero adulta quando si mostra ormai libera da ogni convenzione e può guardarsi in faccia senza timori o ipocrisie, ammettendo placidamente che un determinato sentimento, lo stesso che l'ha tenuta insieme e l'ha fatta separare in un lasso di tempo più o meno breve, si è trasformato e che certe esperienze non sono cancellabili.
Che siano le ottanta voci ordinate alfabeticamente da Barthes, le dieci canzoni di Dylan o i sei episodi ("scene", secondo un lessico teatrale altrettanto caro all'autore) che compongono il film con Liv Ullmann ed Erland Josephson, cambia poco. Dylan ambienta la crisi matrimoniale on the road, ossia laddove egli si è sempre mosso a proprio agio, ma il viaggio, in Blood on the Tracks, si rivela quasi sempre un itinerario legato alla fantasia del protagonista piuttosto che un vero e proprio trip fisico. Bergman, al contrario, chiude i suoi personaggi in piccole stanze, memore del teatro da camera di Strindberg e là questi si sbranano, si mettono a nudo, litigano, gioiscono, si perdono e si ritrovano. Tangled Up in Blue presenta una coppia che vaga per una America fuori dal tempo e che, in una notte buia e fredda, decide di separarsi pensando che questa sia la scelta migliore ("Lei si voltò a guardarmi e disse/ <<Ci rivedremo sulla strada...>>"): in realtà, questo abbandono non diverrà mai definitivo. Allo stesso modo, il divorzio fra Marianne e Johan in Scene da un matrimonio dura il tempo della quinta scena (Gli analfabeti), la più carica di odio e disprezzo, quella in cui lo spettatore può solo domandarsi come abbia fatto una coppia così risentita e vendicativa a convivere per tutto quel tempo: infatti, solo nell'episodio successivo e finale, ci ritroviamo di fronte a due teneri amanti che hanno ormai preso coscienza del fallimento della loro passata relazione. Ritrovandosi nella clandestinità, si accorgono di conoscersi e di ascoltarsi come da sposati non hanno mai fatto.
Potenzialmente, sia Marianne e Johan che la coppia protagonista di Blood on the Tracks sarebbero potuti essere grandi estimatori del saggio di Barthes, una lettura introspettiva che avrebbe colmato le loro rispettive solitudini e gli avrebbe sicuramente accompagnati lungo un auspicabile periodo di transizione. Del resto, mi rendo conto che certi concetti possano risultare inadatti ad un'epoca social come la nostra, ma uscire da una relazione e stare soli è molto più lenitivo di ogni mellifluo trascorrere del tempo, oltre a rappresentare un autentico atto di coraggio verso noi stessi e il mondo che ci circonda. In compenso, una donna fragile, contesa e confusa che non si perita a rifugiarsi nei Fragments è la Vittoria interpretata da Laura Morante in Turnè (1990) di Salvatores. Lo fa in uno dei rari momenti del film in cui non si trova a lavoro, nè risulta in compagnia del suo ex-fidanzato o del suo amante: anzi, la scena in cui sfoglia- un po' distrattamente, va detto -il libro mostra una donna sola e a pezzi, causa primaria del proprio male e, al contempo, incapace di prendere una decisione. Non esiste personaggio più immaturo e codardo di Vittoria in quella piccola, grande commedia romantica di Turnè, così come è estremamente difficile ritrovare una donna complessa e strutturata come la Marianne di Scene da un matrimonio o una dama fiabesca e ormai iper-idealizzata come Sara Dylan.
I Marianne e Johan che troviamo in determinati momenti di Scene da un matrimonio potrebbero anche essere i protagonisti di Simple Twist of Fate: personaggi confusi, spaesati, intenti a passeggiare per i vicoli di una cittadina dove un sassofono risuona leggero nell'aria. "La gente dice che è un peccato/sapere e sentire le cose troppo in profondità./Io sono ancora convinto che la mia anima gemella fosse lei, ma ho perduto l'anello./Lei era nata in primavera, e io sono nato troppo tardi,/ colpa di un semplice scherzo del destino". Un amore autentico ma dato per scontato si tramuta, nel giro di un paio di canzoni, in un rimpianto autentico e genuino, oltre che nella lucida consapevolezza che lei è davvero cresciuta, è davvero proiettata oltre e, soprattutto, che non ha più bisogno di lui. E lui è di nuovo sotto la pioggia, mentre lei se ne sta all'asciutto, "con un dolore che va e viene/ come un cavatappi conficcato nel cuore".
Più o meno a metà del film di Bergman succede una cosa curiosa: Johan confessa a Marianne di essersi innamorato di una sua assistente, una certa Paula, e che è motivato ad andare a vivere con lei. E' la rottura irreversibile, il punto di non ritorno, una goccia che fa traboccare il vaso che- lo sapevano entrambi sin dall'inizio della storia -se ne stava in agguato là fuori, da qualche parte, in attesa di manifestarsi. Qua la visione dell'Ingmar Bergman uomo nordeuropeo e figlio ribelle di un pastore protestante differisce di molto da quella del Robert Zimmerman rockstar della provincia statunitense di origine ebraica: in tutto il cinema di Bergman è sempre la donna, maggiormente sviluppata ed evoluta, a subire la debolezza dell'uomo egoista e istintivo e a restare ferita. Perciò, se Idiot Wind fosse stata il quarto episodio di Scene da un matrimonio (invece della quarta canzone di Blood on the Tracks), avrebbe avuto una voce di donna. Fra tutto il sangue sparso sui solchi del disco, quello di Idiot Wind è veramente il più infuocato, nitido e rabbioso. Il protagonista tenta un'inversione a "U" inaspettata, vomita disprezzo sugli amici e i conoscenti che si stanno immischiando negli affari suoi ma, soprattutto, tenta di invertire i poli tramutando l'amore per lei in semplice e puro odio. Fino alla penultima strofa non emerge alcuna volontà, da parte del cantante-protagonista, di costruire o fare tesoro di nulla: "Hai dentro tanto di quel marcio/ che non ragioni neanche più./ A guardarti in faccia neanche ti si riconosce,/ ti è cambiata la bocca,/ i tuoi occhi non si specchiano nei miei./ Sei un'idiota, piccola/ ed è un miracolo che tu riesca ancora a respirare". Tuttavia, a brano quasi concluso, succede una di quelle cose che più volte, in questo periodo, assalgono anche me e non mi lasciano dormire. Dylan torna a sottolineare che lei non c'è più, che i libri che leggeva non riesce più neanche a toccarli e che ogni volta che passa di fronte alla sua porta (o al suo appartamento, al suo palazzo, alla sua via) vorrebbe soltanto non essere se stesso, ma subito dopo canta: "Lungo l'autostrada, lungo i binari, lungo la strada che porta all'estasi/ ti ho seguita sotto le stelle, braccato dal ricordo di te/ e da tutta la tua gloria furibonda", e a quel punto anche lui si spinge verso un territorio inesplorato. Ha salutato la bestia che latrava sul confine fra lui e la donna amata, realizzando che tutta la rabbia espressa fino a poco prima, tutto quel livore, quel risentimento non basteranno a riportare indietro il suo grande amore; il perché vive racchiuso nel verso conclusivo del brano: "Siamo degli idioti, piccola/ed è un miracolo se ancora riusciamo a nutrirci". Idiot Wind in poco più di sette minuti manifesta ciò che Scene da un matrimonio suggerisce per quasi tre ore: un amore lo si può costruire o distruggere, ma bisogna essere in due per fare entrambe le cose.
Nell'episodio Valle di lacrime si palesa il virus che condurrà, ineluttabilmente, Marianne e Johan al divorzio: questa infezione emotiva risiede nel fatto che lei, messa all'angolo ma riappacificata, tenta di mettere da parte sia l'orgoglio che il rancore, mentre Johan appare sia attratto che insofferente di fronte alla possibilità di un futuro. E' un momento debole, incerto e tremendamente autentico per tutta la pellicola, così come You're Gonna Make Me Lonesome When You Go somiglia a una breve elegia messa in appendice a quel poema omerico di Idiot Wind: eppure, ascoltare Dylan che canta di "situazioni finite in modo triste" e di "fiori che sbocciano all'impazzata sulla collina" ci permette di capire che nulla è più umano, profondo e appassionante dello scrivere di queste cose. Possono l'ansia, il desiderio di unirsi, la necessità di incontrarsi, la consapevolezza del nostro essere imperfetti trovare sfogo in un singolo pop di tre minuti? You're Gonna Make Me Lonesome When You Go- che di Blood on the Tracks fu anche il primo 45 giri -risponde da sola alla domanda. Va da sé il fatto che, appena sei anni fa, perfino la teen-idol disneyana Miley Cyrus ne abbia incisa una versione da gettare in pasto a milioni di dodicenni sparse per il pianeta.
Pur essendo dotato di una sua costruzione organica e capitolare, Scene da un matrimonio è stato più volte paragonato (e non sempre in maniera positiva) a un giro sulle montagne russe di un luna-park: magari si tratta di un luna-park decadente, simile a quello che, in un New Jersey di fantasia, ospita anche il Tunnel of Love cantato da Springsteen. Il ritmo dei dialoghi e i moti interiori dei personaggi non proseguono in linea retta: le fratture, le crisi e le piaghe della separazione non risultano essere meccanismi lineari. Questo vale nella finzione e, ahimè, nella vita vera. La perfetta solidità delle emozioni che ricoprono i lati A e B di Blood on the Tracks, al contrario, dimostra che Dylan, in questo frangente, è molto più risoluto di Bergman nell'affrontare i propri fantasmi e nel trasportare, nel momento del bisogno, i propri ricordi dallo stadio dell'illusione a quello, totalizzante, del sogno. Meet Me in The Morning è un blues ossessivo e minimale dove il novello trovatore degli anni Settanta può constatare di persona la caducità dei rapporti affettivi e lo fa addentrandosi in una campagna oscura e onirica (nel testo, il Kansas di inizio primavera) in cui "l'ora più oscura è sempre quella che precede l'alba" e in cui la frustrazione per il rapporto naufragato tende a spazzare via ogni altro sentimento profondo e cristallino sostituendolo col dubbio ("mi sono meritato il tuo amore, sì o no?").
L'eloquente secondo episodio del film (si intitola L'arte di nascondere lo sporco sotto il tappeto) prende il via con un dettaglio dietro cui si cela un'intera galassia, ossia Marianne e Johan che rincasano da teatro: hanno visto Casa di bambola di Ibsen, fanno finta che tutto vada bene e tengono entrambi egoisticamente a bada il proprio malessere. Più o meno, anche l'ebreo errante (e rocker) Bob Dylan si concede una pausa molto simile. Anche lui, magari per non pensare più alla domanda che lo attanaglia ("Ci sarà una nuova alba o vivrò per sempre nelle tenebre?"), varca la soglia di un teatro in cerca di distrazione: non è di certo il Teatro Reale di Stoccolma, e in scena non vanno Ibsen, o Strindberg, o Sofocle. No. E' un teatro di provincia, un palco polveroso e scricchiolante, insomma il contesto perfetto per inscenare una storia da cabaret ambientata nel selvaggio west e intitolata Lily, Rosemary e il Fante di Cuori. Lily è un'attrice da saloon, Rosemary è una donna bella ma infelicemente sposata col ricco possidente Big Jim, il Fante di Cuori è un bandito giunto in città per organizzare un colpo in banca. Mentre Rosemary rimane colpita dalla bellezza del forestiero, Lily e Big Jim (che sono amanti) guardano al Fante di Cuori per motivi diversi: lei è convinta di averlo conosciuto in passato, lui capisce che si tratta di un poco di buono, probabilmente ricercato dalla legge. Non ci vuole molto perchè Lily e il bandito gettino la maschera svelando di essere due ex che si sono appena ritrovati: appartati in un angolo, si baciano suscitando la gelosia di Rosemary, mentre qualcuno spara a Big Jim uccidendolo. Difficile capire di chi sia la colpa, anche perché, nel frattempo, la banca del paese viene rapinata. Il mattino seguente, Rosemary se ne sta sul patibolo in attesa di essere giustiziata per l'omicidio del marito, Big Jim viene sepolto nel cimitero e Lily torna a rimpiangere il Fante di Cuori, che ovviamente è scomparso. Gli attori escono di scena e Dylan rimane da solo, lasciando agli ascoltatori l'arduo compito di decifrare gli enigmi di una vicenda puramente allegorica come quella appena cantata. Chi, a mio avviso, è riuscito meglio di chiunque altro nell'impresa è stata Joan Baez (guarda caso, eterno amore mai chiuso nella vita e nell'arte dell'uomo di Duluth). Quella che segue è la sua versione, uscita appena un anno dopo l'originale e inclusa nella quarta facciata di From Every Stage:
"Questa storia mi ha preso tre mesi per scriverla, ma un periodo molto più lungo della mia vita perché imparassi. Ho provato una specie di affezione per queste persone mentre mi sono occupato di loro. Sono state del tutto contraddittorie, talvolta spaventate come bambini, altre volte interamente adulte", scrive (non senza una punta di timidezza) Bergman sempre nell'introduzione a Scene di vita coniugale (Einaudi, 1974), riferendosi un po' a sé, un po' al film, un po' a Liv Ullman e un po' a tutti quelli artisti che sentono di essere giunti al grado di maturazione in cui si può e si deve parlare dei propri problemi intimi senza magari necessariamente trovare un rimedio. Oggi si parla di "finale aperto" pensando a Inception di Nolan, ma cosa ha da invidiargli quello di Scene da un matrimonio? Bergman tenterà addirittura di dare un seguito e un senso di chiusura alla loro storia facendo ritrovare Marianne e Johan ormai ottantenni in uno dei suoi ultimi film, Sarabanda (2002). Sono persone invecchiate lontane, minate dalla vecchiaia e dalla paura della morte, eppure intimamente legate da qualcosa di impalpabile. Pur con le loro diversità, sono consapevoli di aver vissuto una crisi insanabile, "come succede a chi si ama", per dirla con i versi di If You See Her, Say Hello. E' chiaro che Marianne guarda Johan e ripensa al brivido doloroso di quando lui la lasciò, ed è altrettanto vero che il divorzio ancora brucia nel cuore malandato del vecchio Johan, così come in quello di Dylan. Eppure "lei vive ancora in me,/ non siamo mai stati lontani" e "se c'è una cosa che la rende felice/ non sarò io a mettermi in mezzo,/ anche se ho l'amaro in bocca da quella sera che ho cercato di convincerla a restare". Non ci è dato sapere se dal gennaio del 1975, momento dell'uscita di Blood on the Tracks nei negozi, qualcuno abbia più scritto una canzone d'amore più realista, concreta e disincantata di If You See Her, Say Hello (probabilmente, no). Un pezzo in cui perfino il sangue sembra, per un attimo, decelerare il proprio flusso, lasciando sulla scena neanche i due innamorati (o non più innamorati) protagonisti, ma le due idee che hanno l'uno dell'altro, le loro proiezioni, i propri pensieri. "Tramonto, luna gialla, rivedo il film del mio passato,/ conosco tutte le scene a memoria e sono passate così in fretta", canta Dylan prima di rivolgersi a un non ben identificato messaggero spiegandogli che, qualora lei tornasse dalle sue parti, la porta è aperta e lui non è difficile da trovare. Il compito di entrambi, in una lontananza dai contorni sempre più nitidi, sembra essere uno e uno soltanto: l'elaborazione di nuove forme di contatto. Senza di quelle, ogni possibilità di comunicazione si annienta e restano solo egoismo, opportunismo e tante altre illusorie risposte ai problemi di tutti i giorni.
Alla fine, la volontà di ristabilire un contatto e instaurare (o restaurare) l'autenticità di determinati sentimenti è un punto fermo di numerose opere d'arte di ogni tempo: dal mito di Orfeo ed Euridice passando per la Commedia dantesca, perciò Scene da un matrimonio e Blood on the Tracks potrebbero essere solo due esempi come altri. Eppure Bergman e Dylan dimostrano, tramite il nobile mestiere della narrazione, di amare i propri personaggi a un punto fino al quale autori più "classici" o firme ritenute maggiormente "autorevoli" (anche se, verrebbe da chiedersi, cosa c'è di più "autorevole" di un premio Nobel in letteratura?) non sempre si sono spinti: il primo lo ha dimostrato girando da ottuagenario, con una telecamera digitale e nei propri studi di posa domestici, una tenera epigrafe alla sua più celebre storia d'amore; il secondo lo ha fatto componendo, incidendo e continuando a suonare in concerto per decenni Shelter from the Storm. Shelter from the Storm è immensa poesia comunque la si metta. Potremmo leggerla in lingua originale, tradurla, ritmarla, rimarla, suonarla, cantarla e ci lascerà sempre interdetti per la sua bellezza e i suoi significati. L'Io narrante, la rockstar ferita ma ancora decisa a percorrere la strada, ha ripreso il cammino, il dialogo fra i due innamorati è immaginario e autentico come non mai. L'amore, il fato, il sogno e la realtà sono concetti che restano indietro. Le ultime pallide ombre di una colpevolezza a cui ormai neanche Dylan sembra più credere fanno breccia in un animo orgoglioso e travagliato: "Ora c'è un muro tra di noi, qualcosa si è perduto,/ ho dato troppo per scontato, ho frainteso certi segnali./ E pensare che tutto cominciò in un mattino ormai dimenticato./ <<Entra>>, disse lei, <<Ti darò un riparo dalla tempesta>>". Trattandosi di uno dei testi più dibattuti e studiati della produzione dylaniana, chiunque ha visto tutto e il contrario di tutto nello Shelter from the Storm, ma penso possa bastare leggervi l'immagine di una sicurezza relazionale a cui l'autore sta faticosamente rinunciando e che ama, e che forse amerà sempre. Se Idiot Wind era stato il punto di non ritorno della separazione fisica nella storia fra Bob e Sara, Shelter from the Storm (che avrebbe raggiunto il proprio apice espressivo nella veste elettrica della Rolling Thunder Revue) è un complesso paradigma conclusivo di tutto Blood on the Tracks pur non rappresentandone la vera e propria conclusione.
Siamo arrivati così alla scena finale, quella che si svolge Nel cuore della notte in una casa buia da qualche parte del mondo, una casa che Marianne e Johan, Bob e Sara e chissà quanti altri milioni hanno visitato e continueranno a visitare dentro e fuori dal tempo immemorabile. "Chi semina vento raccoglie tempesta", dicono, ed effettivamente di vento e tempeste Dylan ha sempre cantato molto e di pioggia, anzi di vere e proprie "secchiate di pioggia" canta anche in Buckets of Rain. "Sono stato mite/ e duro come una quercia,/ ho visto gente in gamba svanire come fumo", spiega il viandante prima di riportare tutto a un'estrema semplicità: "Di te amo il sorriso/ e la punta delle dita,/ il modo che hai di muovere le labbra/ e di guardarmi così disincantata./ Tutto di te riesce a farmi stare male", sono parole pacate e tranquille, svuotate di ogni tipo di rabbia, prive di esagerazioni e di slanci passionali. Sono cose che nell'arco di una vita possiamo sentire raramente, e, quando succede, escono sempre dalle bocche di chi si conosce davvero bene, da quelle di chi magari si ama o magari non si ama più e da quelle di chi, proprio in virtù di una ritrovata e insperata tranquillità (che non necessariamente coincide con la serenità), è disposto ad una mite rassegnazione. Non importa se la nostra anima non potrà più sentirsi piena e arricchita e se i nostri futuri sentimenti appariranno come un lieve appannaggio di infuocati amori conclusi: "La vita è triste,/ la vita ti frega,/ puoi fare solo quello che devi,/ perciò fallo e fallo bene./ Io con te mi comporterò così,/ che te ne pare?".
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