lunedì 20 giugno 2016

I 40 anni di "Desire" [Extra]


"La vita è l'anagramma dei nostri desideri"
                                                            Jean Paul

"- ... Ma allora è in classe con te questa ragazza?
- Sì. Si chiama Desiré.
- Ah, come il disco di Bob Dylan."
              (stralcio di conversazione fra me e un musicista; da qualche parte lungo l'Autostrada del Sole, 24 maggio 2004)

In effetti, c'era una Desiré in classe con me al Liceo. Facemmo insieme solo la quarta ginnasio, poi lei bocciò e forse cambiò pure scuola. Non la vedo da anni e di lei ricordo molto poco, a parte che aveva uno spiccato accento sardo e le piacevano i fumetti di Tex (entrambi due grandi pregi, per quel che mi riguarda). Tuttavia, sono sicuro che, appena rientrato da un viaggio di famiglia in Svezia (un viaggio volto essenzialmente ad accompagnare mia sorella e i suoi colleghi violoncellisti all'ottavo European Youth Music Festival) e dopo aver tenuto la conversazione riportata all'inizio, le domandai se era cosciente di chiamarsi come un disco di Bob Dylan. Mi guardò meravigliata e rispose di no. Non sembrava importarle molto.
Purtroppo, sia io che il mio interlocutore- un ragazzone di poco più grande di me che si divideva fra le orchestre classiche giovanili e la militanza in un paio di rock band delle mie zone -eravamo caduti in un madornale errore linguistico, lo stesso perpetrato, quasi trent'anni prima e su scala ben più grande, dalla generazione dei nostri padri. Desire non era, di fatti, la versione anglofona e privata dell'accento di un nome proprio dietro cui si celava qualche fascinosa amante di mr. Dylan (per quanto molte canzoni del disco siano ardentemente erotiche), ma il semplice (si fa per dire) sostantivo che sta a significare "Desiderio".
La donna  che sedeva dietro lo sgabello del negozio di dischi a cui ero solito devolvere il mio obolo settimanale doveva conoscere bene questa incongruenza. Magari lei stessa, adolescente ai tempi dell'uscita dell'album, era caduta nel medesimo errore. Mostrò grande comprensione quando le domandai se avevano "Desiré". <<Sì... tu vuoi dire Desire. Ce lo abbiamo. Vado a prendertelo>>. La Columbia aveva ristampato da un anno su compact l'intero catalogo di Dylan, rendendo inoltre alcuni album disponibili anche in un formato nuovo, misterioso e accessibile solo ai giapponesi o agli ascoltatori più abbienti, il SACD. La ristampa europea precedente risaliva al 1986 e quei vecchi cd, oltre a non aver goduto di alcuna miglioria tecnica a livello di suono e di mastering, erano ormai introvabili. A questa prima serie apparteneva anche il Greatest Hits che mi avevano regalato per il mio quattordicesimo compleanno: in realtà trovava già posto nella discoteca di casa come LP, ma  non avevo avuto il cuore di rimandare indietro il dono e mi ero tenuto volentieri quel doppione.
Conoscevo bene la copertina. Bellissima. Una delle copertine più belle di tutta la carriera di Dylan. Neanche negli anni di Nashville o di Woodstock il cantante aveva osato agghindarsi così sfacciatamente country&western come per le foto di Desire. I colori erano quelli dell'estate indiana. Il soprabito, pesantemente scurito dall'esposizione della macchina fotografica di Ruth Bernal, richiamava le coperte dei nativi americani e il tutto appariva bizzarro, perchè Desire- sebbene io non lo sapessi -era uno dei dischi meno rurali (almeno a livello di composizione e registrazione) e pure meno autunnali dell'intero corpus dylaniano. Come avrei avuto modo di leggere parecchi anni dopo nella pregevole traduzione italiana di On The Road With Bob Dylan (Minimum Fax, 2014) di Larry Sloman, Bob Dylan se ne era tornato a New York nel giugno del 1975, un po' per gettarsi alle spalle il divorzio da Sara, un po' per rivedere gli amici, i locali e gli ambienti in cui aveva iniziato la propria carriera, tredici anni prima. Complice il buon successo di critica e vendite di Blood On The Tracks- un successo di fronte a cui lo stesso cantante si meravigliò asserendo <<Ma davvero alla gente piace sentire questa cosa? Davvero interessa quel tipo di dolore?>> -e il prodigioso flusso che l'ispirazione di Dylan stava conoscendo, stavolta la Columbia volle fare le cose in grande, impiegando un rinomato produttore (Don De Vito) e fornendo grandi libertà, le tecniche di registrazione più avanzate (il disco sarebbe stato inciso su moderne apparecchiature quadrofoniche brevettate dalla Dolby) e il supporto di amici e collaboratori di ogni genere.
Il ritorno a New York raggiunse il culmine ad inizio luglio, con Dylan e i suoi accoliti che si muovevano da un locale notturno all'altro, bevendo e passando al setaccio i palchi del Village alla ricerca dei nuovi talenti. Lui sentiva le energie del proprio tempo. Aveva sempre avuto le antenne lunghe per catturarle, decodificarle, anticiparle e si faceva coinvolgere- se non travolgere -dall'energia altrui, di chi intorno a lui parlava, componeva, cantava.
Patti Smith e la sua band lo impressionarono enormemente: iniziò ad agitarsi, comprendendo il potenziale di quello che nel giro di un paio di anni tutti avrebbero chiamato New-Wave e Punk e sostenendo che nel suo prossimo tour avrebbe desiderato tanto un complesso di quel genere. In realtà, la Rolling Thunder Revue sarebbe stata molto diversa e Dylan avrebbe suonato spudoratamente punk una sola volta, nel 1984, ospite presso gli studi televisivi dove veniva registrato il David Letterman Show e dove era stato chiamato, assieme ai Plugz, a fornire un assaggio del bellissimo Infidels. Ma al di là di questa epifania, la New York del 1975 era davvero diversa da quella in cui un giovane folksinger di Duluth aveva mosso i suoi primi passi. Non c'erano più lui e la Baez ad esibirsi al Cafè Wha?, nè il giovane e sconosciuto Jimi Hendrix da Seattle, nè i readings dei poeti beat agli angoli delle strade. Certo, Allen Ginsberg era sempre vivo e vegeto, e come lui il vecchio William S. Borroughs. Tim Hardin si muoveva nei vicoli senza farsi riconoscere, intento a svendere il proprio talento per un buco facile e a buon mercato. Phil Ochs, uno dei mastri cantori della protesta, si appoggiava ai banconi prima di tracannare lunghe sorsate dall'ennesima bottiglia di whisky. Ramblin'Jack Elliott e Bob Neuwirth tiravano avanti, stentavano un po' a tenere insieme il loro pubblico di ex-contestatori e non riempivano più la sala del Bitter End (di fresco rinominato The Other End, quasi a voler rappresentare un tipo di fine diverso da quella degli altri colleghi). Tutti costoro e molti altri non avevano retto all'onda d'urto, ma per Dylan era diverso. Doveva essere diverso. Lui sapeva già che sarebbe sopravvissuto agli anni Settanta meglio di chiunque altro, amico o nemico, sostenitore o detrattore. L'etichetta discografica, dopo il comprensibile spaesamento di fronte a una delle tante incriminate trilogie della sua carriera (in questo caso, quella composta da Nashville Skyline, Self Portrait e New Morning) e in seguito al crollo delle vendite (ma anche in seguito al momentaneo "passaggio" di Dylan alla Asylum di David Geffen e alla West Coast, il cui sound risuonava in ogni passaggio di Planet Waves), si era mostrata fiduciosa e ottimista. In quei giorni lontani, la Columbia stava impiegando mezzi e fiducia anche per un altro astro nascente, un giovanotto del New Jersey braccato e voluto dal patron John Hammond in persona ma il cui successo discografico aveva faticato a decollare. Il giovanotto si chiamava Bruce Springsteen e in quell'agosto sarebbe uscito il suo terzo album, Born To Run. Anche lui, all'epoca residente nella Grande Mela per apportare gli ultimi ritocchi alla sua sofferta creatura, bazzicava il Village e anche lui, come tutti, amava e doveva qualcosa a Bob Dylan. Avrebbe lasciato quella "città di perdenti" in settembre, per andare a vincere via lontano, sulla sua Thunder Road.
Sempre nel suo libro, Sloman riesce a far respirare l'energia, la creatività, la nostalgia e anche una certa dose di "vitellonismo" di quei giorni newyorchesi. Del resto, cosa sembra il capitolo che descrive l'assunzione completamente casuale della violinista Scarlet Rivera se non un atto di cronaca degno di un vero vitellone? La Rivera- lo si può intuire sia ascoltandola in studio che dal vivo -non era poi questa abile maga del violino, ma Dylan la vide lì, una zingara sui marciapiedi di Manhattan in una notte afosa, e non seppe resisterle. Anche in quel caso, il desiderio ebbe la meglio su di lui e anche in quel caso la Columbia accondiscese, mettendo la misconosciuta violinista sotto contratto.
Elliott Murphy, cantante ma pure giornalista e critico musicale, ha sempre descritto Desire come "una novella musicale densa, arrabbiata e senza pietà", un romanzo incrociato fra uno di Steinbeck e uno di Kerouac. In effetti, una buona parte di queste "canzoni in technicolor" vede protagonisti antieroi e ribelli destinati a fare una brutta fine o a rinunciare ad una delle prerogative essenziali della poetica dylaniana: la Libertà. Ci sono il pugile di colore Rubin "Hurricane" Carter ingiustamente carcerato nella relatà e per cui Dylan torna a scrivere, dopo dodici anni, una protest song, il mafioso Joey (più vicino ai romantici gangster di Howard Hawks che non ai padrini coppoliani già in voga nel 1975) che- seppur nella fantasia dell'autore -sta scontando una condanna in un penitenziario, un misterioso ladro di tesori in Isis (forse il brano più importante dell'album), il Ramon che si lascia alle spalle l'America in Romance in Durango (divenuta molto popolare in Italia grazie ad una accorata versione di Fabrizio de Andre' presente nel capolavoro Rimini) e un'intera ciurma di pirati, avventurieri, bari e mercenari radunata in Black Diamond Bay (che di Desire è forse il capitolo meno convincente e perfino il più ambizioso e barocco).
Non tutto, in Desire, è perfetto. Al contrario di Blood On The Tracks, non è mai stato un disco da isola deserta e brani come Mozambique non sono assolutamente all'altezza della migliore vena poetica di Dylan. Joey è interminabile e prolissa, Romance in Durango suona talmente carica di suggestioni musicali da risultare disomogenea, Black Diamond Bay prova a trasporre l'azione cinematografica di un vecchio film di John Huston nella forma-canzone senza riuscirci troppo bene (ce la farà, dieci anni dopo, l'epica Brownsville Girls, inopportunamente "nascosta" in uno dei più brutti album in studio che Dylan abbia mai prodotto). Ma Desire è anche un'opera frutto di un sogno e, nuovamente, di un'illusione: quella della ricostruzione di un matrimonio già celebrato, concluso e cantato. E se Blood On The Tracks è sotto ogni punto di vista il capolavoro della maturità figlio della disillusione e di un amore finito, Desire è un immaturo, momentaneo ritorno ad una speranza di preservazione di quello stesso amore. Questa speranza, nettamente in contrasto col richiamo della strada, divide la psiche e alimenta la creatività di Dylan a tal punto che egli deve chiedere l'aiuto di un'entità esterna (Jacques Levy, co-autore di sette delle nove canzoni dell'album) per padroneggiare e limitare il flusso di visioni, fantasie e suggestioni cui si ritrova sottoposto nell'estate del 1975. Il celebre caos imperante delle prime notti di registrazione nello studio "E" della Columbia a New York rifletteva lucidamente la confusione mentale e sentimentale in cui Dylan si muoveva, scriveva e componeva le sue nuove canzoni, suscitando le ire di Eric Clapton (lasciò dopo due giorni) e di De Vito e disfacendo di continuo la tracklist. Alla fine, Rita May sarebbe divenuta un 45 giri ma non avrebbe visto la luce sull'album, Abandoned Love (proposta dal vivo il 3 luglio nel Village) fu incisa ma non sarebbe uscita prima del 1985, Catfish e Golden Loom avrebbero rappresentato null'altro che due titoli nero su bianco fino alla loro inclusione in The Bootleg Series vol. 1-3 (1991). Per una volta, le outtakes di un album di Dylan erano quasi tutte pienamente rinunciabili e la loro assenza non tolse nè aggiunse nulla al risultato finale (Infidels rappresenterà il ribaltamento assoluto di questa tendenza). Magari Abandoned Love avrebbe funzionato bene come ulteriore testimonianza della fine del matrimonio con Sara, ma rimase indietro rispetto a capolavori come Isis, One More Cup Of Coffee e alla stessa Sara. Nelle prime due, all'interno di storie e cornici diverse, Dylan si dimostra del tutto incapace di staccarsi dall'idea di una Donna divinità sposa (Isis, appunto). Isis presenta un dialogo di impeccabile realismo lirico fra ex-coniugi che si conclude con Lei che domanda a Lui- appena rientrato da un viaggio effettuato in "nessun luogo in particolare" -<<Ora che sei tornato, rimarrai?>> e con Lui che risponde <<Se ancora mi vuoi, sì>>. In One More Cup Of Coffee lo stesso personaggio, il cantante ramingo, dovrebbe ripartire ma non se la sente: indugia, si lascia versare un'altra tazza di caffè e attende un segno del destino. Sapeva meglio di chiunque altro che quell'ideale di amore, storicamente ancorato agli anni Sessanta e ad un determinato stile di vita, era ormai tramontato. Lo avevano già cantato Lou Reed in Berlin e John Lennon in Walls and Bridges e Dylan era arrivato secondo, con una manciata di "canzoni di redenzione" (per dirla con Allen Ginsberg) che mostravano l'artista, il viaggiatore, l'uomo in uno stato di perenne incertezza.
Le ancore della ciurma che nell'estate del 1975 aveva costruito Desire a New York sarebbero salpate di lì a poco e il disco avrebbe fatto la sua uscita nei negozi nel gennaio del 1976. Frattanto, la navigazione di Dylan sarebbe stata ancora a lungo deviata dalle suggestioni dei tempi, degli incontri e delle situazioni. E anche dai suoi amori, alcuni persi (Sara), altri recuperati (Joan Baez), altri soltanto sognati (Ronee Blakely). Il cantante, è risaputo, si innamorava spesso e altrettanto spesso, amaramente, si disinnamorava. Certamente si innamorò della situazione che venne a crearsi, per alcuni mesi, all'interno della squadra del primo turno della Rolling Thunder Revue (30 ottobre-8 dicembre 1975). Questa leggendaria carovana era resa viva da un sacco di artisti, amici e parenti che facevano musica insieme, vivendo insieme come assai raramente era accaduto ad una rockstar. Erano una strana banda, eterogenea, bizzarra, inclassificabile.
In linea di massima, nel tour della Rolling Thunder Revue in molti provarono ad entrare per collaborare, curiosare, scroccare, ma la concorrenza era tanta e nel febbraio del 1976 i problemi economici e burocratici già si erano impadroniti di questo circo musicale, di cui molti appuntamenti furono cancellati e al quale, pian piano, il pubblico cominciò a disinteressarsi. Il 16 maggio, Don De Vito e alcuni tecnici della CBS registrarono l'intero concerto di Fort Worth, Texas, ma solo quattro canzoni furono ritenute soddisfacenti. Il penultimo spettacolo si tenne a Fort Collins in Colorado, il 23 maggio. La Columbia fece le cose in grande: oltre a far incidere nuovamente lo show, vendette i diritti televisivi alla ABC e comprò la copertina del settimanale Tv Guide. Gli ascolti furono deludenti e l'album live tratto da quelle due serate (Hard Rain) avrebbe ricevuto pesanti stroncature e pessime vendite. Sempre nella notte del 23 maggio, dopo il concerto di Fort Collins, Sara disse addio per sempre a Bob Dylan.
Il viaggio cominciato "alle calcagna di Rimbaud"- tanto per citare le splendide note di copertina scritte dallo stesso Dylan "in una vasca da bagno del Maine in condizioni ideali" -e proseguito "scorrendo nel ventre perduto della civiltà stagnante" volgeva al termine. Renaldo e Clara, mirabolante monstrum cinematografico di quasi cinque ore, sarebbe stato il melò di quei mesi vissuti on the road, ma nessuno lo avrebbe amato, guardato, compreso. Forse proprio Sara poteva possedere la giusta chiave di lettura di un'opera che essenzialmente parlava di lei. Ben due anni sarebbero passati prima del ritorno in studio di Dylan, che con poche canzoni e una session-band completamente nuova avrebbe preso parte alla magnifica rivoluzione musicale del 1978. Street Legal- che nello slang americano è una formula utilizzata dai meccanici per indicare quei motori truccati che però sono comunque riusciti a passare la revisione -non sarebbe stato il nuovo capitolo di nessuna saga (una presunta "trilogia degli anni Settanta" non è mai esistita, sia chiaro), ma il crudo diario di un artista divorziato intento a riappropriarsi del soul, del R&B e del funk e smanioso di affacciarsi, ancora, sulla strada. La "revisione" a cui il titolo alludeva era la fine stessa del matrimonio e dell'amore, la cui agonia era stata ampiamente documentata in Blood On The Tracks, Desire, Hard Rain e Renaldo e Clara. I toni narrativi ma perfino musicali del disco erano cinici, rabbiosi e misogini non perchè- come scrisse qualche sedicente fenomeno di Stampa Alternativa nell'Italia degli anni di piombo -Dylan odiasse e schiavizzasse le donne, ma perchè il vero amore si era dimenticato di lui; e questa cocente sconfitta, sublimata in varie forme di lutto distribuite lungo i tre anni che separano Idiot Wind e Where Are You Tonight?, avrebbe portato il poeta ad un nuovo viaggio, un viaggio che lo avrebbe fatto montare su un treno mai preso prima e diretto verso una salvezza tutta cristiana.



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