mercoledì 26 marzo 2014

[Recensione] Lei

Her è un complemento oggetto, oltre al titolo del nuovo film di Spike Jonze. Her e non She: una distinzione cui la traduzione italiana (ormai tanto inusuale quanto insensata, specie in questo caso) non rende giustizia. Her perchè Lei, Samantha (Scarlett Johansson o Micaela Ramazzotti, doppiatrici di quella che è "soltanto" una voce), è un oggetto, un sistema operativo di tipo OS.1 che viene regolarmente acquistato dallo scrittore epistolare degli altri Theodore (J. Phoenix), uomo finito e logorato sul piano sentimentale, malinconico per natura e prigioniero di ricordi che tornano- perchè, alla fine, ritornano sempre -sottoforma di flashback a loro volta simili a film, a frammentari stralci (o megabyte) di quello che è il suo disco fisso. Il melodramma costruito attorno all'amore fra l'uomo e il proprio computer non è una novità: chi si ricorda di I Love You di Ferreri (o S1m0ne, o Ruby Sparks...), sa bene di cosa si parla. Ciò che conta è tutto il resto: l'ambiente in cui Theodore si muove, questo futuro fatto di superfici levigate e minimali, di pantaloni ascellari orrendi e camicie monocromatiche; un mondo e un universo irreale, sgombro da inquinamento, automobili, delinquenza, e forse- o almeno così sembra -perfino dalla morte. La parola e non l'azione è padrona indiscussa della scena, la vera protagonista del film. I dialoghi (giustamente premiati anche ai recenti Oscar) fra Theodore e Samantha sono lo strumento tramite cui Jonze scandisce la propria opera, che passa davvero dall'essere un "film sulla masturbazione" (A. Abruzzese) ad "un'opera tragica sul solipsismo" (Giulio Sangiorgio), pur rimanendo, alla base, una love-story canonica. E con ogni probabilità Lei è, ancora prima di un superbo trattato sui rapporti di coppia, uno dei più grandi film di fantascienza di sempre. Ancora una volta, Jonze sperimenta, trova la propria forza di autore nel raccontare molto mostrando poco (l'assenza praticamente totale di una connotazione geografica e temporale porta a dubitare perfino che si parli del nostro mondo). Gli unici effetti speciali sono le canzoni udite in cuffia (gli Arcade Fire, quando non cantano, sono perfino godibili) e le scenografie eteree e permanenti di K.K. Barrett. A Joaquin Phoenix spetta l'arduo compito di far poggiare sulla propria straordinaria interpretazione tre quarti del film. Per tutto il resto, Lei rappresenta tutta quella meravigliosa magia a cui vorremmo assistere ogni volta che ci sediamo in una sala cinematografica.

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