sabato 2 febbraio 2013

La canzone di Janie [Trame]

PREMESSA

Sono stato quattro anni senza considerare minimamente questo racconto che scrissi nel 2008. Nel correggerlo, ho cercato di dargli una forma migliore e di renderlo, per tanti versi, meno "tamarro". Personalmente, lo ritengo un po' troppo "dannato" e romantico, ma alla fine è una storia rock & roll, pensata con musica rock & roll sparata ad alto volume e dedicata a chi, quando certe "ballatone" rock escono dalle casse di uno stereo, ancora si commuove. Buona lettura.

LA CANZONE DI JANIE

Sebbene volesse condividere le danze, Valentine non volle interrompere questa bellezza. Il suo bel corpo, aggraziato, si muoveva lentamente seguendo il ritmo. La sua innocenza era incantevole, la sua bellezza senza fiato. Valentine sapeva che si sarebbe incazzata con lui per il suo modo di fare furtivo: guardarla senza che lei lo sapesse. Ma il suo voyeurismo da ragazzino nel corpo di un adulto lo incoraggiava e non gliene importava delle conseguenze. Era solo per i suoi occhi dopotutto. I suo occhi scintillavano, ricordandogli l’oceano immenso che copriva il suo corpo formoso, e una patina di sudore risplendeva su di lei. Era troppo bella per essere vera.
Durante questo momento di pura fuga euforica, Valentine realizzò che c’era solo una donna in grado di essere amata dolcemente. I suoi occhi scintillarono. <<Potrebbe avermi sentito>>, pensò mentre si era girata verso di lui. Non volle rovinare l'atmosfera, solo divertirsi. Le sue labbra sottili sorrisero gentilmente. Poi la canzone iniziò.
Un attimo di terrore si manifestò in lui quando si accorse della canzone. Sudore freddo uscì dai suoi pori, tormentandolo. La sua visione era distorta. Respirare diventò difficoltoso, complicato. La disperazione attaccò e devastò ogni muscolo del suo corpo. Ancora peggio del dolore era la sua paura. L’ansia si impadronì quando la musica si levò alta dallo stereo.
Ogni cosa perse il suo naturale corso; i muri, i fiori, l’aria divennero surreali. Il volume restava alto, mentre la maggiore difficoltà era riuscire a muoversi. Doveva togliere il cd, ma i suoi piedi erano come blocchi. Non poteva più muoversi. Lei aveva la pistola puntata alla tempia.
Zak si svegliò coperto dal sudore, l’urlo fermo in gola. Le sei ore successive le passò in un coma da droga e alcool che lo lasciò come se stesse dormendo. Il sonno era ormai una comodità rara ed impossibile da realizzare senza assistenza. Non gliene fregava se dormire sei ore o sei minuti, l’incubo era sempre in agguato. Niente pillole soporifere o antidepressivi potevano risparmiarlo. Lui aveva scritto la canzone e per questo sarebbe stato sempre dannato. Con mani tremolanti, si tolse il sudore e passò le dita sulle lenzuola di satin. I suoi bracciali d’oro e d’argento titillarono insieme. Rotolarono dalla sua parte, il suo sguardo fisso sulla sveglia sopra il comodino nero con un frigorifero costruito alla sua base. Non gli importava che ora fosse; il tempo era il denaro degli altri. Vicino all’orologio c’era qualcosa di molto più importante del tempo o dei soldi. Lentamente si sedette. Gli occhi torturati scrutarono il posacenere nero di marmo, cercando preziosi avanzi di cipria. C’erano invece cerini bruciati, sigarette, ma niente droga. Non fa niente. Poteva sempre procurarsela. Seduto alla base del letto, Zak cercò in basso e aprì il comodino e il frigo. Dentro c’erano delle Bud, soda, e due bottiglie di Dom Perignon. Ne prese una gelida, bevendola in un sorso. Dietro di lui vecchi dischi, finiti più di un mese prima. L’album era al mixaggio, se a Zak piaceva ciò che sentiva, approvava e poi il disco sarebbe rilasciato come in programma. Sennò, invece, dovevano remixare tutto finché non approvava. Così, dopo, a che cazzo sarebbe servito? Avrebbero rimandato il più possibile prima di riuscire finalmente a rialzarsi.
Peggio della sua camera, c’era il bagno. Un disastro. Creme, vestiti, sporcizia e biancheria dappertutto. Usava il radar per cercare la tazza, trovava la porcellana, combatteva l’urgenza di vomitare, e trovava se stesso. Rientrò in bagno, non sentendosi umano, bensì un robot vestito di carne umana. C’era un lieve dolore agli addominali che cresceva, ma vi era abituato. Questo, come molti altri difetti nella sua salute, poteva essere attribuito al suo eccessivo stile di vita. Dietro l’alta gioielleria, Zak vestiva semplici calzoncini. Inciampò sopra il comò, togliendo un paio di pantaloni in pelle nera fatti su misura, e fece per cambiarsi. Trovò un kimono in seta viola scuro appeso sull’armadio e lo indossò.
In un cassetto c’era un grammo di cocaina dentro una fiala. Se la sistemò sulla lunga unghia della mano destra, e quel tormentato artista tirò su otto esplosioni dell’aspirina del rock. Il kimono sembrava freddo contro la sua calda carne. Si meravigliò se fosse febbricitante e concluse che lo era. Era sempre di corsa, con una febbre continua. Era così, sicuramente, finché aveva le sue cose da fare. Finì la birra, tossì e sputacchiò in direzione del cestino, sempre pieno di robaccia. Lo sguardo andò allo specchio: era talmente indebolito che non si riconobbe. Certo, i lunghi capelli biondi e i tatuaggi gliene davano l’aria, ma si vide lo stesso così fragile. Zak sembrava uno di quei tipi sempre pronti per un ricovero in ospedale. La sua bella faccia era blu, smorta, senza espressione. Una barbaccia copriva il mento e i suoi occhi smeraldo apparivano due gemme autentiche, preziose, di pura bigiotteria.
Il concerto durò oltre due ore di feroce elettricità.
Dopo l’ultimo pezzo, era tempo di festeggiare. Zak si divertì con due troie insaziabili in hotel. Nell’intimità del bagno si iniettò dell’eroina. Non abbastanza per farlo dormire, ma neanche abbastanza per farlo sballare. Le due troie lo fecero sentire solo meglio. Dopo essersi tolto i jeans marroni, raggiunse le donne nude, e così la rivalità iniziò. La droga non gli fece ricordare molto, ma Zak ricordò un Ren McCormack ubriaco che camminava lungo la camera d’hotel. Il batterista aveva sbagliato stanza, scambiandola per la sua. E, secondo i principi dello spirito goliardico, Zak gli offrì una ragazza. Ren declinò, aggiungendo che doveva trovare se stesso, e se ne andò. Il triangolo continuò senza intoppi. Poco dopo bussarono alla porta. Pensando che fosse Ren, gli disse di entrare. Ad aspettare dietro la porta c’era Janie. Aveva preso il primo treno per stare con lui. Successe un macello. La ragazza scoppiò in uno scatto d’ira, e questo fu l’inizio della loro fine.
Zak doveva rompere con il passato. Il suo ginocchio sinistro scricchiolò forte e sistemò la sua gamba. Cercò il telefono. Schiacciò un bottone. Il numero di Janie era registrato e sentì il telefono squillare. Nello stesso telefono erano registrati il numero del manager, della band, della casa discografica, e di molti spacciatori. Dopo che non ebbe ricevuto nessuna risposta da parte di Janie, schiacciò un altro pulsante. I suoi braccialetti tintinnarono insieme e dopo pochi secondi ricevette una risposta.
<<Si?>>, rispose scocciata una voce afona.
<<Sono io...il Cigno>>, disse ingoiando cocaina direttamente dalla gola
<<Il mio uomo, Zak!>> sovvenne la voce di Andrea, con fare quasi pubblicitario, neanche fosse una segreteria telefonica.
<<Che posso fare per te?>>
<<Cocaina ed eroina, subito...>>
<<Nessun problema! Ricordi cosa feci per te la scorsa notte?>>
<<Sì>>, mentì.
<<Sei in debito con me di tre conti per questa merda, amico>>, volle ricordare lo spacciatore, in caso che la memoria del cliente avesse fatto cilecca. Poi proseguì.
<<Sono sicuro che avrò ciò che manca. Se non li troverò, tu non avrai la roba. Comunque tranquillo...>>, disse ancora Andrea, come se stesse facendo un favore a Zak.
<<Spero che tu muoia>>, pensò Zak tra sé e sé.
Poi accese una sigaretta e prese un’altra birra. La cenere si consumò lentamente. Il secchio della spazzatura strabordò di schiuma rosa fino al buco. Lui lo guardò, divertito, e camminò verso le tende scure aprendole e facendo entrare il sole nella camera. Fanculo annunciò, con il dito medio rivolto al cielo. La vista dal suo balcone era ampia, ma molto spesso Zak chiudeva le tende non volendo far parte del mondo. Era salvo, nel suo appartamento. Contro un muro lontano, nascosto nell’angolo, c’era uno Steinway d'epoca. Spese molto tempo su quel bellissimo strumento, e anche se non lo suonava, il piano gli dava lo stimolo. Era uno strumento di precisione e grazia. A fianco del piano, posate comodamente, c’erano una dozzina di chitarre: principalmente si trattava di Gibson Les Paul, Fender Stratocaster, e Fender Telecaster. Le chitarre che teneva nell’appartamento erano una di quelle cose di cui gli importava veramente. Lo spacciatore suonò, svegliando Zak dai suoi pensieri. Andò al citofono e schiacciò il bottone per farlo entrare. Pochi minuti dopo, Andrea era all’interno dell’appartamento. Dozzine di dischi d’oro e di platino decoravano il muro. Ore e anni a programmare, scrivere, registrare, perfino lottare. Il suo modo di comporre era dovuto ai suoi dolori interni, a quelle lente canzoni blues simili al suo stile di vita stentato. Queste erano le canzoni delle quali era molto orgoglioso e credeva che potessero resistere al trascorrere del tempo. Le canzoni veloci, molto hard rock, spesso avevano un piccolo significato o avevano dei significati minori. Sfortunatamente, i premi non erano premi senza Janie. Zak si scusò un attimo e andò in bagno. Nascosto, al sicuro, c’era un altro disco di platino. Tolse il disco dal muro, fece la combinazione, e aprì la cassaforte. Dentro c’erano gioielli, documenti, oltre 40.000 euro in contanti, una pipetta, e una rivoltella carica. Prese alcuni rotoli da duecento e tornò in salotto lasciando la cassaforte chiusa, ma senza combinazione. Andrea era seduto sulla poltrona di pelle, i piedi sopra il tavolino da caffè in marmo, guardando in direzione dei suoi pantaloni sudati e calato in una felpa con su scritte parole totalmente prive di senso. Si aiutò con un’altra birra.
<<Quant’è il totale?>>
<<Inclusa la scorsa notte, sono duemilaseicento>>, rispose lo spacciatore giocando con la cinta.
Zak glieli diede e mise il resto nei pantaloni. Giudicando lo sguardo sulla faccia, l'avido ospite capì che voleva rimanere solo e se ne andò.
<<Chiamami, se ti serve altro>>, sentenziò Andrea prima di lasciare l’appartamento.
Nel momento in cui la porta si richiuse, la testa di Zak velocemente entrò in uno stato di sovra eccitazione, ma il suo corpo si rifiutò di muoversi. Aveva la droga in mano, ma gli serviva una siringa, allora tornò indietro nella camera da letto. Qualcosa nel muro della cassaforte attrasse l’attenzione dei suoi occhi, molto più potente della sua dipendenza. Camminò verso la cassaforte e lasciò la porta aperta. Dentro c’era un album che conteneva preziosi ricordi. Sistemò la droga sul tavolino da notte e scivolò sul letto. Catturati nelle foto, c’erano immagini e sentimenti così intensi che lo portarono ad uno stato di eccitazione come il suicidio. Janie gli poneva sempre sfide intellettuali, mentre lo stimolava sessualmente. Lo trattava come un figlio quando era malato, e ciò avveniva spesso. Gli donava amore, un amore che lui spesso tentava di evitare. Ma la sua bellezza era oggetto di ogni desiderio; quando lei era con Zak, faceva di tutto per perderla.
Girò la seconda pagina. Non sapeva, a quel punto, quante volte si fosse masturbato guardando quelle foto. Molti giorni. Era solo una foto che gli fece quando furono in vacanza a Parigi. Nella foto, il vento gli smuoveva i capelli dalla faccia e lei rideva. Dietro di lei c’era il Giardino del Lussemburgo, dove avevano passato la maggior parte delle due settimane. Era una classica foto da turisti, ma c’era il suo sorriso. Era così lontano dal dolore. Zak avrebbe fatto di tutto per riavere quel sorriso, quelle labbra, quel corpo, quell'esperienza.
Si sbottonò i pantaloni di pelle. Prima di iniziare, afferrò una bottiglia di Dom Perignon, la aprì e si fece una lunga sorsata. Non ne fece uscire neanche una goccia.
Sorseggiò più profondamente dalla bottiglia, guardò l’album di foto e vide che era troppo corto, evitò accuratamente l’ultima pagina. Raramente guardava l’ultima pagina. Come sempre, tornava indietro di due pagine. Con la bottiglia per tre quarti vuota, si abbassò i pantaloni fin sotto le ginocchia e versò il rimanente champagne sui suoi palmi. Questo era parte del rituale. L'ottimo champagne era qualcosa che lui ed Janie dividevano spesso. Poteva ancora dividerlo con lei. Non appena resistette alla sua bagnata erezione, i suoi pensieri scivolarono via. Era durante una delle loro ultime cene che lei gli disse qualcosa che lo ispirò a scrivere una delle sue più belle canzoni. <<Non posso vivere con te e non posso vivere senza di te>>, poteva sentirlo come fosse ieri. Le parole fluirono veloci come non mai. Zak concluse che quella era la spiegazione di tutto ciò che accadde fra i due. La canzone non era una scusa, ma una postilla della loro storia. Era la sincerità musicale che vendette oltre trecentomila copie in Italia, scalò le vette delle classiche di vendita e pose la Pozzo Rotondo Productions sul tetto delle case produttrici indipendenti. Offrì a Janie anche metà dei ricavi (perché senza di lei non ci sarebbe stata la canzone). Ella rifiutò educatamente. Quando il fortunatissimo tour arrivò a Milano, Zak volle disperatamente vederla. Non gliene importava niente di nulla e nessuno: avrebbe fatto di tutto per lei tranne farla andare via dalla sua vita.
La chiamò una dozzina di volte, le lasciò messaggi sulla segreteria telefonica, ma la ragazza non si fece mai vedere. Dopo lo spettacolo, Zak si meravigliava del fatto che non avrebbe commesso più lo stesso errore. Si presentò rapidamente, si cambiò con abiti asciutti, evitò di andare nel backstage. Lui e il suo autista si diressero all’appartamento di Janie, la chiamò con il cellulare quando era già sotto l’appartamento. Ancora il messaggio registrato.
<<Spero che tu sia in casa. Sono sotto le scale e, anche se dovrò spaccare la porta per rivederti, lo farò. Se stai chiamando i poliziotti, bene, fallo ora.. non mi aspetto nulla da te. Non mi merito niente da te…Fanculo, non so ancora cosa sto dicendo, se non che mi prenderò cura di te. Le parole non possono guarire ciò che ho fatto, ma il passato è andato...ho realmente bisogno di vedere ancora la tua faccia>>, spiegò Zak dopo il segnale acustico. Le parole echeggiarono nella sua testa, domandandosi se poteva dirle in maniera diversa. Era troppo tardi, pensò, mentre era già dentro il palazzo. Questa era una delle rare occasioni in cui dopo un concerto era sobrio. Come arrivò davanti all’ascensore, sentì una musica familiare. Si avvicinò alla porta e sentì il volume della musica crescere. Dopo, le sue parole divennero confuse e incontrollabili, mentre uno sparo echeggiò lungo il corridoio. Corse all’interno dell’appartamento, spalle basse, e con temerarietà abbatté la robusta porta di noce. Trovò Janie sul sofà, coperta di sangue, con gran parte della testa spiaccicata sul muro dietro di lei. Su un piccolo tavolo in legno trovò una penna a sfera e tante palline di carte stropicciate. Come poteva essere successo? Devastato, camminò lentamente verso lo stereo. Il singolo maledetto era stato programmato per essere ripetuto. Si domandò quante volte ella aveva ascoltato la canzone prima di spararsi. Dopo notò che a fianco del portatile c’era uno scritto. Numero uno con una pallottola, lo scritto chiazzato di rosso letto, pensò. Sconvolto e confuso; le sue lacrime scesero liberamente. Zak urlò con tutto il fiato che aveva nei polmoni. Era come se qualcuno avesse liberato un animale selvaggio. L’acuto rischiò di rompere i vetri. L’emicrania pulsava nelle sue tempie, e la sua intera testa stava per scoppiare. Che lei si sia uccisa perché avevano fallito o perché lui non voleva lasciarla? Era la canzone, una delle poche cose create autonomamente, che la portò a fare questo? Cos’era realmente successo? Ma subito un altro pensiero gli uscì dalla mente. Rimosse la pistola dalla sua mano e se la puntò alla tempia.
L’avrebbe raggiunta.
Era scarica. Janie sapeva che le sarebbe bastato un solo proiettile.
Zak ruppe ogni legame con quell’incubo e fu spinto in un altro ricordo. Riconobbe la stanza, familiare come la loro suite in luna di miele a Parigi, e si sentì come alleviato. Il letto era in disordine ed Janie stava sorridendo maliziosamente.
<<Che cosa hai voglia di fare?>>
<<Cosa?>>, gli rispose Zak, confuso.
Avevano bevuto quattro bottiglie di champagne e fatto l’amore due volte.
<<Che cosa hai voglia di fare?>> ribattè audacemente, portando Zak a rispondere.
Zak prese il vento in spalla e decise di giocare ancora. Se lei gli dava un opzione sul cosa vuoi fare, dopo certamente aveva un vantaggio sulla sua generosità.
<<Potresti anche farmi una proposta e dirmi che mi ami, oppure criticarmi.>>
La faccia di Janie espresse gioia. Le parole come amore erano le più dure da far uscire dalla bocca di Zak. Ancora una volta lei sorrise, come quando scendeva verso il suo girovita. Non ci volle molto per riportarlo alla realtà. Pochi minuti dopo, quando capì che era eccitato e stava per venire, Janie lo guardò e gli disse, con l’espressione più sexy che potesse trovare, <<Ti amo>>.
Zak venne con un lieve grugnito. Il ricordo potente gli diede qualcosa su cui lavorare, ma non ebbe piacere nell’orgasmo. Non ne ebbe mai più. Lancio l’album di foto e si distese sul letto, come morto, guardando il soffitto.
Per un secondo gli parve di sentire quella canzone ma era solo la sua fantasia. Il suo corpo stanco giacque sul letto per qualcosa che gli parve un anno. Alla fine le droghe sul tavolino erano reali. Ogni cosa di cui aveva bisogno era sul tavolo. Nascosta dietro la sveglia c’era una siringa e un cucchiaio annerito. C’era un bicchiere mezzo vuoto d’acqua e un accendino a fianco. Nel cucchiaio mischiò l’eroina e l’acqua, e dopo, usando l’accendino, riscaldò il fondo del cucchiaio fino a che la mistura si schiarì prima di metterci un piccolo pezzo di cotone nel cucchiaio stesso. Con mani tremolanti, aggiunse la cocaina e lo speedball era completo Essere una celebrità, non ti poteva permettere di avere le sue mani appassite con tracce troppo evidenti. Di solito si sparava la dose dietro l’avambraccio o sui piedi. Si iniettò anche sul collo, ma come si sentiva ora, non aveva il tempo di esitare. Come un esperto di agopuntura, fissò il suo avambraccio in cerca di una vena.
Fico pensò, e si esaminò le braccia con calma, mentre lo speedball iniziava il suo effetto.
Si gettò sul letto. Fra le droghe e le sue emozioni, si sentiva esausto. Era una buona cosa, le droghe ti rendono insensibile e lasciano scemare la pressione. Le droghe lo inondarono in fretta. Ci volle un po’ di tempo prima che riuscisse a realizzare che il suo braccio sinistro stesse toccando qualcosa. Lentamente rotolò. L’album di foto era aperto sull’ultima pagina. L’ultima pagina conteneva la foto dell’obitorio di Janie e una simpatica cartolina. Le lacrime che tratteneva sin da quel giorno cominciarono a scendere fino sulle guancie. La sua faccia era pallida, scarica, come se le sue forze l’avessero abbandonato. Stava affogando nei dispiaceri ma non credeva nella commiserazione e questo lo fece sentire ancora peggio. Si sedette con una domanda che gli rimbombava nella testa. Perché è dovuta morire? Non ebbe nessuna risposta e si riprese troppo in fretta. Perché è andato tutto a puttane? Ritornò nel salotto. Aveva bisogno di whisky.
Perchè?
Lui la amava molto.
Perché?
Cercò di fare ammenda. Cercò di fare buoni accordi con le norme della società. Voleva capire tutto ciò che succedeva a loro. Voleva lei per essere amato e non gli importava quanto fosse duro provare. Aveva mandato a puttane tutto.
Perché?
Voleva essere normale ma non era ancora possibile.
Perché?
Voleva stare vicino ad Janie ma era morta. Questo tormentava la sua fragile anima ma per un istante di pazzia, Zak concluse che il suo corpo non poteva più essere libero.
Grugnì, attaccando il suo salotto come se ci fosse una fottuta zuffa. Pugni e calci attaccarono i muri e i soprammobili senza difesa. Tirò un pugno con la mano destra e un grande buco si manifestò sul cartongesso. Strappò una lampada orientale e la buttò su un tavolo in mezzo alla camera colpendolo. Lanciò il posacenere di marmo su una placca, rovinandola. Il respiro sconnesso, la puzza di alcol, prese un disco di platino e lo spacco, cocci di vetro ovunque. I vetri rotti sul pavimento scintillarono come il sole riflesso sulla sabbia. Non gliene fregava di quante camere d’hotel distrusse lungo la sua carriera, ma in tutto quel tempo non danneggiò mai una chitarra. Questo era un rigido taboo fino ad oggi.
Camminò oltre la fila delle chitarre, prendendo una Stratocaster del ’68 e la fece oscillare, spaccandola finché non divenne legna da ardere. Con il suo atto di distruzione, si sentiva leggermente meglio. Camminò oltre e prese un disco di platino, pronto a tirare un pugno sul vetro. Il sangue fuoriuscì dalla mano che era stata assicurata da Lloyd a Londra.
Per la prima volta nella giornata sorrise.
Zak prese una bottiglia di Jim Beam dal bar e la tracannò. Il liquido lenì il forte dolore nel petto e lenì il dolore alla mano sanguinante, che aveva bisogno di qualche punto. Camminò verso il suo stereo Fisher, e usando la mano buona girò il ricevitore. Il lettore digitale era bloccato su una classica stazione rock. Era l’unica stazione buona del quadrante, come se non avesse suonato altro che la sua canzone. Zak era troppo nuovo, troppo recente. La stazione suonava roba degli anni Sessanta e Settanta. Riconobbe immediatamente la canzone; era degli Humble Pie’s, e si intitolava I dont’ Need No Doctor. Era quel tipo di rock grezzo che lo aveva ispirato a diventare un musicista. Dopo i Pie c’erano gli Allman Brothers. Zak poté capire come si sentiva uno che veniva flagellato.
Durante la pubblicità, ritornò in cucina per prendere un’altra birra. Dalle casse un negoziante diceva che i suoi prezzi erano i più bassi di tutta Italia. La musica di sottofondo che accompagnava la pubblicità era la sua canzone.
I suoi occhi si sgranarono, ma nessuna lacrima scese, come se lui avesse realizzato che ovunque egli fosse, non avrebbe potuto nascondersi. Come un uomo con la sua missione, andò verso lo stereo, prese il ricevitore e lo colpì con entrambe le mani.
Ci vollero molti strattoni prima che le luci si spegnessero. Con il ricevitore in mano inciampò all’indietro, e toccò i fili metallici di uno dei due altoparlanti Bose. Affranto e senza fiato, impazzì contro le grandi porte scorrevoli che portavano al balcone. Casualmente fece cadere il ricevitore d’alta tecnologia e disinserì la serratura che teneva bloccate le porte. Aria fresca attaccò i suoi sensi, lo fece rinvigorire e uscì sul balcone e guardò oltre. La sua Bentley luccicava nel parcheggio sottostante. Prese il telecomando, lo lanciò oltre il bancone, diretto verso la macchina. Dopo qualche secondo di meraviglia, se la direzione fosse stata giusta, avrebbe funzionato. Una crepa sul parabrezza si formò quando il telecomando la colpì e lo ruppe. Andò a prendere una birra e si distrasse quel tanto che stracciò la porta del frigorifero lasciandola aperta. Rimase aperto, e molta roba finì sul pavimento. La porta perse un cardine. Zak prese una birra, e la scolò a metà, e come un forte lanciatore di baseball la lanciò contro la sua collezione di chitarre, sfiorando la sua preferita: una Sunburst Les Paul vintage del 57. Prese un’altra lattina dal frigo rovinato e i suoi occhi tornarono sulle chitarre.
Le chitarre erano come dei bambini adottati e le amava ognuna in maniera diversa.
Certe chitarre gli davano determinati ricordi, ma ogni chitarra aveva l’abilità di creare la magia. Era questo potenziale che gliele faceva rispettare e ammirare, fino a quel pomeriggio. Ora, non gli importava nulla di quanto amore provasse, o quanto potessero valere, tutto quello che voleva era di provare del dolore. Il dolore lo portava vicino alla realtà. Lo portava vicino a Janie. Gli dava quel mondo chiamato musica, buona musica, e gli chiedeva un piccolo ritorno. Un piccolo spazio per creare, molti effetti dentro, e la pace dello spirito? Invece, lui aveva dell’altro buon materiale che poteva sempre usare, molti soldi che poteva contare, e nulla per cui lottare. C’era un tempo non troppo lontano quando combatteva come un dannato per cose così. Ora quello che possedeva era un pezzo di rock che avrebbe voluto ridare indietro. Ciò che vide all’apice non era così pittoresco come se l’era immaginato. Quello che aveva fatto era espressione artistica, le compagnie discografiche vendono per il capitale. Crebbe abbastanza disilluso con il sistema, ma che cosa avrebbe potuto fare? Senza l’industria non poteva condividere la sua musica. Non importava quanto fosse duro cercare di spiegarglielo, le note musicali non equivalevano a dei dollari. Lui faceva musica perché sin dalla sua infanzia, lui adorava il rock n’roll. Era la gente, la sua gente, scriveva musica dopo che aveva scritto per se stesso. Così dopo, perché non riusciva a dormire la notte?
Cercò la risposta.
Avrebbe ucciso le chitarre. Se non fosse stato per le sue chitarre, non ci sarebbero stati i suoi problemi. E salvò la dannata Sunburts 57 per ultima. Prese un’altra birra, rimpinzando la sua bocca avida.
La Bud gli uscì dalla bocca. Quando la lattina fu quasi vuota, la schiacciò e la calciò come un calciatore. Incazzato, prese la Les Paul Black Beauty e l’afferrò procurandole una breve ma violenta morte contro il muro. Sollevò una rara Telecaster sopra la sua testa e la bastonò contro il tavolo da caffè, rompendoli entrambi. Dopo prese un’altra Les Paul, e come con una mazza da baseball, colpì una lampada e altri oggetti prima di distruggerla definitivamente.
<<Fottuta robaccia>>, grugnì.
Sentì qualcosa che gli ricordava un leggero ritmo. C’era un batterista che suonava nella sua testa? Ci vollero un paio di secondi per realizzare che c’era un vicino che picchiava la mano sul muro.
<<Il volume è troppo alto?!>> Zak urlò nella direzione da dove proveniva il rumore. Non si fermò.
<<Lasciami in pace, stronzo!>>
Zak andò verso la camera da letto in direzione del comodino. Prese la coca e ne versò un cumuletto sul retro della sua mano che non era sanguinolenta. Dopo leccò il rimasuglio sul pugno, passandosela sui denti e sulle gengive. C’era un pacchetto di Marlboro sul tavolo. Ne prese una e se l’accese. Fece una profonda fumata e sentì i dintorni. Il vicino stava ancora picchiando sul muro. Il posacenere era pieno, così Zak posò la sigaretta sul bordo del tavolo. Voleva evitare un confronto, ma la testa di cazzo del vicino non voleva lasciarlo in pace. Andò verso il muro, prese la Smith & Wesson 357 Magnum, e la caricò fuori dalla camera da letto.
<<Okay, vicino del cazzo! Vogliamo giocare?!>>
Scaricò tre colpi sul muro già bucherellato. I colpi cessarono. Rise ancora. Direzionò la pistola verso uno dei suoi dischi di platino sull’altro muro, e distrusse le sfere luccicanti. Puntò la TV ed esplose. Un ultimo colpo. Tenne la pistola argentata con ammirazione. Poteva facilmente raggiungere Janie; tutto quello che doveva fare era premere un semplice e veloce grilletto. L’idea lo stuzzicava. Zak era pronto per la sua nuova vita. Con calma, gli occhi chiusi, sollevò la pistola. Il grilletto canzonava il suo indice sanguinante. La canna della pistola risultava piacevole sulla sua tempia. Riaprì gli occhi. Davanti a lui, due Les Paul lo deridevano. Ci fu un momento nella sua vita in cui questi strumenti furono sacri. La dedizione di un anno di pratica fu il lavoro che amava. Le chitarre erano la sua passione, la sua espressione, e il suo biglietto per l’oscurità. Ma tutto cambiò con una canzone. Ora quelle chitarre gli ricordavano che non poteva riprendersi la sua innocenza.
Non posso morire con della fottuta dignità?, pensò meravigliandosi che la rabbia lo stesse consumando.
Non poteva suicidarsi senza musica che lo interferiva. Mosse le sue braccia in direzione di una delle due chitarre. Ci fu un profondo rinculo di pezzetti di legno tutt’intorno. Fece un grande buco in mezzo alla chitarra. Prese la rimanente e la fracassò contro la porta di vetro. Uscì fuori dal balcone. Sotto un piccolo gruppo di persone erano intorno alla sua auto.
<<Qualcuno vuole un autografo?>>, disse tossendo.
<<Aspettate, aspettate un minuto. Ho un altro regalo!>>, urlò, e corse dentro la camera.
I suoi passi pesanti presero la sigaretta che si era dimenticato sul comodino. Si spense sul tappeto. Zak diede una gomitata alla parete, afferrò una centinaio di bigliettoni e corse sul balcone prima che il gruppetto di persone potessero andarsene.
<<E non dite che non vi ho mai dato nulla>> annunciò, lasciando i soldi liberi.
Molti spettatori si fermarono e se ne andarono dopo aver raccolto i soldi. Zak fece un cenno alla folla e tornò dentro.
Una chitarra era rimasta.
La fissò, era del 57 i colori erano bellissimi e meravigliosi. Era propriamente chiamata Sunburst. Rosso,arancione e giallo si mischiavano sul corpo di legno. Questa aveva le alette dorate così come i fonorivelatori. La Sunburst era la sua chitarra preferita. Ne aveva un’altra dozzina in un magazzino ma quella chitarra l’aveva comprata dopo che aveva firmato il contratto discografico. Era come se si fosse premiato per avercela fatta. Questa era la chitarra con cui aveva composto la canzone. Si approcciò con cautela e rispetto e gentilmente la sollevò. Si sedette sul divano a fiori in stile Indiano. In fondo, era contento di non averla spaccata. La sua mano gli faceva malissimo, ma voleva suonarla. Il sangue gocciolava dalla sua mano e imbrattò il corpo della chitarra stesso. Affascinato, Zak lo guardò scorrere. Non importava quanto fosse intossicato, le sue dita non l’avrebbero mai tradito, e quella chitarra era particolare perché rispondeva sempre alle sue chiamate. Incominciò scegliendo qualcosa che somigliasse al suono di Hendrix. Si fermò bruscamente. Qualcosa riguardo quell’ultima chitarra lo impressionò al puntò che non poté più continuare. In modo vago, gli ricordava una parte della canzone. Dopo essersi preso un profondo respiro, Zak recuperò la sua compostezza. I multimilionari come lui non erano supposti di piangere. Loro erano dietro alle lacrime o alla fine era quello che la società voleva farti credere. Cominciò a strimpellare uno dei suoi riff preferiti: Thin Lizzy, Don’t believe a word. Anche se la chitarra non era amplificata, poteva sentirla come se lo fosse. Lasciò che l’ultima nota uscisse sola e si fermò a riflettere. Era solito amare il sentimento di questi strumenti nelle sue mani. Era solito adorare far uscire le note e farle vivere. Amava tenere fra le mani questa chitarra. Dopo la sua mente viscida gli ricordò quanto aveva amato Janie. Velocemente uscì nel corridoio e lanciò la chitarra fuori. Cadde rumorosamente.
Guardò senza alcuna espressione la chitarra e pensò a Janie. Entrambe gli diedero momenti di intenso piacere, ma non fu mai abile a dichiarare la sua gratitudine. Non aveva mai detto la verità su come lo faceva sentire, su quanto l’amava, e quando lo fece, la canzone riaffermò che lui poteva tenere il becco chiuso. Alla fine lei doveva sopravvivere. Ma la canzone era pura e lui voleva suonarla per lei. Anche se il suo corpo fisico non era presente, lui poteva suonarla a lei in paradiso. Lui voleva suonare, ma era impaurito a toccare la chitarra.
Dopo Zak vide un’alternativa. Vide la bottiglia di whisky semi vuota, e la finì. Scivolò silenziosa dalla sua mano. Profondamente ubriaco e drogato, si accasciò sopra il piano. La sigaretta caduta sul tappeto cominciò a bruciare anche il piumone. Le fiamme velocemente si propagarono a tutta la camera da letto. I vestiti gettati alla rinfusa sembravano impazziti e presto la camera fu in fiamme.
Fino a qualche ora prima, la vita di Zak, non importava quanto miserabilmente, aveva avuto qualcosa che molte persone potevano solo sognare. Era un’illusione, ed era uno della rock n’roll elite: un eroe. Ora era reduce dalla sua personalità di base e nulla gli importava realmente. Soffocò la sua spiritualità con l’abuso di droghe. Provò la sua salute e la sua crescita personale con il vizio. Accecò se stesso perché era spaventato di vedere che il suo scopo, il suo dono di vita, era solo il vero se stesso. E l’unica volta in cui fu abile di trovare le sue verità era quando suonava la musica. Toccava dolcemente le chiavi d’avorio, le melodie prendevano vita con il tocco delle sue dita. Non gli importava quanto male gli facesse la mano; lui persisteva nel fare musica. Era determinato a suonare per Janie e per tutti gli altri angeli. Con ogni liquido che correva, ogni armonia, ogni accento musicale, il suo dolore interno si era placato. Ogni nota che faceva diventava un tutt’uno con la musica.
Sudando copiosamente, Zak sentiva qualcosa che si agitava alle sue spalle. Cercò di ignorarlo per più tempo possibile.
Finalmente si girò e vide le grandi fiamme inondare fuori dalla camera da letto. Inizialmente pensò che fosse un’allucinazione, ma il fuoco scoppiettava realmente e andava verso di lui. La sua chitarra preferita era ingolfata e morente. Volle salvarla ma non ce la fece. Rifiutò di interrompere il suo jamming. Janie lo stava ascoltando. Ogni volta che le sue dita toccavano le Steinway’s Keys, macchie rossastre le inzozzavano. Ignorò le piccole macchiette rosse, scivolando le sue lunghe dita su di lei. Le vene varicose pulsavano dal suo avambraccio, il sudore gli colava dalla faccia. Tutto ciò che voleva fare nella sua vita era suonare e ora lo stava facendo. Per il momento si sentiva libero dai suoi demoni. Prese coraggio e incominciò a cantare la canzone con il suo naturale timbro di voce. Il tappetino sottile divenne in breve tempo un muro di fiamme come se un onda gigante di rose infuocate si fosse alzata e si propagò intorno al piano. Non gliene poteva interessare. 
Appena le fiamme inghiottirono l’appartamento, Zak non urlò mai e non stonò una nota.


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